Helvia Recina, la madre di Macerata, Montecassiano, Recanati, Villa Potenza, etc....


Helvia Recina (ruderi) - Foto di Franco Stobbart

In passato la rete stradale era ampliata e integrata da fiumi navigabili lungo i quali transitava gran parte del commercio. Il fiume per la gente era considerato un grande amico che favoriva la vita e la prosperità e per questo non lontano dalle sue rive furono eretti dei bellissimi centri urbani, oggi considerati di grande interesse storico. 

E’ il caso del Potenza, fiume della Regione Marche, il cui nome latino era Flosis. Nel suo cammino sono molti i paesi che il fiume incontra e tanti di questi sono interessanti dal punto di vista culturale, artistico e architettonico. Nella pianura fra Recanati e Macerata in prossimità della zona dove oggi sorge la frazione di Villa Potenza, verso il III sec. a.C., in una vantaggiosa posizione, ampiezza e fertilità di territorio, sulla sponda sinistra del Potenza, ebbe origine l’abitato di Recina (detta anche Ricina). 

Non si hanno notizie certe sulle sue origini, gli storici suppongono essere stato un insediamento piceno. Posta alla congiunzione di importanti vie come quella che dal mare saliva verso San Severino e Pioraco per confluire, nei pressi di Nocera Umbra, nella via Flaminia, Recina assunse un’importanza amministrativa. Raggiunse il suo apice tra il I secolo a.C. e il II d.C.. Ricevette gli onori quale colonia romana per poi essere elevata al grado di municipio. Nel 205 d.C. al toponimo originario fu aggiunto l’appellativo di “Helvia” in onore dell’Imperatore Elvio Pertinace che ne aveva promosso un rilancio urbanistico. 

L’invasione dei barbari avvenuta all’inizio del V sec. d. C., che misero a ferro e a fuoco la zona, pose fine alla potenza e prosperità della città. 

La popolazione cercò rifugio sulle colline circostanti. Si ritiene che gli abitanti superstiti fondassero Montecassiano, Recanati e Macerata. 

Al degrado di Recina contribuì in seguito una norma degli statuti comunali che consentiva l’utilizzo dei materiali delle rovine per nuove costruzioni, nonché per le opere di arginatura del fiume. Oggi un percorso museale consente di visitare la zona archeologica, anche se la maggior parte dell’area dell’antica colonia di Helvia Recina è da riportare alla luce. 

Tuttavia le indagini archeologiche hanno rinvenuto sculture, statue, idoli, amuleti e altre anticaglie, nonché medaglie di bronzo e di argento di Giano, dei Consoli romani e degli Imperatori Augusto, Caio, Tito, Traiano, Severo e altri, tutti testimoni dell’antichità, del lustro e della grandezza dei recinesi. 

Sono visibili i resti di una strada lastricata, di un serbatoio d’acqua, ruderi di sepolcri e vestigia di abitazioni con dipinti e mosaici. Ma ciò che resta e fa supporre che all’interno dell’antica città romana ci fosse una vita molto intensa e ricca, dando risalto alla magnificenza dell’antica Recina è il suo ampio teatro che risale alla piena età augustea e rappresenta oggi il più grande teatro romano della regione. Circondato da un portico, settantadue metri di diametro, tre ordini di gradinate, poteva ospitare circa 2000 spettatori. Era ricoperto di marmi con capitelli dorici e corinzi. 

Oggi tutto ciò è meta di un turismo ricercato e sede di affascinanti rappresentazioni teatrali che ancora si ripetono nelle serate estive. E’ il caso di ricordare che visitare Helvia Recina non significa solo storia e reperti della Roma antica, ma anche poter vivere pienamente il patrimonio archeologico di epoca medievale di grande rilievo e riscoprire i prodotti tipici e gli antichi sapori della zona.

Franco Stobbart

Treia: "Il seme è la memoria" - Introduzione di Alberto Meriggi al discorso dell'8 dicembre 2013



Ante Scriptum -  In un certo senso la memoria viene prima del fatto compiuto ma è presente anche nella sua manifestazione, questo a dimostrazione che essa è, in fieri, il motore di ogni avvenimento. La memoria è la madre. Senza memoria non esiste un evento futuro. La cosa è facilmente dimostrabile osservando che ogni azione  avviene attraverso la rimodulazione delle pulsioni energetiche che ne sono la causa e tale rimodulazione non è altro che un ricollocarsi degli aspetti funzionali stipati nella memoria. E' in seguito a queste varianti, forse dettate dal caso forse causate da una volontà "superiore", che l'evoluzione è resa possibile. La potenzialità intrinseca memorizzata,  rappresentata dalla capacità espressiva contenuta nel seme, comprende anche le varianti di adattabilità a diverse condizioni ambientali, che prendono forma in risposta conseguenziale. Il seme  è  memoria, come lo è la sua espressione nel vissuto.  Per questa ragione qui anticipiamo l'introduzione di Alberto Meriggi al discorso che si terrà a Treia  l'8 dicembre 2013 (P.D'A.)



"La Memoria è nel Seme"

Ringrazio l’amico Paolo d’Arpini per avermi invitato ancora una volta a partecipare ad una iniziativa del Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia 

La mia presenza non attiene alla sfera delle competenze nel settore ma è motivata solo dal legame di stima e amicizia con Paolo il quale desidera avere in questi incontri anche una voce che tenti di coniugare le tematiche di volta in volta trattate, con la storia, la memoria e le tradizioni locali. Io nella vita, facendo lo storico per mestiere ed essendo treiese, non ho potuto fare a meno di addentrarmi con i miei studi nel passato della mia città e delle mie zone e qualche volta sono riuscito a farlo diventare storia, cioè conoscenza. 

Confidando forse troppo nel mio sapere e nelle mie capacità, proverò ad esporre qualche idea per il dibattito prendendo spunto da ricordi personali e da riscontri offerti da documenti concernenti il nostro passato locale. Il tema di questa giornata è “La Memoria è nel Seme”. Ho letto nel blog del Circolo una nota di Paolo d’Arpini dal titolo “La posta in gioco” nella quale egli lamenta il fatto che “da quando l’agricoltura industrializzata si è imposta come modello agricolo vincente, la legislazione europea in materia di semi è diventata sempre più restrittiva dei diritti degli agricoltori e del loro libero accesso ai semi. Allo stesso tempo ha permesso sempre di più ad una manciata di industrie multinazionali di monopolizzare il mercato”. 

Un aspetto estremamente interessante sul quale si potrà e si dovrà discutere. Qui il seme che cita Paolo è qualcosa di concreto, è l’organo di propagazione per eccellenza che attraverso la fecondazione porta alla pianta e al frutto: il seme della mela, il seme dell’erba, il seme del grano. Ma questo straordinario termine da sempre ha svolto un ruolo da protagonista in tantissimi altri ambiti: nella letteratura, nell’arte, come allegoria, come metafora, spesso avvicinato ad altri termini per indicare il meglio o il peggio di qualcos’altro: il perdono è il seme dell’amore, ma anche l’intolleranza è il seme dell’odio, ecc. Per non parlare della sua presenza e dell’uso nei testi sacri di ogni religione: la Bibbia, il Vangelo, il Corano ed altri, nei quali la parola seme è utilizzata in parabole, allegorie, metafore, proverbi ed esempi. Chi non conosce il Vangelo di Matteo al capitolo 13 in cui sono protagonisti i semi della zizzania e della senape e dove svolge un ruolo fondamentale il seminatore? 

Anche il Corano utilizza il termine seme più volte e perfino come metafora della vita e della morte. Nel versetto 95 si legge: “Allah schiude il seme e il nocciolo: dal morto trae il vivo e dal vivo il morto”. Dunque vita e morte nel seme. Ecco un altro interessante spunto su cui discutere. Ma in questo contesto non vorrei addentrarmi più di tanto in questo tipo di riflessioni per privilegiare, invece, ciò che a tutti noi, appassionati della natura, forse più interessa: il seme reale, concreto, visto come origine di ogni forma di vita, soprattutto quella vegetale. 

Cioè il seme inteso come quell’organo che, gettato nel terreno, avvia un processo che fa sviluppare la vita e rigenera se stesso producendo altri semi. 

A me a questo punto vien voglia di lanciare una provocazione che sintetizzo in questa mia riflessione su cui potremmo discutere: a me pare che, in agricoltura e nella vita, non è tanto il seme che conta ma il terreno in cui lo si getta. E che ciò possa esser vero è stato testimoniato da tanti esempi tramandatici dalla storia anche delle nostre zone. 

Se è vero che un cuore duro non può far attecchire il seme dell’amore, è altrettanto vero che un terreno arido e impenetrabile non può accogliere alcun seme e in esso non può attecchire nulla. Il terreno deve essere accogliente per il seme! E qui si apre una pagina di storia millenaria legata al mondo del lavoro e della produzione. Quanta fatica nei secoli per preparare il terreno alla semina! 

La storia del lavoro ci dice che nelle nostre zone, come ovunque, da sempre fino agli inizi del Novecento tutti i lavori agricoli erano svolti con la forza delle braccia di uomini, donne e bambini, aiutati da animali e da attrezzi rudimentali. Da qualche fonte documentaria (contratti di compravendita, locazione, affitto, inventari di aziende) si evince che anche nelle nostre zone prima del Trecento non si riuscì mai ad avere un indice di resa che raggiungesse il 4 per uno: cioè ogni chicco di grano seminato (ma anche di altri cereali più poveri) solo allora riuscì a darne quattro ma, ripeto, solo dal Trecento in poi, prima il rapporto era uno a due e raramente uno a tre e i tre semi prodotti consentivano appena la sopravvivenza, perché uno serviva per seminare ancora, il secondo per mangiare, il terzo per il padrone, se non vi erano carestie che erano sempre in agguato. 

Il risultato del quattro per uno si ottenne attraverso un’ agricoltura di tipo forzatamente estensivo, cioè aumentando i terreni da coltivare attraverso un forte diboscamento e un sistematico attacco all’incolto. Non poteva essere praticata una agricoltura intensiva perché il terreno non si poteva far produrre di più in quanto non c’erano concimi al di fuori di quelli naturali, né macchinari capaci di muovere in profondità il terreno, come invece avverrà dalla fine dell’Ottocento in poi, ma a discapito della genuinità dei prodotti e di un armonico equilibrio naturale. Col passare dei secoli il rapporto tra il seme seminato e quello raccolto migliorò, ma aumentò anche la richiesta di consumo perché l’Europa, compresa l’Italia, vide un forte aumento della popolazione determinato da fattori noti che non sto qui a ripetere. 

In Italia si passò dai 13 milioni di abitanti del 1700 ai 18 del 1800. Negli stessi anni nello Stato pontificio la popolazione crebbe da 1.950.000 unità a 2.300.000 (più del 20%) e nelle Marche passò da 521.000 a 700.000 (più del 40%). Questa vivace crescita della popolazione accrebbe ovunque in Italia la domanda di cereali e di prodotti agricoli. Si passò in breve ad un esasperato sfruttamento della fertilità naturale dei suoli alla messa a coltura di aree marginali dirupate o argillose. Ciò provocò la riduzione delle rese unitarie e l’erosione degli spazi della proprietà collettiva e dell’allevamento ovino con vistosi fenomeni di dissesto idrologico. Ne conseguirono ovunque l’instabilità dei raccolti e l’intensificarsi delle carestie dopo quella devastante e terribile degli anni 1763-67 che costrinse torme di contadini affamati ad abbandonare i poderi per riversarsi nelle città a chiedere l’elemosina. 

Ma lo squilibrio tra l’aumento della popolazione e la disponibilità di prodotti agricoli stava creando problemi in tutta Europa. Ovunque si cercava di porre rimedio a tali problemi e soprattutto al dilagare della fame con iniziative pratiche e con progetti basati su teorie avanzate da studiosi e pensatori. 

Tutti conoscete la teoria del pastore protestante inglese Thomas Robert Malthus che ipotizzava un “controllo preventivo” delle nascite basato sulla castità. Secondo Malthus ciò avrebbe impedito l’impoverimento dell’umanità: se si è in meno a mangiare il cibo basta per tutti! Un’altra teoria importante fu quella fisiocratica, una dottrina economica (Francois Quesnay) che si affermò in Francia verso la metà del Settecento. 

Essa sosteneva che l’agricoltura era la vera base di ogni attività economica e solo essa era in grado di produrre beni, mentre l’industria si limitava a trasformarli e il commercio a distribuirli. Dunque, secondo i fisiocratici, bisognava migliorare l’agricoltura in tutti i suoi settori al fine di avere più produzione. Questa dottrina si diffuse ben presto in tutta Europa e giunse perfino a Treia dove fu abbracciata e applicata dalla locale Accademia Georgica che nel 1778 cominciò ad interessarsi di sperimentazione in agricoltura raggiungendo notevoli risultati. 

Nell’Accademia Georgica di Treia uno dei protagonisti delle sperimentazioni fu proprio il seme. Vi cito soltanto alcuni di quegli studi e alcuni risultati ottenuti. Dico subito che l’Accademia si distinse ben presto per gli studi e i tentativi di estrarre l’olio dai semi. All’epoca l’olio di oliva era costosissimo e poteva essere usato solo dalle classi signorili. Ma l’olio serviva anche come combustibile per le lampade e le luminarie. Consapevoli di tutto ciò gli accademici iniziarono sperimentazioni per ricavare olio da fonti alternative. I loro tentativi furono rivolti ai semi di girasole, di colza, di rapa, di lino e, perfino, delle “perelle delle fratte” o sanguinelle, ma ottennero ottimi risultati attraverso l’estrazione di olio commestibile dalle granelle dell’uva. Quest’ultima sperimentazione, di lì a poco, divenne una vera e propria attività commerciale. Per dimostravi l’importanza che le sperimentazioni degli accademici e i semi ebbero nell’attività agricola locale, vi leggo un brano che ho tratto dalla relazione di Fortunato Benigni, il personaggio più rappresentativo dell’Accademia di quegli anni (fine Settecento). 

Il Benigni scriveva: “I soci tutti, di lodevole emulazione ripieni, a gara hanno fatto per provvederci di nuovi semi, e di piante esotiche insolite ad allignare fra noi”. E quali sono stati questi semi mai visti nelle nostre zone? Ebbene, furono quei semi ricercati e fatti venire da lontano per impiantare quelle nuove colture fino ad allora non praticate in zona, ma ritenute assolutamente necessarie per migliorare l’agricoltura nel suo complesso. L’Accademia importò soprattutto semi di foraggere sconosciute nelle Marche e nello Stato pontificio, come l’erba medica, la lupinella, il lojetto, la sulla e la verza alta. Queste foraggere importate dall’Accademia treiese divennero poi colture usuali nella zona. Esse non erano conosciute dai contadini locali in quanto esigenze di mercato e il fabbisogno alimentare imponevano nelle campagne la monocoltura granaria, la quale però causava l’esaurimento della fertilità naturale dei terreni, rendendo indispensabile lasciare i campi a maggese, cioè a riposare inutilizzati per il tempo necessario al recupero della fertilità. Con i foraggi, invece, si evitava di lasciare incolti i terreni rendendo più veloce il recupero della fertilità e, nello stesso tempo, si otteneva un abbondante nutrimento per il bestiame, tanto che, come attestano i catasti, dopo la diffusione dei foraggi l’attività zootecnica nelle campagne treiesi e marchigiane ebbe un notevole incremento. 

Certamente l’introduzione di quei nuovi semi comportò anche una maggiore attenzione alla cura dei terreni e stimolò il rinnovamento e l’adeguamento degli attrezzi agricoli: i proprietari, vedendo i vantaggi arrecati da tali colture, accolsero l’introduzione di aratri in ferro e cominciarono a mettere a disposizione dei contadini attrezzi meno rudimentali, anche se le braccia degli uomini e la forza degli animali rimarranno indispensabili e insostituibili per almeno un altro secolo e mezzo. La sorte del seme, che ha sempre rappresentato la vita e la morte, continuerà a dipendere a lungo dal seminatore che lo getta e dal terreno che lo accoglie. Solo oggi questo processo antico e naturale sembra non essere più frequentato: il terreno è scosso, sconvolto e stimolato da una eccessiva macchinizzazione e, purtroppo, anche alterato assai spesso dalla chimica che moltiplica e abbellisce i semi ma a discapito della loro genuinità. 

Potrei dilungarmi ancora su queste tematiche utilizzando gli stimoli offerti dalla storia e dalle tradizioni locali, ma il tempo a mia disposizione mi obbliga a fermarmi qui. Spero di aver offerto qualche spunto interessante per un dibattito che a mio parere potrebbe prendere avvio dalla considerazione e domanda che mi sono posto all’inizio: non è tanto il seme che conta ma il terreno che lo accoglie! E’ così? Parliamone! Grazie.

Alberto Meriggi


Treia - Programma: 8 dicembre 2013

La manifestazione si svolge con il patrocinio morale della: 

Nuovo Mondo.. tra astrologia, karma, dharma ed intelligenza umana...




Quando le tre caravelle di Colombo approdarono sulle sponde del
continente americano, gli Europei coniarono un'espressione
emblematica; parlarono di "Nuovo Mondo" come se fosse la scoperta più
sorprendente che potesse esser stata fatta sino allora. 

Terre selvagge, abitanti altrettanto selvaggi, odori e cibi sconosciuti e
appunto nuovi. Si potrebbe dunque dire anche rivoluzionari (perchè
no?) per gli abitanti del vecchio (continente) che mai avrebbero
pensato che ci potesse esser vita al di fuori delle loro conoscenze,
delle loro considerazioni, insomma del loro "piccolo mondo antico".
Stiamo per assistere alla stessa identica rivoluzionaria scoperta: sta
per esser spazzato via il vecchio, ormai logoro e spento, per andare
verso il nuovo, forse ignoto ma per sua stessa natura, affascinante.

Dal basso, dal più profondo e viscerale humus nascono le forze che
premono e poco dolcemente spingono al cambiamento. Un braccio
libertario e rivoluzionario che schiaccia chi non è disposto a cedere
il proprio potere (spesso personale) perché ci sia libertà ed
eguaglianza per tutti, non incline ad accettare eventuali compromessi
e disposto a tutto pur di ottenere quel che vuole.

Non può certamente esser considerata solo una coincidenza priva di
significato l'entrata e il posizionamento di Plutone nel Capricorno
proprio durante i moti rivoluzionari dell'allora Francia monarchica
che reclamava pane al posto di brioches, libertà e giustizia sociale
al posto di limitazioni e rigidi schemi politici, le cui conseguenze
hanno modificato i presupposti ieologici, filosofici, sociali e
politici dell'Europa tutta.

Saranno forse le Piramidi a lanciare la nuova moda? La crisi egiziana,
scoppiata poco dopo quella tunisina, sta suscitando apprensione nel
mondo della diplomazia e rischia di trasformarsi nell'epicentro di un
terremoto le cui conseguenze sono ignote anche agli stessi soggetti
coinvolti nel dramma che si sta consumando sotto gli occhi di tutti.

Si può solo ipotizzare, e sperare, che il risultato di questo balzo
felino (le rivolte maghrebine sono cominciate sotto il famigerato e
tanto temuto "anno della Tigre di Metallo" (2010) che come noto per i cinesi
è sempre stato un animale particolarmente passionale ed aggressivo)
sia un'apertura alle riforme e un nuovo volto, più democratico e
libertario rispetto al regime che il "Rais" Mubarak ha imposto, con la
complicità e il sostegno degli Stati Uniti, per circa una trentina di
anni. 

Possibile ritorno al fuoco, dunque: terrorismo? Eruzione vulcanica?
Come conciliare forze sotterranee così potenti con l'idea di pace,
prosperità e fraternità che dovrebbe comportare un mondo più
democratico e libero? Altro elemento di destabilizzazione che non può
né deve esser sottovalutato, è l'ingresso del Signore dell'inconscio e
dell'oblio, del sogno e dell'inganno, ovvero Nettuno, nel suo naturale
domicilio: il segno dei Pesci (nel quale è entrato dal 2011).

Nettuno sguazza nelle acque oceaniche, tra correnti contrastanti e
vastità di spazi, dove i colori si mescolano con armonia ma proprio
per questo confondono un occhio poco allenato alle sfumature più
sottili. Il suo domicilio diurno, come detto, cade nel segno che
chiude l'intero cerchio zodiacale, ma quello notturno risiede nel
Sagittario, segno proiettato verso il futuro e l'ignoto, come
risaputo.

Interessante è dunque porre l'accento proprio sugli aspetti più
significativi e pregnanti di Nettuno, che rappresentano l'interiorità
personale che si manifesta non tanto o non solo nell'ambiente
circostante ma comporta un'eco di più ampio respiro, coinvolgendo
anche "l'altro" inteso in chiave di "straniero" o comunque "lontano"
da sè.

Chiama in causa l'inconscio (Freud, padre della psicanalisi, aveva nel
proprio tema natale, Nettuno nel segno dei Pesci!), le allucinazioni,
le droghe e gli eccessi di natura psicologica. Ci potrebbe essere una
liberalizzazione dei costumi, potrebbero esser messi nuovi fiori nei
cannoni, oppure rendere legale l'uso di cannabis! Sicuramente il
richiamo delle sirene renderà, almeno inizialmente, l'atmosfera molto
più lasciva e rarefatta rispetto agli anni di austerità precedenti.

In primo piano la fantasia, la creatività (durante il suo transito nel
pieno del XVI Secolo sono nati artisti del calibro di Bach e Haendel)
il senso religioso ( innegabile la natura filosofica e speculativa che
sfiora il misticismo sia dei Pesci sia del Sagittario) che potrebbe
suscitare un profondo risveglio di coscienze assopite da una
uniformità eccessivamente imbevuta di razionalismo dettato dal
precedente (ed attuale, ancora se per poco) transito di Nettuno
nell'Acquario. Riscoperta di nuovi valori etici (ma non è da escludere
anche scoperta in chiave scientifica che potrebbe suscitare remore
morali o religiose, mettendo in crisi l'attuale scala di valori),
solidarietà sociale unita alla "fede" (non necessariamente in una
divinità ma anche nell'uomo che incarna il ruolo divino )
Acqua che irriga, acqua che inonda (si potrebbe parlare di un nuovo
Tzunami, terreno o spirituale che sia, sarà pur sempre profondo e
potente) acqua che spegne, acqua che disseta.

Saranno richieste maggiori garanzie per la famiglia e per i giovani,
istanze sociali le cui risposte non saranno più arginabili con manovre
politiche di minor rilievo ma richiederanno azioni concrete di più
ampio respiro.

Plutone, Urano, Nettuno: pianeti considerati dall'astrologia (e così
definiti) "lenti" poichè impiegano anni, a volte Secoli a spostarsi da
un segno zodiacale all'altro, e che comportano cambiamenti altrettanto
lenti ma altrettanto profondi quando viaggiano e cambiano "sede" e
noi siamo testimoni di un "momento" storico particolarmente
significativo e delicato.

Torniamo al nuovo: i nostri antenati hanno scoperto nuove terre, nuove
popolazioni, nuove coltivazioni, nuovi orizzonti. A noi cosa toccherà
scoprire? Non c'è da escludere che potrebbero arrivare conferme di
popolazioni presenti su altri pianeti, magari neanche troppo lontani
dal nostro "piccolo mondo antico" oppure non sarà necessario spingere
troppo oltre il naso per la vera e sorprendente scoperta del nuovo
millennio, ovvero che l'uomo non sempre è lupo all'uomo e non sempre
agnello, ma è un suo pari, con eguali diritti ed eguali doveri, da
onorare.

Insomma, qualsiasi sia la scoperta e soprattutto la "rivoluzione"
l'importante è prepararsi, ma ancor di più non mancare a questo
importante evento, preannunciatoci dal Cielo, ancora una volta guida
dell'umanità, proprio come tradizione vuole!!

Angela Braghin

La rivoluzione del corpo... parte dal basso


Dipinto di Franco Farina


In tutto il Mondo ciò che viene dall'alto è più forte di ciò che si
vuole dal basso: tutto ciò che resta originario nell'Uomo non è il
Verbo ma il Corpo. Julian Jaynes, a ragione, osservava, a proposito
del linguaggio dell’Iliade, che non compaiono parole per designare la
coscienza od atti mentali. Le parole presenti nell’Iliade, che in
seguito vennero a designare "Idee", prima, e "Res Cogitans", poi,
hanno significati concreti. Le braccia sono forti, i piedi veloci ed
il "pensare" non differisce dal "sentire", "vedere", e "dire". La
parola chiave per entrare nel Mondo Omerico è PHRÉN (dal Sanscrito
"Pràna", soffio, vita). Phrèn, in Greco, significa DIAFRAMMA ma il
campo semantico del termine antico, quello Omerico, è imponente: Phrèn
è MENTE come rivela l'Italiano Freno-logia, Schizo-frenia, Frenesia,
etc.; Phànai (e non Logos!) è PENSIERO che si esprime con la parola,
da cui l'Italiano Pro-feta, Fana-tico, etc.; Phronèin è EMOZIONE (mèga
phronèin, nel testo Omerico è tradotto con "alta emozione") prima di
trasformarsi in Saggezza (Phronesis). Nello stesso modo si potrebbe
procedere con Eidos che è "emozione che si consolida nell’idea"
(Richard Broxton Onians) ma che presuppone vedere e provare affetti
come un tutt’unico (cfr: Le Origini del Pensiero Europeo). Omero parla
un LINGUAGGIO SIMBOLICO (dal Greco "sym" e "bàllein", mettere insieme,
convenire, pattuire), un linguaggio "debole", incurante del principio
di non contraddizione e per questo ricco di significati che, di per
sé, non sono immediatamente e necessariamente componibili. Più
prossimo all'Italiano del Tedesco che non determina quelle che
Lévi-Strauss chiamava "fluttuazioni di significato": benissimo così!.


Per questo in Italia si parlano infinite lingue e dialetti mentre in
Germania,od in Inghilterra, no: dietro la nostra Lingua c'è un
arcipelago di monti ed insenature dove hanno vissuto Uomini
straordinariamente provinciali, meravigliosamente coesi ed autentici:
Uomini emotivi, capaci di amare!. Il linguaggio simbolico, tuttavia,
ha un limite: consente la comunicazione solo all'interno del gruppo,
della tribù o del villaggio che condivide quel particolare mito, che
fissa quella determinata connessione di significati: il linguaggio
simbolico non consente la Civiltà. La Civiltà è "l’arte di vivere in
Città di dimensioni tali che i loro abitanti non si conoscono tutti
fra loro" (Julian Jaynes): l'Atene del V secolo, come Firenze del XV
secolo, la Roma del dopoguerra cui guardava Pier Paolo Pasolini come
la New York di Steve McQueen. Per "convivere" (vivere insieme) senza
risultare "simpatici" (dal Greco "sym" e "pathos", sentire insieme) è
indispensabile passare dal "Sentire caldo" all'"Essere caldo" in un
processo di Oggettivizzazione che, naturalmente, nasce molto prima
dell'Era Industriale come credevano Freud, Marcuse quanto Froom, anche
se con accezioni molto diverse. L'Anima di Socrate non è quella di
Platone!. Socrate è un proto-schizofrenico, se non del tutto tale, che
"sente" la Voce del suo Daimon in uno stato di dissociazione
Shiamanica che gli consente di Educare ma non Praticare la "cura di
sè": questo Socrate sarà soprattutto quello Cinico. Platone invece


Inventa la Psyché come convenzione Epistemologica che conosce la
Verità prescindendo dall'esperienza sensibile: con Numeri ed Idee. La
vittima sacrificale di questa costruzione sarà il Corpo ... "e così,
liberati dalla follia del corpo (tés tou sómatos aphrosynes), come è
verosimile, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella
purezza della nostra anima (psyché), tutto ciò che è puro: questo io
penso è la verità (epistemè)". Il gioco è chiaro: per creare un
linguaggio universale, bisogna prescindere dalla certezza sensibile
ossia dalle informazioni del corpo. Ma perchè tutto questo?, "qui
prodest"?. Giova all'Ordine, all'avvento di "altre voci" rispetto al
Corpo che si manifestano come Autorità: prima esterne e poi
interiorizzate nella falsa coscienza dell'IO. Non c'è Civiltà senza
Gerarchia (dal Greco "Hier" ed "Arcos", ordine sacro) e non c'è
Gerarchia senza Unisono: senza un'unica voce. Prima la voce delle
statue nell'Acropoli, poi la Scrittura dell'Accademia fino al Blog di


Beppe Grillo: "il portavoce"!. Usciti dal Corpo siamo diventati
PERSONE che interagiscono con altre Persone che possono benissimo
essere una Voce di Internet quanto una "Persona Giuridica" senza
soluzione di continuità: perso il Corpo non è possibile l'ancoraggio
col Reale ed inizia la trance ipnotica. Poco importa il "carattere"
della trance: è comunque ipnotica. Mamma Roma è un Corpo Inanimato
che, nel suo vagare fra i viali di Roma, sente "voci" che la macchina
da presa registra come "phantasmi". Mamma Roma non "sente" niente, è
completamente disancorata dal Corpo che indossa, fa prostituire e
"Lavorare" (attenti a Marx ed all'apologia del Lavoro!): cosa succede
al Corpo non tocca Lei!, non è Lei. Questa è la Vergogna (Shame) di
Brandon Sullivan quanto la fine iniqua dei Corpi delle 120 Giornate di
Sodoma. L'unica differenza è che i ragazzi di Pasolini sono corpi
eterodiretti mentre il ragazzo di Mc Queen lotta con sè stesso. Mamma
Roma tenta la fuga "drogandosi" con la dipendenza da Ettore: Brandon
Sullivan è arrivato all'annientamento del proprio Corpo senza che
nessuno se ne accorga perchè visto da fuori sembra sanissimo. Noi
invece no? Anche Noi!, tutti noi, nessuno escluso. Il nostro Corpo si
sta ribellando alla nostra ANIMA PERCHE' CREATA E NON GENERATA!.
Cefalee, Ulcere, Malattie Autoimmuni, Anoressia, Bulimia, fenomeni
dissociativi, disturbi dell'umore, Post Traumatic Stress Disorder,
compressioni alla spina dorsale ed ernie senza traumi rilevanti (colpa
dell'ergonomia?), riduzione delle difese immunitarie, allergie,
incompatibilità alimentari e tutta l'infinita sequenza delle malattie
"sine morbus" che recentemente includono anche quelle
"psico-somatiche". I Corpi si stanno ribellando e noi reagiamo con il
trattamento: alchool, droga, rapporti di dipendenza psicologica,
farmaco dipendenza, psicanalisi, religione, disaffettività, etc..


Qualunque cosa pur di far tacere la Rivoluzione del Corpo che,
immancabilmente, registra una Vita insopportabile. Qualcuno lo chiama
Inconscio e via verso la conquista dell'Inconscio che si manifesta nei
Sogni: tutto bene ragazzi, tutto sotto controllo. Siamo vittime di
Idee che non ci appartengono e che tentano di annientare la Via,
Verità e Vita del Nostro Corpo. Non c'è bisogno di nessuna
ri-educazione emotiva, di nessun amico a pagamento, di nessun maestro
di Idee nè controcultura; c'è bisogno di ASCOLTARE SE STESSI con
l'unica vera voce che c'appartiene: il Nostro Corpo. Ricordatevi che è
la Pubertà la prima, vera, Rivoluzione del Corpo e questo corpo che ci
siamo tutti conquistato è lì, pronto ad essere scagliato come una
freccia fintanto che c'è, fintanto che ne possiamo disporre. Non
lasciatevi ingannare, non fatevi irretire perchè questa è la vera ed
unica .... RIVOLUZIONE DAL BASSO!
 

Ship o' fools

Treia si rianima di vita con la presenza di Ciccì e Coccò....


Treia -Caterina Regazzi nell'orto con le due galline


Le due galline, di cui leggerete qui sotto la storia scritta da Caterina, sono ancora vive e vegete. Anzi ormai sono diventate una sorta di animali da compagnia. Soprattutto per me che stando a Treia da solo non ho molto da chiacchierare...  Un inverno è trascorso e forse anche un prossimo trascorrerà, spero impunemente.
La presenza di queste due galline, Ciccì e Coccò, è simbolica di un rapporto possibile con gli animali senza dover sottostare a meccanismi speculativi. Certo, sia ben chiaro, quando vedo un uovo nel loro nido le ringrazio e me lo mangio... ma tutto avviene spontaneamente e senza sforzo. (P.D.A.)


Il primo uovo


Ed ora ecco il racconto di Caterina:

Nel 2012 ho coronato un piccolo sogno: acquistare la parte di orto di Treia che era dei vicini e così oggi possiamo pensare di utilizzarlo liberamente ed integralmente.

Un piccolo grande problema di questo orto è la massiccia infestazione da lumache. Dico “infestazione”, ma le lumache lì sono a casa loro, dove sono sempre state e quindi….diciamo allora, “presenza”.


Mia nonna e mia madre, le lumache, anche se solo occasionalmente, le mangiavano; ricordo di una volta che io ero in vacanza a Treia e le andammo anche a cercare nei campi, poi le facemmo “spurgare” per un paio di giorni nella farina e poi saranno state cucinate… Spero di non far inorridire i vegetariani stretti o i vegani, ma l’equilibrio dell’ambiente naturale si basa anche su questi sistemi e sicuramente i nostri progenitori si cibavano abbondantemente di piccoli animali come questi, così come fanno ricci, galline ed altri animali frugivori od onnivori.

E proprio pensando a che tipo di “lotta biologica” si poteva mettere in atto contro le nostre lumache, pena l’impossibilità di coltivare alcunchè, senza veder bucherellate tutte le foglie commestibili come è stato finora nel nostro pezzetto, a Paolo è venuto in mente che potevamo ospitare, magari temporaneamente, nel nostro orto una o due galline. 


Mi sarebbe piaciuto anche avere dei ricci, li ho già avuti tempo fa, in gabbia, e sono animali molto simpatici ed estremamente vitali e ghiotti di lumache, che mangiano sgranocchiandole con tutto il guscio, ma i ricci non si trovano comunemente e facilmente, escono di notte e non è semplicissimo catturarli.


E così abbiamo deciso: che galline siano! Inizialmente avevamo pensato ad una singola gallina, ma la signora Adele dell’allevamento di ovaiole in batteria (con gabbie modificate) che conosco, mi aveva consigliato di prenderne due, perché, mi aveva detto “una da sola si intristisce e potrebbe anche morire!” E abbiamo anche pensato (veramente io non ero tanto d’accordo) di prendere proprio due galline di batteria, magari a fine carriera per ridare la libertà a due esserini destinati di lì a poco, ad essere macellati e a vivere fino alla fine del periodo di allevamento, in gabbia. Ma, per una gallina, vissuta sempre per la sua pur breve vita, in gabbia, si, ma con la pappa pronta ed al calduccio, la libertà è una cosa che vale la pena sperimentare e vivere?


L’orto è abbastanza grande, praticamente incolto, pieno di erbe commestibili, lumache, terra e tericcio, sassolini, con una piccola integrazione di pane secco sbriciolato, farine raccattate qua e là e magari un po’ di granturco spezzato non dovrebbero aver problemi. Un problema potrebbe esserlo la temperatura esterna: siamo a metà febbraio, la primavera è ancora lontana, lo sbalzo di temperatura è notevole. Strada facendo, mentre arrivavamo a Treia guardavo gli orti lungo la strada e ho visto diverse galline e altro pollame all’aperto, ma quelle sono galline ruspanti, abituate a vivere all’aperto, e ben felici di questa situazione. Chissà se le nostre galline saranno contente e riusciranno ad adattarsi…. ho pensato.


Io e Paolo, prima di prendere l’autostrada siamo passati all’allevamento, la signora Adele ci ha portato nel capannone e con fare lesto e svelto ha alzato uno dei lati della prima gabbia e ha afferrato per le zampe le due galline più vicine. Ce le ha messe in una scatola, ben chiusa, ma con alcune aperture per lasciar passare aria a sufficienza, perché non si liberassero a svolazzare per la macchina. Tre ore e mezza di viaggio non sono poche ed ero anche un po’ preoccupata…. Non soffriranno il mal d’auto? Non avranno paura di questa nuova esperienza?


Arrivati a Treia un po’ stanchi ed affamati abbiamo lasciato le nostre cocche dentro la scatola in una stanza tranquilla e silenziosa ed abbiamo velocemente pranzato.
Poi abbiamo “assemblato” un piccolo riparo con alcune cassette da frutta, da posizionare nell’orto dove ci sembrava più opportuno, l’abbiamo sistemato sul posto e siamo andati a prendere le galline. Abbiamo dovuto tagliar loro un po’ di penne delle ali per evitare che oltrepassino la recinzione che non è molto alta. Insomma, per farla breve, le abbiamo messe dentro al riparo e abbiamo aspettato per vedere il loro comportamento. Sono rimaste per un po’ dentro, un po’ indecise sul da farsi, guardandosi intorno come fanno le galline, muovendo la testa e girando lo sguardo qua e là. Poi, piano piano, prima una e poi l’altra, sono uscite ed hanno cominciato ad esplorare una piccolissima zona circostante e a dare qualche beccata qua e là, sul terreno. 


Avevamo anche predisposto una pentolaccia vecchia con l’acqua e un po’ di cibo in una vaschetta di alluminio, ma non sembravano affatto interessate. Le abbiamo momentaneamente abbandonate augurando loro e a noi stessi che si trovassero a loro agio in questo ambiente nuovo per loro.


Al mattino seguente mi sono alzata di soprassalto dal letto avendo sentito un co-co-co-co!!!!!! inusuale, mi sono affacciata alla finestra ed ho visto un gatto scuro e ben nutrito che correva a tutta velocità su per la scala che porta giù nell’orto e poi per il vicolo ed ho pensato “speriamo bene!”, poi mi sono alzata, vestita e scesa giù a controllare, con molta apprensione, la situazione.


Vicino, ma non dentro al riparo c’era una delle due sorelle, ma nessuna traccia dell’altra…. sigh! Ma non c’erano penne in giro ed ho pensato che un gatto non poteva aver fatto fuori e portata via una gallina… forse qualcuno le aveva viste ed era venuto a “fare spesa”. Pazienza, ma non sembrava proprio un buon inizio. Poi……. mi volto dalla parte opposta verso l’altra estremità dell’orto e vedo spuntare tra gli arbusti… il piumaggio arancione dell’altra….. Che felicità! 

Sono andata subito ad vedere cosa stesse facendo e stava raspando una zona con delle frasche che sembrava già un nido e in mezzo alle frasche cosa ti vedo? Un meraviglioso uovo, grande, pulito e con un bel guscio sano, che naturalmente ho preso ringraziandone l’autrice, piena di commozione.


Insomma per il momento sembra che tutto vada per il meglio, la libertà acquisita, inaspettatamente, forse neanche immaginata e per questo non desiderata, se la sono trovata così fra capo e collo; speriamo che la sappiano apprezzare e riescano ad adattarsi alle nuove condizioni. Del resto, come giustamente dice Paolo, gli uccelli vivono anche sempre all’aperto, in natura, non hanno né riparo né pappa pronta.


La libertà è un valore tanto sbandierato, ma questa esperienza insegna, nel suo piccolo, che a volte per vivere a pieno la libertà bisogna rinunciare a qualche sicurezza e bisogna guadagnarsela con spirito di adattamento a situazioni inusuali, per noi cresciuti in un periodo di benessere che ci è stato concesso senza alcuna fatica.


Avendo superato la prima notte abbiamo così provveduto a “battezzarle”: Ciccì e Coccò, Ciccì è quella più smilza e meno intraprendente, Coccò più grossa e più “esploratrice”.


Benvenute, Ciccì e Coccò!


Caterina Regazzi


Caterina Regazzi da bambina che piange vicino ad una gallina che deve essere uccisa per il pranzo


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Ciccì e Coccò potranno essere visitate alle h. 10.30 della mattina dell'8 dicembre 2013, in occasione della passeggiata erboristica condotta da Sonia Baldoni, nell'ambito della manifestazione "La Memoria è nel Seme", che si svolge al Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia.

Programma generale in Locandina:


Con il patrocinio di: 


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Scrive Nelly a commento dell'articolo: “Cara Caterina, ho letto la storia delle tue galline e delle terribili lumache che ti mangiano tutta la verdura dell'orto. E mi è venuto in mente il racconto che mi ha fatto Giuseppe..... anche lui ha nel giardino tante lumache; soprattutto quando piove escono e bisogna camminare adagio e stare attenti a non pestarle perché sono grasse e quindi scivolosissime ...... La storia ha inizio un giorno, mentre Giuseppe tornava a casa da lavorare, ha trovato nel suo giardino dei turisti che si davano da fare a raccogliere le lumache per fare un brodino, gentilmente, essendo in proprietà privata, hanno chiesto se potevano raccogliere le lumache, sicuri che fosse cosa che non interessava al proprietario di casa, ma con loro grande sorpresa Giuseppe ha risposto che non potevano raccogliere le lumache perché il suo giardino è una Riserva Naturale Protetta per la Salvaguardia della Lumaca. Purtroppo io non c'ero e non ho potuto vedere la faccia dei turisti .... ma a me questa storia mi rende sempre di buon umore. Spero di aver fatto sorridere un po' anche te..”


Rispostina di Caterina: “Beh, cara Nelly, la tua storia si, mi ha fatto sorridere, ed in effetti le nostre galline anche loro fanno parte del popolo della Riserva Protetta per la salvaguardia delle Lumache. Non se le filano per niente, solo una volta ho provato con un certo raccapriccio a vedere se le mangiavano dopo averle schiacciate (poverine!) ed allora un paio di beccate gliele hanno date, ma tutto lì. Stamattina invece ero al macello dei polli ed ho salvato ben 1 limaccia e due lombrichi ciccioni che erano in mezzo alla strada e sarebbero stati sicuramente asfaltati. Mi ha fatto piacere comunque vedere che in quella zona ci sono degli animaletti (i lombrichi) così utili all'ambiente...”