Anche ora ricordo lo stupore dipinto nei miei occhi di bambino quando, alla fine degli anni ’40 o nei primi ’50 del secolo scorso, mi ritrovai per la prima volta nello sconosciuto universo del Mediterraneo italico, allorché mio padre mi condusse in uno dei suoi viaggi al sud. A quel tempo le locomotive erano tutte a vapore. Nel cielo terso che mi accompagnò sino al traghetto dello stretto di Messina ed oltre, i pennacchi di fumo puzzolente del carbone bruciato si mescolavano all’aria profumata di mille odori esotici e sconosciuti. Le spiagge bianche di Palermo, le palme, i calessi trainati da cavalli nervosi, le vecchie macchine fotografiche a lastra dalle fiammate improvvise, persino i lustrascarpe, i venditori di fichi d’india, i gelatai con le carrette variopinte…
Chi poteva immaginare che quel mondo esistesse ancora? A Roma era scomparso o mai apparso, questo almeno nei miei ricordi. E poi la gente incontrata per strada? Gente scura, alta, magra, dai capelli corvini, facce stagliate… chi erano questi, non assomigliavano per nulla ai visi rotondotti, alle panze molli dei miei concittadini romani. Ma la sensazione di stare in un altro mondo, trovandomi nel sud della penisola, non è unicamente il sentore della mia infanzia, avvenne ancora ed ancora, molto più tardi nei miei viaggi vacanza in Puglia, in Calabria, in isole poco conosciute… e poi di nuovo nelle esplorazioni di Grecia, Turchia… senza interruzione di continuità avevo scoperto le genti mediterranee, avevo scoperto le radici… d’Italia.
In effetti studiando la storia si capiva benissimo che le genti del Mediterraneo sono tutte una famiglia, magari si facevano o si fanno la guerra tra di loro, come succede spesso tra fratelli numerosi e dediti alla spartizione dell’eredità paterna, ma i modi, le abitudini, la bellezza e la bruttezza, le furbizie, le innocenze, le tradizioni erano e sono tutte uguali. Mediterraneo, casa comune. Ed è per questi motivi che pure oggi mi commuovo rileggendo le strofe poetiche di Umberto Romano e la descrizione di lui fatta da Antonio Catalfamo. Voglio condividere con voi queste emozioni.
Paolo D’Arpini
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Gli uomini del sud sono tutti uguali. Osservando per strada il “vu cumprà” arabo vedo nelle fattezze del suo viso, nel modo di camminare, nella delicatezza del gesto e del sorriso i miei concittadini di Sicilia. Esiste un cordone ombelicale che lega il nostro sud agli altri popoli del Mediterraneo, al Medio Oriente in particolare.
Umberto Romano, poeta autodidatta di Rossano Calabro, è andato alla ricerca delle comuni radici culturali. Aisir Abdallah è il nome arabo che si è dato proprio per sottolineare la comunanza delle coscienze, la necessità di una simbiosi. E su questo bisogno di valorizzare il ceppo comune insiste continuamente nel suo volumetto di versi “Spalle al muro” (Ed. a Mongolfiera- Cosenza) che reca oltre ai testi poetici in italiano, la traduzione in francese ed in arabo.
Il poeta si spoglia dei propri panni, veste quelli del beduino. Con lui divide le angosce della vita, il sogno di una rivoluzione che affranchi l’uomo del sud dallo sfruttamento, dal giogo del neocolonialismo. E ritrova la voglia antica del guerriero che aspetta l’ultima battaglia. La strada da percorrere assieme è lunga, irta di spine, anche l’amore è sofferenza: “Con lacrime / bagnai il seno / per umidificarti il cuore”:
La presenza femminile è discreta. C’è la ritrosia della donna mediterranea, descritta nella levità dei suoi movimenti. Una presenza-assenza (secondo la dialettica degli opposti, propria di questo mondo fondato su equilibri sottili, creati dal tempo), che pure lascia il segno: “Esci da queste mura / levati nel cielo / tocca i cuori, annebbia le menti / dolce cantilena liberatoria / di donna non velata di vergogna / ma di rivoluzione”.
I versi sono scabri, graffianti. Umberto Romano è poeta autodidatta ma i suoi versi, forse imperfetti, perché –per dirla con Sciascia- “la perfezione sta alla cretineria meglio che all’intelligenza, l’intelligenza ha sempre, come i tessuti dei Navajos, una qualche imperfezione o fuga..” -Ed ancora- “Se una scimmia si mettesse a battere sui tasti di una macchina da scrivere -continua Sciascia- alla fine verrebbe fuori un sonetto di Shakespeare (variante: dodici scimmie = tutti i libri dl museo britannico)”.
Romano è poeta in senso lato, pasoliniano, se è vero –com’è vero- che la poesia, oltre ad essere attività specifica, è linguaggio della vita, Romano coglie i momenti di poeticità che caratterizzano la vita di ogni uomo. La sua è la preziosa ingenuità del malnato che la società consumistica, non-ostante la funzione omologatrice dei mass-media, non è riuscita a scalfire.
Il volume si chiude con alcuni componimenti indirizzati al poeta tunisino Hichem Ben Ammar con il quale Umberto Romano ha creato una sorta di gemellaggio culturale: “Se un tempo nella tua terra / mi porterai non da visitatore / né da straniero o da profanatore / il mio spirito guerriero / vorrà rivivere per morire insieme / al caldo della polvere calpestata / dal tuo destriero”. Questi sono i versi che Romano ha voluto dedicare all’amico tunisino, sottolineando la solidarietà nella vita e nella morte.
Antonio Catalfamo