Confessioni sessual-psicologiche di una anonima torinese
Il limite del metodo
Qualche riga, tutt’altro che esaustiva, prevalentemente dedicata alla didattica in campo motorio, ma disponibile ad essere mutuata a tutti i contesti della vita relazionale.
Siccome capire non conta nulla e ricreare è necessario, per procedere in questo articolo torna utile prendere il ruolo di discente o di docente e alternarli, né più né meno di quanto sempre accade. E siccome non c’è protocollo che imponga alcunché, ognuno lo farà secondo se stesso. A quel punto tutto sarà chiaro.
Il totem
Il metodo è un mito. Nella nostra cultura razionalista e meccanicista ha il valore di totem. Il metodo semplifica, risolve, aiuta. Nel metodo c’è la soluzione e c’è la selezione.
Tuttavia, il metodo uniforma docenti e discenti. Per sua natura tende ad appiattire la dentellatura degli orizzonti individuali che siamo.
Se il metodo dimostra la sua miglior efficacia in contesto addestrativo, quando – come avviene – è trasferito in contesto didattico-educativo-pedagogico-terapeutico-comunicazionale, tende a selezionare, a perdere qualcuno per strada, a creare i “negati”, a mortificare, inibire, umiliare. Ovvero, tende a evidenziare la sua inopportunità in quanto realizza l’opposto di un processo destinato a formare uomini compiuti, indipedenze creative, capacità di riconoscere se stessi, la propria natura, la propria posizione nel mondo, la via della realizzazione, soddisfazione, benessere.
Uomomacchina
Se si tratta di attività motorie la didattica ancora dominante è centrata sulla tecnica, che il docente descrive, rappresenta e detiene. Compito del discente, che ritiene di non averla e di doverla acquisire, è replicarla. È una modalità che vale anche in ambito cognitivo-intellettuale. In ambo i contesti– motorio e intellettuale – si osserva uno sfondo meccanicista, che per sua ontologia tende a ripetersi senza variazioni.
Chi non sta al passo del mondo rappresentato o enunciato dal docente è destinato ad un giudizio negativo, quindi scartato, abbandonato. L’alienazione di sé è avviata e con essa l’impossibilità di riconoscere il proprio ruolo nella vita, il solo elemento di equilibrio. Il discente subisce la condanna e tende ad identificarsi nell’inetto, castrando così il suo gradiente di talento specifico. Il suo probabile riscatto dall’umiliazione sarà riproporre lo schema subito una volta nel ruolo di docente, padre, guida, tutore. La persona ridotta a meccanismo, è privata della sua individualità, della sua verità, è abilitata alla sofferenza, esorcizzata a suon di ideologie e dogmi. L’infinito che siamo, non solo è ridotto a poche idee egoiche, è culturalmente cestinato.
Il meccanicismo applicato alla didattica è stato chiamato drill, come trapano, metafora della ripetizione come modalità base d’insegnamento/apprendimento, da Jean Le Boulch (psicomotricista).
La freccia
Volendo disegnare una rappresentazione grafica della modalità didattica più frequente, disegneremmo una freccia che, scoccata dal docente, è diretta al discente. È un esito scontato quando l’universo del discente non è al centro del processo didattico-comunicazionale. Quando ogni discente è concepito come identico ai suoi colleghi. Quando la sua imitazione del modello ideale, affermato dal docente, è valutata con un unico, assoluto, metro di giudizio per tutti.
È un contesto educativo che tende a generare una dipendenza della parola del docente. Infatti, nel suo giudizio è racchiuso il nostro valore.
L’ascolto
Se tecnica o concetto sono al centro della struttura didattico-comunicazionale, se il potere didattico è ridotto alla presunta detenzione del sapere, la persona è necessariamente ai margini. Così procedendo si avanza di affermazione in affermazione da un lato e di imitazione in imitazione dall’altro. Perfino il se stesso del discente non è al centro del suo agire, un centro occupato da ciò che gli è stato richiesto.
Il binomio docente/discente si muove in un campo chiuso e autoreferenziale in cui non c’è spazio per l’ascolto, quella metafisica materia che la cultura meccanicistica ci ha sottratto nonostante la sua idoneità a indicarci la strada nelle relazioni della vita. Il processo di individuazione tarda o viene a mancare.
Senza sottrarsi al dominino egoico dell’affermazione di sé, ovvero senza ascolto, il senso e le verità degli universi che abbiamo di fronte tendono a sfuggirci. La concezione generale, la situazione del momento, il gradiente di motivazione del discente non possono essere raccolti dal docente, e quindi considerati tanto per modulare opportunamente la relazione, quanto per stimolare la propria intelligenza didattica. Quando gli elementi portati dalla persona non vengono integrati nella relazione didattica, non divengono strumento di personalizzazione della didattica stessa. Finché la persona non è posta al centro dell’incontro didattico, comunicazionale, terapeutico, tutto l’apporto che questa ci offre per realizzare una didattica opportuna va a perdersi.
Circolarità della didattica
Quando il binomio persona/ascolto sostituisce quello di tecnica-concetto/affermazione, il disegno della freccia, da unidirezionale, diviene circolare. Docente e discente, che prima condividevano un rapporto gerarchico e chiuso, ora godono dell’apertura sull’infinito creativo che una relazione alla pari tende a generare. In questa, il discente si sente centrato su se stesso, si esprime senza timore di una valutazione negativa, senza timore quindi di senso di colpa o pena. E anche senza perdersi in un’autostima fittizia, tutt’altro che formativo-evolutiva, in caso di giudizio positivo da parte del docente. Sentirsi superiori è una patologia grave che passa per normalità, che è camuffata da meritocrazia.
Quando la relazione è alla pari, il docente è emancipato dalle proprie definitive affermazioni. Tende così a creare una comunicazione in forma di prova, di test, per osservarne la bontà o meno. Sottopone cioè se stesso al vaglio dell’efficacia della sua affermazione che, se fallace, è sfruttata per riformulare diversamente in base al ritorno ascoltato. Nel processo di didattico attraverso l’ascolto, il docente è consapevole della propria piena responsabilità nei confronti di una crescita interrotta, di un avvio mancato, di un abbandono compiuto.
Capire non conta nulla
A causa del dominio razionalista, espressione del meccanicismo, riteniamo che il capire costituisca lo scopo, che attraverso il capire si realizzi l’apprendimento. Riconoscendo però i limiti del territorio amministrativo in cui detta verità si compie ed è condivisibile, possiamo osservare che capire non conta nulla in contesto didattico, che ricreare è necessario. Capire riguarda la dimensione intellettuale, la più superficiale tra quelle disponibili all’uomo. Capire è funzionale tra pari esperienze, entro un ambito che condividono, attraverso espressioni di un linguaggio comune. Una situazione in qualche modo opposta a quella didattica.
Al contrario dell’imitazione, la ricreazione richiede un’iniziativa che sgorghi dal profondo. In contesto ri-creativo siamo in ascolto di noi stessi e da soli possiamo scoprire come modificare scelte e comportamenti fino a sentirne l’efficacia. È una condizione in cui la nostra responsabilità sullo sviluppo degli eventi è piena. Orientati invece all’imitazione siamo in ascolto di un’idea, di un’intenzione di fare bene, di essere giudicati bene e, a volte, di una paura. Nell’imitazione noi non siamo presenti.
Ricreare implica alimentare un processo di indipendenza e sicurezza. Viceversa imitare senza la consapevolezza di farlo, è un ubbidire a modelli estranei dai quali dipenderemo.
Tornare in sé
Come detto, non basta capire che l’ascolto permette ciò che l’affermazione impedisce. È necessario ri-creare il percorso individuale affinché la modalità circolare venga espressa dal nostro fare. Affinché quella impositiva, egocentrica, autoreferenziale resti buona e limitata ai pochi contesti che le competono.
Portando l’attenzione sulla motivazione, sulle paure, sulle velleità nostre e altrui, possiamo avviare l’acquisizione dell’ascolto. Coltivare il percorso che arriva a denudarci delle maschere che avevamo creduto legittime e necessarie, è premessa indispensabile per apprendere esattamente ciò che fa al caso nostro. Si arriva a riconoscere le ragioni delle espressioni corporee nella nostra intima condizione. Si arriva a lavorare su se stessi, e a scoprire che scalare lo sapevamo già.
Scalare lo sappiamo già
Abbiamo imparato a camminare da soli, forse la cosa più difficile della vita, senza istruttori né maestri, basando il nostro procedere soltanto su quanto sentivamo. Può non valere come dimostrazione che la conoscenza è già nelle nostre motivazioni?
Gli individui di un gruppo eterogeneo di persone, di fronte a una parete rocciosa di varia difficoltà che si interpone al loro percorso, tenderanno a salire lungo percorsi a loro idonei, e, se necessario, tenderanno a impiegare il materiale eventualmente disponibile in modo creativo, il loro comportamento sarà idoneo per produrre la miglior sicurezza. Nessuno del gruppo sceglierà linee inadatte alle proprie disponibilità psicomotorie. Salvo ragioni di vanesie emulazioni, ognuno si comporterà secondo il proprio sentire, relegando il proprio sapere a semplice strumento.
La salita avrà al centro il se stesso di ognuno in quanto, muoversi a propria misura, genera un criterio a noi idoneo, tende a generare sicurezza, tende al successo. Il se e dove proseguire, il se e quando rinunciare è totalmente commisurato a noi stessi, totalmente sottratto ai dogmi dell’importanza personale, a quelli delle ideologie, dei luoghi comuni. E, soprattutto, a quelli della nostra esperienza pregressa. Una volta purificati da superstizioni d’ordine vario, fossero anche cosiddette scientifiche, emancipati dal totem del capire, possiamo seguire noi stessi, possiamo trarre il massimo dagli errori, possiamo riconoscere il destino come scelta. Possiamo percepire forze sottili, rivelatrici di un mondo energetico, che agiscono sempre in tutte le relazioni. Possiamo cioè riconoscere le ragioni dei fenomeni e alzare la nostra capacità di gestirli.
Quando la modalità io sento sostituisce quella dell’io so, dell’io devo, dell’io voglio, si procede a propria misura, secondo motivazione del momento. L’importanza personale, l’orgoglio, la vanità, l’esibizionismo non sono più forze che ci distraggono da noi stessi alzando così il rischio di inconvenienti. Attraverso l’io sento tutti possono constatare che scalare lo sappiamo già. Non serve istruttore per muoversi secondo il sentire. La sicurezza non risiede più negli accessori.
Chi si fa male è un fesso
Nel caso della scalata e non solo, la formula chi si fa male è un fesso può rappresentare una didattica e un comportamento centrato sulla persona.
In una didattica relazionale, circolare, sebbene tutti arrivino assetati di sapere come fare per scalare, per ghiacciare o per sciare, è inizialmente frequentemente necessario smontare la corazza di convinzioni prodotte della cultura del sapere e della specializzazione, che ricopre le persone come una pelle, che le riempie come un cuore di verità.
Finché non si prende coscienza di quanto l’attenzione sia su quello che si sa o che si vuole invece che su quello che si sente, sulle reali motivazioni, paure e aspettative, finché il docente è concepito come la sola origine del nostro apprendimento, ci muoveremo secondo un copione che non ci rappresenta, in cui il rischio di comportarci in modo inadeguato a noi stessi e alla sicurezza tende ad alzarsi.
Deresponsabilizzare con aiuti e sicurezze artificiose, plaudendo a falsi successi, nient’altro che sconvenienti distrazioni nella maieutica dell’indipendenza, è la pratica comune, ma è anche il contrario di una maieutica dell’indipendenza.
Per riconoscere che è una nostra tensione che ci impedisce di arrivare a una presa sono necessarie tutte le prese di coscienza utili affinché il microcosmo del corpo torni a far parte di noi. Quando il miracolo si compie la tecnica, che credevamo da apprendere, è ricreata.
Se sbattere contro chi si fa male è un fesso è traumatico, una volta recuperato se stessi ne implica la condivisione. Oltre a scoprire che non c’era nulla da imparare, che tutto è già dentro le nostre motivazioni, che eravamo arrivati per imparare a scalare o sciare, ce ne andavamo consapevoli che quanto avevano esperito e ricreato non sarebbe servito solo sotto una falesia o per una serpentina nella polvere. Sarebbe servito a noi.
Lorenzo Merlo
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