Gesù forse non è mai esistito e se è esistito non era ebreo



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Che il messaggio di Gesù fosse rivolto principalmente, e forse solo, agli ebrei lo rileviamo da Mt 10,5: "...«Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele".
Ma Gesù era ebreo? il suo messaggio certamente non lo era, visto che veniva rigettato dai Samaritani, dai Farisei e dai Sadducei. Naturalmente se i vangeli sono stati costruiti con una ambientazione ebraica e con lo scopo di far sembrare Gesù un ebreo, questi indizi sono molto labili, ma alcuni possono essere rilevati. Vediamo allora quali sono i principali indizi di una non ebraicità di Gesù, perché cadendo questa ipotesi cade tutto il discorso di storicità.
a) Già in Marco 10,5 citato sopra, l'evangelista, per bocca di Gesù, usa lo strano attributo di "pecore perdute della casa di Israele" per indicare gli ebrei senza usare una sola parola per indicarne la fratellanza o l'appartenenza alla stessa comunità. Alcuni elementi che troviamo nei vangeli come

la fine del mondo e la risurrezione dalla morte,
lo spirito santo,
la remissione dei peccati tramite battesimo,
diventare eunuchi per il regno dei cieli,
fare la lavanda dei piedi ai propri discepoli,

non sono certamente elementi del pensiero e dei costumi ebraici.
Ma principalmente è l'episodio del processo che definitivamente nega l'ebraicità di Gesù e degli scrittori dei vangeli.
b) Un autore, cristiano ma appartene al gruppo degli Unitariani Universalisti, ci dà un elenco di tutte le discordanze storiche nel processo evangelico a Gesù:

1) doveva essere svolto in due sedute distinte in due giorni diversi
2) doveva essere svolto di giorno e in pubblico
3) doveva avere la testimonianza contraria all'imputato di almeno due testimoni
4) ogni testimonianza doveva essere oculare
5) l'imputato doveva avere un difensore
6) non era ammesso alcun verdetto unanime: una condanna da parte di tutto il Sinedrio equivaleva ad una assoluzione
7) nessun procedimento poteva avere luogo durante il periodo pasquale
8) se veniva decisa l'imputabilità, nessun annunzio di verdetto poteva essere emesso in quello stesso giorno.

L'arresto doveva avvenire in pieno giorno, senza alcun tradimento e con un mandato legale del Sinedrio. Niente di quanto elencato avviene nell'arresto di Gesù.
c) Poichè non era possibile ottenere una esecuzione immediata del sobillatore che oltretutto doveva essere eseguita tramite la lapidazione, la fiction pretende che Pilato venga svegliato di notte e presenzi al processo per poter quindi introdurre una immediata pena romana tramite crocifissione. Questo metodo di esecuzione era riservato dai romani solo ai ribelli e quindi l'accusa rivolta a Gesù di voler distruggere il Tempio è oltretutto inidonea a generare una condanna di crocifissione.
d) La distruzione del tempio era una metafora per distruggere l'ebraismo e introdurre in Palestina la nuova religione predicata da Gesù.
e) La responsabiltà viene comunque assegnata agli ebrei, sono essi gli accusatori, e quindi è impensabile che l'autore della fiction, così come il protagonista, fosse un ebreo.
f) Il colpo di grazia alla tesi di Gesù ebraico, che quindi inficia tutta la descrizione evangelica, lo dà la descrizione della inumazione fatta da Giovanni con le 100 libbre di oli e le bende che ricorda l'imbalsamazione egiziana.


Pier Tulip 

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Osservare il mondo senza pregiudizio... questa la visione del "risvegliato"

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Il nostro osservare il mondo, sia interiore (delle emozioni) che esteriore (degli oggetti), non è quasi mai “pulito”, privo cioè di interpretazione e concettualizzazione.
Siamo avvezzi a giudicare quel che osserviamo attraverso il filtro della memoria e delle sensazioni collegate alle trascorse esperienze. Anche nel caso di eventi “nuovi” o di idee precedentemente non considerate non facciamo a meno di cercare di “comprendere” e misurare sulla base del nostro conosciuto. Ecco questa “preconoscenza” è la nostra “schiavitù” ma se potessimo lasciarci andare sino al punto di poterci osservare mentre si innesca il meccanismo del “pre-giudizio” e capire il suo funzionamento… potremmo già considerare questa “attenzione” come una prima forma di meditazione e distacco dal processo appropriativo in corso.
Facciamo un’analogia pratica, per esemplificare questo tentativo di spostare l’attenzione dall’io giudicante alla capacità testimoniale della pura coscienza, analizzando il funzionamento del sogno. Quando sogniamo tutto avviene in modo apparentemente costruito e definito mentre allo stesso tempo gli avvenimenti del sogno mantengono il senso dell’imponderabilità.
Il personaggio specifico del nostro sogno, nel quale noi ci identifichiamo, è esso stesso una semplice componente inscindibile dalla complessità del sogno, in cui i vari attori, figure, oggetti ed eventi sono un tutt’uno. La “farsa” del sogno mostra un’apparente finalità e significato agli occhi del personaggio di sogno nel quale ci identifichiamo. Vediamo che egli infatti compie gesti deliberati e verosimili sforzi di volontà per raggiungere i suoi fini di sogno, rapportandosi inoltre con gli altri personaggi del sogno come “diversi” da sé.
Può ciò corrispondere a verità?
Tutti gli aspetti del sogno sono prodotti dalla stessa mente e non sono in alcun modo controllabili e gestibili da alcun personaggio o situazione del sogno. Essendo ognuno di questi elementi semplici componenti “passive” immaginate nella mente del sognatore. Dal punto di vista dell’esperienza “empirica” nello stato di veglia si può dire che il processo di “creazione” sia praticamente il medesimo. Tutti gli oggetti ed i soggetti che reciprocamente si percepiscono (essendo ognuno contemporaneamente soggetto ed oggetto nella percezione altrui) scaturiscono dalla stessa “Mente”, o Coscienza, e si dipanano sullo schermo concettuale degli eventi spazio-temporali. In effetti, in questo funzionamento totale, non può esistere alcuna volizione o finalità personale, poiché (come nel sogno) ogni cosa si svolge indipendentemente dall’intenzione di qualsiasi dei personaggi sognati. Pur che apparentemente essi assumono su di sé il senso dell’affermazione o della negazione di una loro “volontà”, ma questo avviene solo conseguentemente alla considerazione effettiva degli eventi già vissuti. Ovvero dopo aver “giudicato” i fatti accaduti ed averli assunti come propri (attraverso il senso di identificazione) e quindi definiti come positivi o negativi (ai fini del personaggio).
Da ciò, per estensione, arriviamo all’identità dello stato di veglia e scopriamo che -come nel sogno- a manifestare la vita e le sue componenti non sono i singoli esseri bensì la Coscienza stessa, impegnata com’è nell’opera di vivificazione delle sue emanazioni e manifestazioni, che sono possibili solo per suo tramite.
Per questa ragione è detto che “quando il me scompare l’Io si manifesta” (Ramakrishna Paramahansa), ovvero quando l’identificazione individuale cessa automaticamente la Coscienza impersonale emerge. Si dice che “emerge” in quanto tale pura Coscienza è già insita nell’individuo stesso (come la mente è presente nel personaggio sognato) che la “sostanza” non appartiene alla sembianza mutevole ma è l’essenza che la anima. Ovviamente in caso di “risveglio” al puro Io il senso di identità individuale “muore” ma questo non implica l’automatica scomparsa della sua “sembianza” apparente, che continuerà a restare nella percezione degli “altri” osservatori, ma svuotata al suo interno di ogni identificazione oggettiva, essendo il risvegliato pura e semplice “soggettività” (Consapevolezza priva di attributi).
La spontaneità è la caratteristica “comportamentale” del risvegliato, quando spontaneità significa semplice capacità di risposta, adeguata e consona, alle situazioni in cui egli si imbatte. In un tale essere non permane alcuna ombra di intenzionalità o di giudizio, di desiderio o repulsione, la sua “volontà” corrisponde esattamente agli eventi vissuti senza che lui lo ricerchi. Possiamo definire questo stato: Libertà.
Per significare la vera natura dell’essere ed il “ritorno” all’intrinseca consapevolezza che gli è propria, ammettendo che tale natura è la stessa per ognuno di noi, mi piace riportare una frase di Nisargadatta Maharaj, che disse: “Non importa ciò che fai o ciò che non fai se hai realmente percepito quello di cui sto parlando. Diversamente, non importa nemmeno se tu non hai capito quel di cui sto parlando..” Il che significa che in entrambi i casi la realtà intrinseca non cambia… e quel che è destinato ad avvenire avviene per conto suo….
Succede però che questo discorso, pur essendo a volte intellettualmente accettato, necessiti spesso una digestione ed assimilazione, deve insomma essere fatto “nostro”. Ciò può avvenire attraverso la riflessione, la rielaborazione e il riconoscimento al nostro interno di tale verità. Ora in qualche modo ci sembra di aver compreso ma dobbiamo disintossicarci dalla tendenza speculativa e dall’identificazione con il personaggio incarnato. A tal fine, non per ottenere la condizione che è già nella nostra natura ma allo scopo di scongiurare l’imbroglio della mente, consiglio la lettura ripetuta e la ponderazione sulle immagini contenute nel Libro dei Mutamenti, un compendio di esempi archetipali psicosomatici, descrivente cioè i diversi modelli comportamentali, basati sulle variegate capacità espressive della mente nello svolgimento degli eventi spazio-temporali. 
Per mezzo dell’analisi sarà possibile riconoscere le multicolori forme che la mente può assumere in questo mondo di apparenze, essendo le sue trasformazioni semplici risultanze, risonanze e adattamenti alle condizioni che si trova ad affrontare. Questa è una risposta automatica allo svolgimento delle continue mutazioni e mescolamenti degli elementi basilari della vita.
Ovvio che tali mutazioni sono praticamente infinite ma nel Libro dei Mutamenti si esaminano 64 aspetti/madre, in forma di esagrammi in cui ogni linea è una componente costitutiva con propri significati. Essendo questo testo il risultato di un antichissimo e costante studio ed osservazione di fenomeni naturali e sociali, interpretati e visti sia con la ragione che con l’intuizione, esso si presenta come un complesso integrato dei diversi modi espressivi analitici ed analogici della mente.
E nel Libro dei Mutamenti si può dire che vengono fusi sia gli aspetti filosofici speculativi e metafici che quelli analitici ed empirici (Taoismo e Confucianesimo), perciò la prassi è quella di osservarne le immagini senza volerne assumere i concetti, un buon metodo per avvicinarsi alla corrispondente spontaneità comportamentale del saggio, basata sulla capacità di immediata risposta comportamentale nelle varie situazioni incontrate nella vita, anche in considerazione delle peculiari caratteristiche da ognuno incarnate e nella posizione e condizione in cui siamo. Insomma, conoscere il mezzo per affrontare adeguatamente il percorso.
Siccome la lettura del testo non è immediatamente chiara e assimilabile è consigliabile una ripetizione continuata, ma senza sforzi interpretativi, in modo da sospingere pian piano la nostra mente verso quel necessario “distacco” da finalità precostituite, tralasciando quindi il tentativo di comprensione dei significati razionali e lasciando che le immagini evocate trovino corrispondenza nel nostro inconscio.

Paolo D’Arpini

Oltre il credere e il non credere - Viaggio tra categorie di pensiero e categorie di esperienza...


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Il linguaggio non è solo semantica. Eppure c’è già all’interno della mente un “seme” che consente la comprensione di concetti sottili, che non hanno corrispondenza nel mondo materiale. Ad esempio quando un bambino apprende a parlare ed a scrivere, non segue solo esempi concreti: tavolo, cibo, cane, etc.  Vi sono pure concetti e sentimenti che vengono “riconosciuti” intuitivamente, per una sorta di ammissione interna che va aldilà dell’esempio. In questo caso si presuppone che vi sia già una pre-conoscenza innata di tali concetti, il linguaggio insomma non è altro che descrizione di un qualcosa che abbiamo già dentro. La stessa cosa si può dire della  conoscenza  di vita.
La vita  nasce dall’inorganico ma se non fosse già presente nella materia in forma germinale come potrebbe sorgere e trasformarsi in intelligenza e coscienza? Da ciò se ne deduce che la coscienza e l’intelligenza sono come una “fragranza” della materia e quindi non vi è reale separazione. La differenza è solo nella fase….  La vita è un’espressione manifestativa della materia.  Partendo da questa considerazione generale osserviamo che la spinta evolutiva di questa intelligenza/vita si evolve attraverso stati diversi di consapevolezza. Nelle forme pensiero esistono gradi  descrittivi della maturità assunta da questa intelligenza. Tralasciamo per il momento gli aspetti più vicini all’animalità, all’istinto, e prendiamo in considerazione solo gli aspetti “filosofici” del pensiero umano.  Osserviamo che sia in occidente che in oriente vengono descritti gli aspetti separativi e unificativi del processo mentale (solve et coagula).
In Grecia come in India si è parlato di pensiero duale e pensiero non-duale. 
Nel pensiero duale (dvaita) viene inserita ogni forma cristallizzata separativa, come il teismo e l’ateismo. Queste due categorie infatti sono viste come sfaccettature della stessa   conformazione separativa. Il teista è colui che crede in un dio separato da sé, lo immagina in veste di essere superiore e dotato di immensi poteri e vede se stesso come creatura alla sua mercé . Il teista crede che la sua propria esistenza è consequenziale e secondaria al dio. L’ateo parimenti, crede di non credere, ovvero nega ogni sostanza all’ipotetico dio basando il suo credo sul relativismo materialista. Il teista e l’ateo sono arroganti affermativi della propria  “verità” (presunta od immaginata). Ovviamente entrambe queste fedi si basano sulla piccolezza e separatezza dell’io ed abbisognano di uno sforzo continuo e costante per affermare o negare, un tentativo frustrante che comunque non prende  in considerazione  l’agente primo, l’io, se non in forma passiva e marginale. Questo modo di pensare  duale è   lo stesso sia per il religioso che per l’ateo materialista che crede in causa-effetto o nella fortuità del caso.  E’ un percorso puramente speculativo, basato comunque sul credere, sul ritenersi piccoli elementi separati di un qualcosa che magari pian piano la scienza (o la religione) corroborerà. Ma sappiamo che l’orizzonte è sempre più avanti… mai raggiungibile, insomma siamo persi nel nulla…. Nel vuoto.
La fase successiva dell’auto-conoscenza si definisce non-duale (advaita), in questo caso si inizia a tener conto del soggetto, della coscienza attraverso la quale ogni percezione e sentimento sono possibili, si riconosce nella consapevolezza la matrice della propria esistenza. In questa categoria si pongono l’agnostico  e lo gnostico.
Alla base della ricerca dell’agnostico si pone l’esperienza diretta ed il superamento della concettualizzazione descrittiva. L’esperienza empirica viene portata alle sue estreme conseguenze con il riconoscimento della costante presenza dell’io nel processo implicato.  Viene superato così il modello del credere in verità precostituite  accettando la realtà intrinseca dello sperimentatore che esperimenta.
L’agnostico  sa che non può esserci altra certezza che quella dell’esperimentatore ma allo stesso tempo non vi è ancora realizzazione definitiva. La coscienza individuale  non si è fusa nella coscienza universale benché permanga l’intuizione dell’unità primigenia del tutto.  Stando così le cose egli non può  affermare,  egli  dice di non sapere, la sua è una saggezza in fieri, in maturazione.  L’agnostico non può più identificarsi con un nome forma specifico ed allo stesso tempo manca della pienezza  e quindi resta in silenzio, non afferma e non nega.  Ma il suo costante e continuo discernimento giunge infine ad una inaspettata e spontanea fioritura, e qui l’intelligenza individuale si scioglie, si ottiene la  conoscenza di sé, la gnosi (jnana). 
Lo gnostico non ha assolutamente bisogno di affermare alcunché, la sua realizzazione è totale e definitiva, la sua presenza non è limitata ad un nome forma, egli conosce se stesso come il tutto inscindibile dal quale ognuno di noi proviene e risiede. Lo gnostico né sente il bisogno né ha mezzi per esprimere la sua esperienza, giacché il linguaggio umano è  molto distante dall’esperienza diretta del sé. Infatti prima c’è la consapevolezza del sé, poi la coscienza dell’io individuale che assume una  forma nello specchio della mente, quindi la riflessione del pensiero ed infine la descrizione del linguaggio parlato o scritto.  Il saggio  non vede differenza alcuna, sa che  la  base è la stessa per ognuno (materia-spirito in continua trasformazione), egli “conosce” che la coscienza e l’esistenza sono inscindibili nell’assoluta unità  (uno senza  due)  e resta in silenzio.   Ma la sua esperienza  -che  è la comune natura di tutti-  può essere  riconosciuta e percepita  per spontanea simpatia  dallo spirito maturo.
In questo processo a quattro fasi, fra dualismo e non-dualismo, si manifesta tutto il gioco della vita e della coscienza.
Paolo D’Arpini
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Comitato per la Spiritualità Laica -  spiritolaico@gmail.com