Nagarjuna, nudo e puro



"Nomen est Omen" dicevano i latini... e loro sì che se ne intendevano poiché per loro, come per tutte le popolazioni di cultura indoeuropea, il nome portava  con sé un significato. Mica come al giorno d'oggi in cui i nomi si portano appresso solo la storia di un ipotetico "santo" della cristianità. 

No, una volta, per gli antichi popoli pre-cristani il nome  stabiliva una qualità, era una sorta di auspicio, di "emblema" con il quale il nuovo nato veniva insignito.  Ed allora
vediamo quale è il destino assegnato a "Nagarjuna" analizzando il suo nome. Tanto per cominciare Naga, che sta anche per nudo, indica un serpente. Un sacro
 cobra, una divinità (non quel serpente demoniaco della bibbia), mentre Arjuna  significa letteralmente "il puro". 

Sia nell'accezione di "nudo" che di "puro" si sottintende una
pulizia, una sincerità, una onestà, una semplicità.. insomma una saggezza. E Nagarjuna confermò queste qualità.


Tanto per cominciare egli nacque (probabilmente),  nel II secolo d.C. in Andhra Pradesh, in una famiglia di brahmani.  Secondo una tradizione nacque sotto un albero di Terminalia Arjuna, fatto che determinò la seconda parte del suo nome. La prima parte, Naga, lo si deve ad un viaggio che avrebbe condotto, sempre secondo alcune leggende, nel regno dei naga, i cobra divini, posto sotto l'oceano, per recuperare i Prajñāpāramitā Sūtra ad essi affidati dai tempi del Buddha Shakyamuni. 

Certo queste son tutte storielle aggiunte per dare lustro ma sicuramente di vero c'è che Nagarjuna fu un grande filosofo
e conoscitore della realtà. Sia i seguaci del Madhyamaka sia gli studiosi  di quella scuola riconoscono Nagarjiuna come il
suo fondatore. Più in generale si può dire che sia stato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna, di cui sistematizza l’idea  della non sostanzialità di tutti  gli  elementi  della realtà fenomenica.

I suoi scritti  ancora oggi rappresentano una vetta quasi insuperata di concettualizzazione  del metafisico. In termini che ai giorni nostri furono ripresi da filosofi come Friedrich Wilhelm Nietzsche o -volendo restare in un ambito "indiano"- dal grande propugnatore dell'Advaita moderno: Nisargadatta Maharaj. 
Ecco cosa disse di lui Osho, un altro maestro dei nostri tempi: "Nagarjuna fu uno dei più grandi Maestri che l'India abbia mai prodotto, del calibro del Buddha, Mahavira e Krishna. E Nagarjuna era un genio raro. A livello intellettuale non esiste paragone possibile con nessun altro al mondo. Capita raramente un intelletto così acuto e penetrante."

Nagarjuna, oltre l'impermanenza temporale,  indicò una ulteriore qualità nella non sostanzialità dei fenomeni: essi erano vuoti anche di una loro identità in quanto dipendevano uno dall'altro sul piano temporale.  Tutti i fenomeni  sono quindi privi di sostanzialità, poiché nessun fenomeno possiede una natura indipendente. Egli esprime la sua posizione in quella che è 
 un'opera capitale del buddhismo: le Madhyamakakarika, Stanze della via di mezzo. Evidentemente riportata da suoi seguaci, come avvenne per i detti del Buddha, poiché  Nagarjiuna  riteneva che il linguaggio è inevitabilmente illusorio in quanto prodotto di concettualizzazioni ed è per questa ragione che egli rifiutò sempre di definirsi detentore di una qualsivoglia dottrina. Poiché l'esperienza della vacuità non è compatibile con alcuna costruzione di pensiero.  E l'idea stessa della vacuità rischia di essere pericolosa, se alla vacuità viene  attribuita una identità. 

Lo stesso  Buddha  aveva messo in guardia dall'assolutizzare la propria dottrina, considerandola altro che un semplice mezzo per raggiungere la liberazione ("una zattera per attraversare un fiume, che va abbandonata appena si è arrivati all'altra sponda"). 

Di seguito alcune  citazioni che possono aiutare il lettore a
comprendere meglio il  punto di vista di Nagarjuna:



"La coproduzione condizionata, questa e non altra noi chiamiamo la vacuità. La vacuità è una designazione metaforica. Questa e non altro la via di Mezzo.La realtà assoluta non può essere insegnata, senza prima appoggiarsi sull'ordine pratico delle cose: senza intendere la realtà assoluta, il nirvana non può essere raggiunto"


"Se il mondo fosse non vuoto, non si potrebbe né ottenere ciò che non si possiede già, né mettere fine al dolore, né eliminare tutte le passioni."

"Se gli illuminati non appaiono e se gli uditori sono spariti, un sapere spontaneo si produce allora isolatamente negli Svegliati solitari"


Paolo D'Arpini





Solo... aspettando Jiddu Krishnamurti... che non venne



Nel lontano 1966 (?... forse. Ahò, le date non sono il mio forte) quando ancora abitavo a Verona decisi di scendere a Roma dove si aspettava la venuta di Jiddu Krishnamurti,  il maestro universale dei teosofi che poi invece li rinnegò e si mise in proprio. 

L’incontro sarebbe dovuto avvenire in un teatro di Via Nazionale (al solito, non ricordo il nome ma è un cinema teatro famoso). Aspetta ed aspetta, ogni tanto appariva un "discepolo" dicendo “Krishnamurti è atteso da un momento all’altro”,  ma l’attesa risultò vana…  Tra l’altro lui stesso diceva che “non aveva nulla da insegnare” e perciò non si presentò e ci diede buca.. 

Constatai però che alcuni dei bidonati  erano persino entusiasti di ciò: “Hai visto che grande maestro? Non vuole fare la parte del maestro ed allora non è nemmeno venuto qui dove tutti  avevano l’aspettativa di incontrare un maestro?”, il discorso chiaramente è alquanto contorto…. insomma per farla breve credo che quella sia stata la prima ed unica volta in vita mia  in cui sono andato a cercare un “maestro”. Quelli che ho incontrato ed incontro giornalmente mi capitano davanti per “grazia divina” o per caso… 

Paolo D'Arpini


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Seduti in silenzio senza aver alcun motivo per farlo

"Se ve ne state seduti in silenzio senza avere alcun motivo per farlo, oppure se ve ne andate a camminare tranquillamente, da soli o in compagnia, guardando gli albe...ri, gli uccelli, il fiume, le foglie illuminate dal sole, vi troverete ad osservare anche voi stessi. Non starete lottando, non farete sforzi tremendi per ottenere qualcosa. Quelli che si sono abituati a praticare qualche sistema di meditazione, trovano poi molto difficile metterlo da parte, perché la loro mente ne é stata troppo condizionata; sono andati avanti per tanti anni con le loro pratiche e ormai ci sono attaccati.

[...] La mente non è mai in silenzio, insegue sempre un pensiero dietro l'altro, una sensazione dietro l'altra. Per cercare di porre fine a questo chiacchierare ininterrotto, imparate a concentrarvi; vorreste imporre il silenzio alla mente; ma così il conflitto ricomincia. È questo che fate: chiacchiere su chiacchiere, un continuo parlare a proposito di niente. Ma se volete osservare qualcosa, un albero, un fiore o il profilo delle montagne, dovete guardare standovene in silenzio.
A voi però non interessano le montagne, la bellezza delle colline e delle valli, o lo scorrere dell'acqua; voi volete arrivare da qualche parte, volete ottenere qualcosa di spirituale.

Non è possibile starsene quieti in modo naturale. Guardare una persona, ascoltare una canzone, o stare a sentire con calma quello che qualcuno sta dicendo, senza opporre la minima resistenza, senza mettersi a dire: «Devo cambiare, devo fare questo, devo fare quello». Starsene semplicemente quieti, capite? Evidentemente questa è la cosa più difficile. E così vi mettete a seguire dei sistemi per arrivare alla quiete. Ma non vedete l'inganno che si nasconde in questo modo di fare? Praticate un metodo, usate un sistema qualsiasi, stabilite una routine quotidiana che regolarmente si ripete, perché pensate di riuscire alla fine a calmare la mente. Ma la mente non sarà mai quieta; perché si è ridotta a uno strumento meccanico; imprigionata in uno schema che continua a ripetersi, è diventata insensibile, si è intorpidita. Ma voi non vi accorgete di tutto questo. Volete qualcosa, un'iniziazione! Oh, è così puerile!


Se voi ascoltate con calma, senza preoccuparvi di dire a chi vi parla che ha ragione o torto, senza dire a voi stessi: «Ormai mi sono impegnato, ho promesso di non smettere; io sono questo o quell'altro»; se ascoltate quello che viene detto senza opporre resistenza, allora comincerete a scoprire voi stessi. E la vostra mente, in questo movimento di scoperta, diverrà quieta.

Così noi, che siamo persone come tutte le altre, con tutti i nostri tormenti e le nostre difficoltà, possiamo metterci quieti ad ascoltare il rumore dei nostri pensieri? Possiamo starcene a sedere o in piedi, o andare a fare una tranquilla passeggiata, senza bisogno che qualcuno ci suggerisca di farlo, senza aspettarci una ricompensa, senza desiderare di avere chissà quali straordinarie esperienze ultrasensoriali? Solo quando si comincia dal livello più semplice e razionale si può andare molto lontano".

Jiddu Krishnamurti

La ciotola d'oro di Nagarjuna.... ed il ladro preso in trappola


Nagarjuna: "Non esiste nessun agente né soggetto, non (esiste) nessun merito: essi sorgono dalla dipendenza"


Questa è l'avventura del "ladro consapevole" che fu iniziato alla conoscenza del Sé da Nagarjiuna con un piccolo imbroglio.   Mentre mi accingo a riportarla mi sovviene di un'altra storia (di matrice zen) del famoso ladro Hòu (che vi racconterò un'altra volta), il quale rispose a Confucio, che voleva insegnarli la morale, "parlami dell'altro lato della morale, se vuoi che io comprenda.."  E  ben  fece Nagargiuna che insegnò al ladro ad essere consapevole mentre rubava.. Che furbata, solo un vero saggio poteva ragionare come un vero ladro...

Questo racconto è stato ripreso da alcune storie buddiste e modificato a mio uso e consumo ma non tanto.. in fondo.. solo nell'aspetto dell'ingiunzione spirituale, in cui io faccio dire a Nagarjuna, rivolto al ladro, di essere consapevole della sua consapevolezza, mentre in altre versioni si dice che Nagarjuna chiedesse al ladro di "essere consapevole del suo respiro". Ovviamente il risultato finale  non cambia. Il fatto è che io non sono mai stato un  amante del pranayama...

Beh eccovi la storia (rivisitata)

Nagarjuna era un fachiro nudo, ma era amato da tutti i veri ricercatori. C’era anche una regina che lo amava profondamente. Un giorno, la regina chiese a Nagarjuna di essere ospite a palazzo. Nagarjuna andò. La regina gli chiese un favore. “Cosa vuoi?”, rispose lui. La regina disse: “Voglio la ciotola che usi per mendicare.”

Nagarjuna gliela dette – quella era l’unica cosa che possedesse: la ciotola per mendicare. E la regina fece portare una ciotola d’oro, adornata di diamanti, e la dette a Nagarjuna, dicendo: “Adesso adopererai questa ciotola. La ciotola che hai portato con te per anni porta un po’ della tua energia, diventerà il mio tempio. E un uomo come te non si merita quella comunissima ciotola da mendicante, di legno. Tieniti questa, d’oro.”  


Mentre lasciava il palazzo, un ladro lo vide; il ladro non riusciva a credere ai suoi occhi: “Quell’uomo è nudo, e porta un oggetto veramente prezioso! Per quanto tempo riuscirà a proteggerlo?”. Così il ladro lo seguì…

Nagarjuna viveva fuori città, in un antico tempio semi diroccato – non c’erano porte, né finestre. Era proprio un rudere. Il ladro se ne stava nascosto dietro un muro, appena fuori dalla porta – e Nagarjuna gettò  la ciotola verso di lui. Il ladro non si capacitava. Nagarjuna aveva gettato la ciotola perché aveva visto che il ladro lo seguiva, e sapeva benissimo che il ladro non veniva per lui, ma per la ciotola. Il ladro sapeva benissimo che la ciotola era stata gettata per lui e non riusciva ad andarsene senza ringraziarlo. Fece capolino, e disse: “Signore, accetta i miei ringraziamenti. Sei davvero un essere raro. Posso entrare, e toccare i tuoi piedi?” Nagarjuna si mise a ridere, e disse: “Sì, ed è per questo che ho gettato fuori la ciotola: perché tu potessi entrare dentro!”

Il ladro era preso in trappola: entrò, toccò i piedi di Nagarjuna…  in quel momento il ladro era molto aperto - perché aveva visto che quell’uomo non era come tutti gli altri –  e si sentiva grato… mentre toccava i piedi di Nagarjuna, per la prima volta in vita sua percepì la presenza del divino. Gli chiese: “Quante vite mi ci vorranno per diventare come te?”. Nagarjuna rispose: “Quante vite? Può succedere oggi, può succedere adesso!”. Il ladro disse: “Ma stai scherzando! Sono un ladro, un ladro famoso. Tutta la città mi conosce, anche se finora non sono mai stati capaci di prendermi con le mani nel sacco. Nel rubare sono un maestro… come potrei trasformarmi da un momento all’altro?”

E Nagarjuna gli rispose: “Se in una vecchia casa da secoli c’è buio, e tu porti una candela, può l’oscurità dire che è lì da secoli e non può andarsene immediatamente? Può l’oscurità opporre resistenza? Può fare differenza il fatto che l’oscurità sia vecchia di un giorno oppure di milioni di anni?”.

Il ladro capì: l’oscurità NON può resistere alla LUCE – quando arriva la LUCE, il buio scompare. “E la mia professione? La devo abbandonare?” chiese.

Nagarjuna rispose: “Questo lo devi decidere tu. Non m’interessa chi sei e qual è la tua professione, ti posso solo confidare il segreto di come accendere la LUCE nel tuo Essere, e poi sta a te.”

Il ladro obiettò: “Ma tutti i religiosi che ho visitato mi hanno sempre detto che prima di ricevere l’iniziazione dovevo smettere di rubare”. Nagarjuna rise: “Allora devi avere visitato dei bigotti e non dei santi. Non sanno niente di religione. Quello che devi fare è osservarti – l’antico metodo di Buddha – osserva semplicemente la tua consapevolezza. Tutte le volte che te ne ricordi, osservati. Anche quando esci per rubare, e quando entri nella casa di qualcuno nella notte, continua ad osservarti. Nel momento in cui hai aperto la stanza del tesoro, e i diamanti sono davanti a te, continua ad essere cosciente  di te stesso, e poi fai tutto quello che vuoi”.

 Il ladro disse: “Sembra semplice. Nessuna regola di morale? Non c’è nessun altro precetto?”.

Nagarjuna rispose: “Assolutamente nessuno”

Dopo quindici giorni il ladro tornò… un uomo totalmente diverso. Cadde ai piedi di Nagarjuna e gli disse: “Mi hai preso in trappola! E lo hai fatto così bene che ci sono cascato senza neanche un sospetto. In questi quindici giorni ho provato: è impossibile! Se osservo me stesso non posso rubare. E se rubo, non riesco a osservare me stesso.

Quando osservo me stesso divento così silenzioso internamente, così consapevole, così presente… che anche i diamanti sembrano ciottoli. Mi hai creato un bel problema. E adesso cosa devo fare?”.

Rispose: “Fa’ quello che credi! Se vuoi quel silenzio, quella pace e quell’estasi che nascono in te quando ti osservi, allora scegli te stesso.  Se invece pensi che tutti quei diamanti, quell’argento e quell’oro siano di maggior valore, allora scegli quelli. Lo devi decidere tu! Chi sono io per interferire nella tua vita?”.

L’uomo disse:” Non posso scegliere di essere nuovamente inconsapevole: non ho mai conosciuto momenti come questi. Accettami come tuo discepolo, e dammi l’iniziazione.”

“Te l’ho già data l’iniziazione!” rispose Nagarjuna.

La religiosità non si fonda sulla moralità ma sulla meditazione.  La religiosità non si basa sul comportamento ma sulla CONSAPEVOLEZZA.


Paolo D'Arpini

Un percorso lungo le vie del bioregionalismo, dell'ecologia profonda, della spiritualità laica - Memoria sul "Riciclaggio della Memoria" di Caterina Regazzi


Caterina Regazzi, la prima volta a Calcata

Ho conosciuto Paolo D'Arpini  poco più di cinque anni fa, a Calcata. Sono andata appositamente là dalla provincia di Modena, dove attualmente risiedo, per incontrarlo, in quanto, leggendo i suoi scritti, i suoi pensieri, le sue idee su internet, me ne ero innamorata, perché davano un nome ed una forma a idee e sensazioni che nel mio intimo sentivo da sempre.


Fin da bambina (come tutti i bambini) sono sempre stata amante della Natura, delle piante e degli animali, ma anche della Natura inanimata, ed ero anche una bambina un po' timida e introversa. A volte ricordo che mi piaceva, per raccogliermi in me stessa, trovare rifugio in qualche chiesa. Mi capitò anche  a Treia, al Duomo, dove incontrai Don Vittorio, che affettuoso come sempre, si fermò a parlare con me, ma non di Dio.

Leggere quegli scritti di Paolo fu un po' come vedere una luce che illuminava queste mie sensazioni, me le rendeva più chiare, evidenti e plausibili, anche perché condivise.

E così è cominciato, senza nessuna premeditazione e senza nessuna intenzione, il nostro rapporto in cui, quotidianamente, spontaneamente, mettiamo in pratica, secondo quelli che sono i nostri modi espressivi e le nostre propensioni, il bioregionalismo, l'ecologia profonda e la spiritualità laica. 

Paolo era una vita che li metteva in pratica, io in maniera più discontinua, istintiva, ma  tenendoli in vista.

Il bioregionalismo sentendoci a casa nel luogo in cui siamo, qualsiasi esso sia, sia quando siamo insieme che quando siamo separati, cercando di vivere in armonia con l'ambiente che ci accoglie e con gli altri esseri viventi, umani compresi.

Cerchiamo di rispettare la Natura cominciando dal consumo delle risorse, evitando gli sprechi inutili, fino alla produzione della minor quantità possibile di rifiuti. 

I rapporti con gli altri esseri umani non sempre sono facili, viviamo in un periodo di crisi economica e soprattutto di valori, ma sogniamo e auspichiamo una sempre maggiore condivisione e una convivialità  che oggi pian piano sta tornando di moda.

L'ecologia profonda: ci sentiamo parte di un Tutto e crediamo che, dato che viviamo tutti sulla stessa Terra, respiriamo la stessa Aria, siamo fatti della stessa Acqua, ogni trasformazione, nel bene e nel male, tutti ci riguarda e ci coinvolge. Questa consapevolezza ci porta a vedere che dietro o dopo ogni nostra azione ci sono conseguenze di cui siamo responsabili. Ma non sempre si può agire come la coscienza ci direbbe, viviamo in questo mondo ed in qualche modo dobbiamo adeguarci, facendo il possibile.

La spiritualità laica: sentiamo che non siamo solo un corpo ed una mente, ma c'è qualcos'altro, e questo lo chiamiamo il Sé, o Spirito, una  base che ci unisce agli altri esseri ed è quello che rimane attivo, in forma di pura Coscienza, quando riusciamo a vuotare la mente da tutti i grovigli di pensieri che  abitualmente ce la ingombrano.

Indipendentemente dalla religione seguita o anche non avendo alcun credo da seguire, abbiamo tutti una voce interna, che dobbiamo imparare ad ascoltare e a lasciar fiorire.

Tutto questo e molto altro, e con parole più belle, è descritto, per quel che si può, nel libro "Riciclaggio della Memoria". 

Caterina Regazzi

Immagine di copertina di Daniela Spurio


Il libro verrà presentato il 31 ottobre 2014 a Treia, nella Sala Consiliare del Comune, alle h. 17

Una Roma che ancora c'è.... sull'onda della nostalgia





Piotta, Alvaro Vitali, Antonio Zequila. Se a qualcuno questi nomi evocano giusto il buio degli abissi marini, ad altri invece provocano un attacco micidiale d’orticaria e ad altri ancora fanno immediatamente pensare al risparmio a tutti i costi e ai prodotti in vendita in un’istituzione romana del comprare a cifre ridicole: MAS, i Magazzini allo Statuto (laddove per statuto si intende via dello Statuto numero 11, nel quartiere di piazza Vittorio, il quartiere più piemontese dell’Urbe). 

Piotta, rapper romano, ci ha ambientato il video del suo primo e più grande successo, Supercafone; Vitali alias Pierino delle commedie all’italiana di serie B e Zequila (semi-sconosciuto protagonista di reality trash) sono stati testimonial di improbabili reclame, ancora in onda sulle emittenti private romane. C’è addirittura chi di questi spot ha fatto un culto, un po’ per la pessima recitazione dei personaggi (girare la pubblicità di MAS sembra l’estremo tentativo prima dell’inevitabile dimenticatoio, l’ultimo contratto utile prima del pensionamento obbligato), un po’ perché rappresenta una sorta di visita virtuale a un luogo che è ancora di salvezza per gli squattrinati di tutte le età, nonché tempio del pessimo gusto e quindi fonte inesauribile di idee per riciclatori creativi, appassionati del vintage di scarto, sacerdoti degli “annisettanta” a tutti i costi. Insomma, per tutta quell’amplissima categoria di persone che considera il recupero di viscosa e sintetico, lustrini e zampe di elefante una sorta di missione di vita. 

Scarpe in vera pelle (sic!) a tre euro, giubbotti imbottiti a quindici, oggettistica, articoli militari, biancheria intima, profumeria. E poi sacchi a pelo e tende (quante partenze sono state organizzate qui dentro, anziché negli attrezzatissimi negozi di sport), stoffe a prezzi stracciati (il regno di costumisti, scenografi e stilisti in erba), abiti da cerimonia (il reparto più sconvolgente) e una gioielleria decisamente abbordabile. Qui c’è tutto ed è tutto esposto, perché MAS è un antico palazzone di vari piani della Roma umbertina e, grazie al suo gioco di scale mobili, una sorta di cittadella dello shopping de noantri. L’unico legame fra un prodotto e l’altro è che sia rigorosamente di un’altra epoca, di una collezione giurassica.  


Vittorio Marinelli

La teoria confuciana nella Cina antica e moderna




Esiste in Cina un libro che rappresenta sinteticamente tutto ciò che
sta  fra Cielo e Terra, si chiama  I Ching, ovvero il Libro dei
Mutamenti.  Veramente questo libro è un compendio di indicazioni per
la vita quotidiana, un prontuario di saggezza  attiva. E, come spesso
accade,  esso affonda le sue radici nell’antichissima tradizione orale
cinese.  Esso forse  più di altri testi raffigura la filosofia di vita
e la cultura della Cina  partendo dal periodo matristico sino
all’affermazione buddista,    integrando  Confucianesimo e Taoismo in
una unità di pensiero e di tradizione. Trattandosi  di un testo
proteso a fornire consigli pratici e di comportamento nella vita
quotidiana va da sé che Confucio lo ritenesse un libro altamente
significativo, tant’è che a questo dedicò molte note e commenti sugli
esagrammi.

Con la presa del potere da parte di  Mao Tze Dong tale libro, assieme
al Confucianesimo stesso, fu salvato e talvolta preso  ad esempio di
un “comunismo antico” tipicamente cinese. La morale confuciana, come
pure quella taoista e buddista, non richiede  per la sua affermazione
la presenza od  il concetto di un dio. La morale secondo Confucio  è
un metodo  per stabilire il benessere sociale  delle masse e per
mantenere la struttura familiare. L’etica confuciana, in parte
somigliante  a quella di Francesco Guicciardini,  è   una
esemplificazione ideale basata  su norme atte a  coagulare la società
e renderla prospera, nei suoi vari livelli,  mantenendo inoltre una
costante sinergia d’intenti fra lo  stato ed i sudditi.

Per questa ragione il Confucianesimo non è mai stato sconfessato dal
comunismo maoista, anzi Mao ha forse tentato di porsi come un  simbolo
 ininterrotto del buon governo auspicato da Confucio. Che ci sia
riuscito  e se il popolo lo abbia riconosciuto come tale è  un altro
discorso.. Sta di fatto che nel solco del pensiero confuciano si può
intuire e riconoscere tutto il pragmatismo che contraddistingue  anche
la Cina moderna.

Se rivolgiamo l’occhio all’insegnamento di Confucio  esso ci si
presenta libero da ogni collegamento diretto con la divinità, essendo
fondato unicamente sulla ragione e sul buon senso. Ed è per questa
ragione che  da oltre 25 secoli la ragione ed il buon senso  sono
onorati in Cina come una religione. A questo metodo concreto si son
dovute adattare persino altre filosofie più metafisiche come il
buddismo, che ha assunto fra le sue regole la pietà filiale ed altre
simili norme. E persino le minoranze musulmane e cristiane  si sono
cinesizzate ad eccezione della componente cattolica romana che presume
di dovere obbedienza solo ai dettami del papa di Roma… e questa è la
vera  causa della cosiddetta “persecuzione” nei suoi confronti, ovvero
l’impossibilità da parte del governo cinese  di accettare che tale
religione sia estranea al contesto interno (si noti che i vescovi e
cardinali  cattolici vengono nominati dallo stato estero del
vaticano)… ma lasciamo da parte queste diatribe che non ci interessano
e torniamo al buon Confucio.

La vita di Confucio mostra che egli ha sempre parlato da uomo ad altri
uomini   e mai come  messaggero di una divinità che l’avesse eletto
messia o profeta. Egli nacque nella città di Tsan, in Shantung, nel
551 (a.C.) allorché in occidente era da poco deceduto Solone il
moralizzatore di Atene ed a Roma  Servio Tullio sanciva la
costituzione “Tulliana”.   Egli fu costretto da necessità pratiche  a
guadagnarsi la vita e non esitò a svolgere umili impieghi,  non
sentendo in sé la vocazione all’insegnamento come allora veniva
praticata in modo formale. La Cina che già vantava  una storia
millenaria con tre solide dinastie imperiali stava allora
attraversando un periodo di instabilità sociale. Perciò in Confucio
predominò,  oltre al  senso di disciplina e di ordinamento sociale,
il culto delle tradizioni familiari e della pietà. Egli si fece
conseguentemente conservatore e raccoglitore delle memorie e dei testi
sacri che trattavano quei temi. Ma nelle sua opera andò incontro ad
avversioni e persecuzioni, come avvenne un secolo e mezzo più tardi in
Europa  al filosofo Platone. Solo all’età di cinquant’anni Confucio
assunse una carica pubblica di un certo rilievo a Ciung-tu, ove
divenne Ministro di Polizia, mentre la fama della sua saggezza e della
sua eccellente amministrazione si  diffondeva in altre province.

Confucio fu un riformatore severo ed energico, nel suo animo
prevalevano i consigli della giustizia,  perciò gli si formò  contro
una congiura di ignobili potenti, che talvolta attentarono anche alla
sua vita e poi ottennero che egli venissi congedato dal suo incarico.
I suoi ultimi anni furono tristi… sebbene gli venisse risparmiata la
cicuta. Morì a settantre anni nel 479 a.C.

Dai suoi insegnamenti traspare che l’uomo fu creato per vivere secondo
ragione, cioè lottando contro le forze avverse e basse dell’istinto, e
vivendo in accordo con gli altri uomini, seguendo un codice di
principi e doveri conformi alla nobiltà e dignità dell’essere umano.
Le cinque virtù cardinali dell’uomo per Confucio sono: la bontà,
l’equanimità, la convenienza (cioè il pronto adattamento al tempo ed
alle circostanze), la saggezza e la sincerità. Ed è soprattutto alla
sincerità che egli dedicò le lodi più alte.  Egli raccomandò
energicamente i doveri verso i parenti,  il rispetto e la cura per i
più vecchi, la dedizione verso gli amici, la coscienziosità in ogni
atto compiuto, l’autocontrollo e la moderazione.  “Il bene supremo
dell’uomo non è il piacere, né gli onori, né la ricchezza.. ma è la
virtù, sorgente di ogni bontà”.

Del pensiero antimetafisico di Confucio abbiamo sicuri documenti: il
Cielo e la Terra sono i genitori di tutte le creature e questa è anche
la sostanza dell’I Ching, ove invece delle preghiere viene indicato il
retto comportamento come “bene supremo per l’uomo”.  Ed al proposito
dell’aldilà egli affermava: “Se non si conosce ancora la vita come si
potrà conoscere la morte?”.  Personalmente Confucio preferiva
l’attenzione rivolta ai fatti concreti dell’esistenza piuttosto che
alle meditazioni trascendentali.   Egli stabilì una dottrina puramente
laica, come diremmo oggi,  basata su principi logici,  etici,
estetici ed intellettivi.  Egli a buona ragione può essere definito un
precursore e degno rappresentante della Spiritualità Laica.

Confucio ed i suoi seguaci, ovvero la stragrande maggioranza del
popolo cinese, disprezzano perciò quel che non è cogente, che non
rappresenta un fondamento e non ha radici nella vita comunitaria. Lo
“spirito” di Confucio è il risultato dell’analisi comportamentale,
psicologica, archetipale dell’uomo. Egli soleva dire: “Io non voglio
fare dell’uomo un mistico, quando ne ho fatto un perfetto onest’uomo
ciò mi basta”. Assai prima degli stoici greci egli insegnò  l’amore
per tutto il genere umano e “precorrendo” il cristianesimo disse “Non
fate agli altri ciò che non volete fatto a voi!”.


Paolo D'Arpini

"Dalla parte dei vinti" di Piero Buscaroli - Intervista e recensione



Ante Scriptum

"Ho rispetto per QUALSIASI SCELTA che giovani e giovanissimi fecero in quegli anni. Ma di un REAZIONARIO che dichiara candidamente che "della socializzazione non gliene fregava niente..." e che in un vecchio art. addirittura rimprovera il MSI emiliano del dopo guerra di  "...non essere andato a menare i contadini per paura di essere considerato strumento di una reazione bianca" NON me ne frega proprio niente. E infatti, con "IL BORGHESE" (organo della più BECERA reazione) aveva trovato la sua TE$TATA IDEALE . Sbagliano dunque certi fascisti di "sinistra" a prenderlo tanto in considerazione.... Dov'è allora la differenza con il tanto da loro odiato Caradonna pater et filii? Fu uno uno dei  massimi loro teorici che  molti anni fa ebbe a dichiarare , ad esempio che "IN CALABRIA IL FASCISMO FU LO STRUMENTO DELLA REAZIONE DEI  PROPRIETARI TERRIERI" ( P.F.A. 1970). Ma l' Emilia  pur con tutti i suoi lati oscuri che ben sappiamo per fortuna non è la Calabria, non è il Salvador, non è il Guatemala... 
(Gianni Donaudi)"



Dalla parte dei vinti. Intervista con Piero Buscaroli


Dottor Buscaroli,  è in libreria Dalla parte dei vinti. Memorie del mio Novecento. Perché ha deciso di pubblicare questo  libro?
  Per impedire che i tragici fatti accaduti alla fine della Seconda guerra mondiale vengano dimenticati. Le vere guerre civili, da quelle romane a quella americana, sono eterne. Finiscono le guerrette tra popoli diversi che non hanno niente da dirsi, ma le guerre civili sono eterne. Poi, quella italiana è ben più di una guerra civile…
  
In che senso?
  Nel senso che quella che ha avuto luogo da noi è stata una guerra inventata, voluta con scopi precisi da una parte. Io scrivo a un certo punto nel mio libro che il generalissimo Franco, che se ne intendeva, disse una volta che le guerre civili hanno sempre sedimenti, radici antichissime di secoli e secoli.

 Nel libro, a pagina 35, Lei accusa l’antifascismo democratico di essersi defilato dalla storia d’Italia, mentre a pagina 38 parla dell’antifascismo comunista che “occupa il posto vuoto”…
  C’è una specie di sospiro che mi pento di non avere allargato e ingrandito oltre le 4-5 righe che gli ho dato dove dico: “gran fortuna sarebbe stata per l’Italia se nell’immensa disgrazia il partito comunista si fosse astenuto dalla guerra di briganti che stava preparando”. Il partito comunista, non appena vide che era libero, decise di occupare quel posto nella vita politica italiana che gli avevano sempre negato tutti, anche i socialisti. Il Partito comunista, fin da quando il deputato Misiano fu espulso nel ‘21 dalla Camera, aveva l’ossessione di riconquistare un posto dominante dentro la politica italiana. Quando vide che i democratici cristiani e i liberali se la svignarono…

 Perché se la svignarono?
  Per paura e per opportunismo. Ebbene, il partito comunista colse al volo quest’occasione straordinaria di occupare il posto di tutti gli altri e a questo punto la “resistenza” divenne comunista, le stragi furono comuniste, la tattica comunista, la strategia comunista. Quindi non possiamo parlare di guerra civile, bensì di guerra comunista contro l’Italia. Non era guerra comunista contro i fascisti. Si noti bene che a un certo punto riprendo una espressione vera quando dico che noi fascisti non volevamo la morte di nessuno e infatti non ci fu la morte di nessuno. Mussolini riprende il potere sostenuto dai tedeschi (e questo non mi piace). Però che cosa poteva fare Mussolini dal momento che il re e Badoglio scappano?

  Dunque, i tedeschi non furono “invasori”…
  Nessuna espressione è falsa e malvagia come quella del tedesco invasore. Il tedesco si è trovato l’Italia fra le braccia. Il re e Badoglio abbandonarono 4/5 del territorio nelle loro mani. Che cosa dovevano fare? Tornare in Germania e dire “cari signori, ci dispiace, abbiamo sbagliato”? La storia aborre i vuoti. Qui c’era un vuoto che cominciava da piazza San Pietro: chi vedeva piazza san Pietro, vedeva la parte italiana rappresentata da paracadutisti…. tedeschi, non c’era neanche più un carabiniere per sorvegliare piazza San Pietro. I tedeschi non furono invasori, furono i legittimi, legittimissimi eredi dello Stato che Badoglio e il re lasciarono loro scappando. Fino al 26 luglio mattina, ossia finché non diventano pubblici, in senso politico generale, i risultati del 25 luglio, il Reich tedesco non ha avanzato un’unghia di uno sgarro nei confronti del co-occupante italiano da Tolosa in Francia fino ad Atene e Smirne in Grecia. Non cercarono di portarci via, come dire, ebrei, non fu loro possibile e non tentarono neppure. Perché gli ordini di Hitler sono sempre stati severissimi contro tutti quei tedeschi che avessero desiderato infrangere la sovranità italiana. È il 26 luglio che si scagliano contro quello che resta della sovranità italiana e - noti bene - in questo loro scagliarsi contro la sovranità italiana i reggimenti che in seguito faranno parte della Repubblica sociale (come quello comandato dal generale Solinas a Porta san Paolo) furono brevi scontri: non furono battaglie, non fu una guerra, furono brevi scontri di poche ore che poi si ammosciarono, si distrussero e si eliminarono da soli di fronte alla inerzia del governo scappato.

  Non teme che il suo libro possa essere annoverato tra la memorialistica “nostalgica”?
  In questo libro non c’è alcuna nostalgia. Io avevo compiuto 13 anni, il 21 agosto del 1943, e tre giorni dopo fu ammazzato Ettore Muti. La mia famiglia non era particolarmente filotedesca, mio padre aveva fatto la prima guerra mondiale, mia madre aveva avuto tre fratelli morti (l’ultimo fu ucciso il 10 settembre del 1943): naturalmente loro non facevano distinzione tra tedeschi e austriaci. Non c’è nessuna nostalgia; anzi come emerge fin dalle prime righe il mio rigore e le mie antipatie di ragazzo andavano contro la fiacca inerzia del Regime fascista. Ma quando uccisero Muti, fuggiti il re e Badoglio, che cosa succede? Subentrò un vuoto assoluto che la Repubblica sociale tentò di riempire. In primo luogo, contro i tedeschi che stavano occupando tutta l’Italia; ma il nostro nemico sotterraneo - come del resto il nemico sotterraneo degli inglesi e degli americani - erano sempre russi e comunisti. La Germania era nostra alleata e “protettrice”, la sola grande potenza che fosse rimasta a tutelare in qualche modo l’Italia.

  Nel suo libro, c’è un capitolo dedicato al 25 luglio…
  Riguardo al 25 luglio, ci furono due congiure. La congiura vera fu quella del re e degli ufficiali che volevano portare via il potere a Mussolini per trattare la pace con gli anglo-americani. E poi ci fu la congiura dei fascisti all’ultimo momento, che servi alla prima congiura per prendere il potere. Perché, se non ci fosse stato il 24 luglio con la deposizione di Mussolini ordita da Grandi e dagli altri fascisti, mai e poi mai il re, Acquarone e i generali avrebbero preso il potere. L’unico che aveva capito l’intera situazione, nell’intervallo della riunione verso le 22 del 24 luglio, fu Buffarini Guidi, il quale si avvicinò a Mussolini e gli disse: “Ma perché non chiamiamo il console Marabini coi carri Tiger che sono a Bracciano?”. E Mussolini, come al solito, da quel coglione che era, non gli diede ascolto.

  Perché non vi prestò fede?
  Perché sopravvalutò enormemente il suo potere manovriero e soprattutto la protezione del re. Quando io mi trovai a Tokyo nel 1966, domandai all’ambasciatore Hidaka se Mussolini sapesse. Mussolini sapeva benissimo tutto quello che accadeva e sicuramente aveva confidato al re che il 28 luglio Hitler avrebbe ricevuto un telescritto con il seguente aut/aut: “o ci date più armamenti, o noi usciamo dal conflitto”. Tanto che non si riesce a capire a quale Mussolini credere. Crediamo nel Mussolini che ci hanno dipinto ormai impotente, incapace, irresoluto, senza più voglia di fare politica, desideroso solo di rifugiarsi nella sua tenuta di Romagna? Così lo hanno presentato, e così lo hanno svilito per tutti questi 70 anni. Io non difendo Mussolini, sono stato tentato veramente di credere che Mussolini non avesse più voglia o capacità di fare niente, e come un qualunque Giolitti volesse tornarsene nella sua Dronero e starsene in pace anche con la riserva molto astuta di lasciare la guerra in mani di altri. Hidaka, l’ambasciatore del Giappone, mi disse che Mussolini aveva già predisposto tutto per tre giorni dopo – si noti bene! -, e queste cose Mussolini non le aveva dette sicuramente ai suoi perché tutto quello che diceva a Ciano e alle sue contesse veniva riferito all’ambasciatore d’Inghilterra presso il Vaticano e il giorno dopo gl’inglesi lo avrebbero saputo.

  Quindi l’interrogativo su Mussolini rimane aperto…
  Io non posso ora, con l’esperienza e lo sguardo di quello che era allora un ragazzo di tredici anni, risolvere una situazione. Rimane tuttavia dubbio tutto quello che è stato detto sul 25 luglio.

  Proviamo a fare un passo indietro. Gli avvenimenti di cui stiamo parlando sono in qualche modo l’epilogo della Seconda guerra mondiale. L’entrata dell’Italia in questo conflitto fu davvero inevitabile? Non c’erano alternative per ...
  L’entrata in guerra non fa parte di questo libro. Farebbe parte del secondo volume se io non avessi perduto fiducia, stima e simpatia per la Mondadori: se non fossi rimasto offeso da perdite di tempo (perfino un anno), silenzi, cambiamenti, menzogne, tutte manovre che si concretarono in tentativi di liberarsi del contratto con me.

  Non ci può anticipare sul contenuto del secondo volume?
  Tutto cominciò nel 1975 con una lunghissima passeggiata a Madonna di Campiglio con l’ambasciatore Pietromarchi. Nella nostra entrata in guerra, l’allora consigliere Pietromarchi era stato, nei primi mesi del 1940, quella che nel gergo diplomatico si chiama la “ragione per cui”… era stato il funzionario addetto ai rifornimenti e alla protezione della navigazione dalle insidie degli inglesi. Perché si era visto che gli inglesi, nei mesi della cosiddetta “non belligeranza”, intralciavano il traffico marittimo italiano con ispezioni e umilianti intralci ancora documentati nei documenti diplomatici. Pietromarchi preparò per il Duce un quadro terribile della situazione; non si poteva andare avanti così: il traffico portoghese, quello spagnolo non venivano molestati, mentre veniva insidiato il traffico italiano con giorni e giorni di sequestri.

  Come avvenne l’incontro con Pietromarchi?
  Era l’estate del 1975, mi ero appena liberato dalla direzione del “Roma”. Stavo facendo le vacanze in montagna, a Madonna di Campiglio, quando dalla terrazza della mia casa, vedo passare, inconfondibile per i bellissimi baffi e per la figura eretta, alto e magro, l’Ambasciatore. La strada finiva lì ed entrava in un bosco bellissimo. Mi feci coraggio, mi avvicinai a lui e gli dissi: “Sono l’ex direttore del “Roma”. Mi sono permesso di accostarla perché ho una domanda che mi tormenta da anni. È una domanda difficile, temo che possa anche offenderla. Per tutti quelli che si occupano della Seconda guerra mondiale, sua è la firma del diplomatico di carriera messa accanto alla decisione di Mussolini di entrare in guerra; il suo rapporto sulla navigazione fu sempre considerato come il pretesto che Mussolini si era preparato per giustificare l’entrata in guerra prima di tutti col re. Le impazienze di Vittorio Emanuele erano ben conosciute nel marzo-aprile del 1940. Con tutti quelli che lo avvicinavano diceva di Mussolini “quel cretino non approfitta delle conquiste tedesche, che cosa aspetta”.

 E che cosa le disse Pietromarchi?
  “Certamente quel mio rapporto fu una giustificazione e una spiegazione”. Gli chiesi: “Ma lei ebbe mai l’impressione, mentre faceva quel rapporto, di assecondare un desiderio del Capo del governo? Ebbe la coscienza di fare, in poche parole, quello che Mussolini voleva per avere una motivazione accertata e approvata dal tecnico della situazione, com’era lei, per entrare in guerra?”. Mi rispose con questa frase: “Io non mi sarei mai prestato e Mussolini non me lo avrebbe mai chiesto” e aggiunse: “Per quanto si possa considerare bene o male, Mussolini aveva per il funzionario una correttezza e un rispetto tali che non avrebbe mai chiesto una cosa come questa; certo, io dissi che in quella situazione in cui eravamo giunti (maggio 1940) non poteva fare a meno, se voleva tutelare l’onore e il prestigio dell’Italia, di entrare in guerra; ma questo non vuole dire che io approvassi la sua politica. La disapprovavo fin da quando nel 1936 col patto di Stresa si era messo in condizione un giorno di essere prigioniero degli inglesi e dei francesi”.
  Comunque, tutto quello che riguarda l’entrata in guerra non ha posto in questo libro… Dalla parte dei vinti riguarda le vendette alla fine della Seconda guerra mondiale da privati assassini. Io non posso permettere che sia dimenticato quello che è stato fatto agli uomini della nostra parte e non posso permettere a delle persone come l’attuale ministro della Difesa, nella piazza di un paesino d’Abruzzo chiamato Onna, l’anno scorso, fregandosi le mani davanti alla città, di dire che “siamo arrivati finalmente alla memoria condivisa”. Io dico condivisa un corno!!! Non condivideremo mai niente!!! Ho fatto questo libro perché i nipoti e i pronipoti di quelli che furono uccisi non condividano mai niente con questi assassini! È chiaro? Io, a 59 anni di distanza da quei tragici fatti, non riesco ancora a dimenticare... L’Italia è piena di stragi come quella di Urgnano, vicino a Bergamo, che sono considerate “eventi bellici” dalla giurisprudenza vigente: nel maggio dell’anno scorso una corte di Firenze ha punito un senatore e un consigliere comunale della vecchia Alleanza nazionale perché non avevano detto che il Fanciullacci – l’assassino di Giovanni Gentile - aveva compiuto un’impresa di guerra. Finché si continuerà ad avere una legislazione in cui l’uccisione del senatore Gentile viene considerata un’azione di guerra, non è possibile che questo Paese risorga verso una vita decente.

  Dalla parte dei vinti è stato pubblicato da un grande editore come Mondadori. Vuol dire che qualcosa – nel panorama editoriale italiano - sta cambiando?
  Non so. Non capisco ancora. C’è un marasma morale insondabile. Più che una crisi di valore, un inabissamento di tutti valori. Ma dalla disgrazia, dalla paura che per 65 anni ha paralizzato questo popolo, sta sorgendo una insofferenza verso il passato, di due generazioni. Insorgono nipoti e pronipoti che rifiutano di accettare il macello, come io l’ho chiamato, assai peggiore che la strage, durato cinque anni dopo la fine della guerra.

  Lei dedica diversi capitoli ai “crimini dei vincitori”, in particolare alle vittime dei bombardamenti anglo-americani. Non crede che sarebbe opportuno istituire - visto che ormai si dedicano giornate della memoria alle vittime di diversi eventi storici drammatici – una giornata per ricordare le vittime dei bombardamenti anglo-americani?
  Non lo faranno mai, perché per loro solo le vittime dei tedeschi sono vittime: le vittime degli americani sono sacrifici malinconici ma inevitabili, dovuti. Le vittime che i partigiani hanno imposto ai tedeschi furono neppure 10.000; le vittime degli americani e degli inglesi sono state 70.000. Ma, per loro, i bambini di Gorla sono sacrifici dovuti. Deplorare gli inglesi, gli americani? Non lo faranno mai. Berlusconi che tocca gli americani?!? Gli americani hanno fatto del bene, hanno salvato l’Italia, e Berlusconi non ha voluto personalmente che si facesse un cimitero a Nettuno… Nel primo capitolo sul terrorismo aereo, ho dimostrato che la strategia tedesca non era fatta per bombardare le popolazioni, ma era espressa da un monomotore da bombardamento preciso che era lo Stuka. La strategia anglo-americana, invece, era rappresentata da quadrimotori che portavano in seno delle montagne di bombe e continuarono a buttare montagne di bombe fino all’ultimo giorno di guerra. Qui c’era un paese vicino a Bologna che fu distrutto l’ultimo giorno di guerra… Non avevano pace finché non distruggevano tutto… Ho visto la piattaforma di Brest, che era un porto militare francese sulla Manica, distrutta come erano state distrutte le città tedesche e italiane perché gli americani e gli inglesi non avevano pace se non distruggevano l’Europa. Tutte le città a partire da Dresda non avevano un minimo significato militare, poche città tedesche hanno protestato per questo. Si considera, ancora oggi, Churchill una persona buona da un punto di vista individuale: le decisioni provate lo presentano come un assassino, assai peggio di Hitler.

  Non è un po’ tardi, dopo quasi settant’anni, per riprendere un motivo come quello delle stragi dopo la guerra?
  Non c’è un sentimento tardivo nella pubblicazione di un libro come questo. Ci sono il presagio, la speranza di un altro futuro, come invocò Alessandro Pellegrini, un forte avvocato, la sera del 9 marzo a Bologna. Non vogliamo la condivisione, la mescolanza, la confusione che invocano ministri opportunisti e traditori. Non ci sentiremo mai uguali a loro. Impediremo l’imbroglio ignobile. Non c’è più il sentimento della vendetta, tardiva e impossibile. Ma una netta, fierissima divisione delle tracce scavate nel terreno della nostra storia. Il tempo dirà se ci saremo riusciti.

Francesco Algisi