Memorie, storie e sentimenti...

Perché la storia si ripete da sempre secondo un cliché conflittuale che, nonostante le belle intenzioni pubbliche e private, non riusciamo mai a superare? È una contraddizione alla quale non potremo mai fuggire, o quei propositi hanno la possibilità di realizzarsi?


Senza alternativa

Se ad un campione di umani si chiedesse di disegnare l’albero fuori dalla finestra, a consegna ultimata constateremmo un varietà di alberi. Nonostante l’evidenza delle molteplici diversità, l’esperimento – che si può ripetere con qualunque altro oggetto – potrebbe non bastare a generare in noi nuove domande, a rivedere vecchie convinzioni. Non basterebbe a farci prendere per mano noi stessi per avviarci a rivisitare il giro del palazzo della vita, per scoprire dove e perché avevamo imboccato il bivio che ci ha condotti a certe convinzioni, alla fabbrica della storia. Cioè, dove abbiamo deciso di prendere la via per ego e cosa ci ha distratto al punto da non vedere che c’erano strade alternative.


Il grande solco

Durante il giro del palazzo scopriremmo che già allora c’erano solchi dai quali era impossibile – così dicevamo – uscire, passare ad altri. Erano i solchi dei luoghi comuni. In essi procedere era più facile, tutto era più semplice. C’era compagnia, c’era sicurezza.

Gli altri camminamenti erano semivuoti e impervi. Le persone che dicevano di saperne qualcosa, non avevano incertezze: “non ne valgono la pena”. Era una formula che si sentiva spesso. Un’altra era “buon senso”. Pareva che con il buon senso tutto andasse a posto. Ed effettivamente avevano ragione, purché il processo che lo richiedeva si svolgesse nel solco del luogo comune. A dire il vero c’erano anche altri aspetti, di maggior spessore, che imperavano in quel solco affollato. Ricordo la morale impiegata e condivisa – e che fosse sempre contraddetta, nessuno ne parlava mai – il dogma della democrazia, come sola possibile forma di comunità; quello della scienza, come sola possibile descrizione del mondo; quello del razionalismo, come il solo idoneo a discriminare le scelte; quello della tecnologia, come rappresentazione del progresso; quello dell’opulenza, come dimostrazione di ricchezza; quello del sapere e del ricordare, forse il più divertente: dicevano infatti che solo in quel modo la storia non si sarebbe ripetuta, che solo studiando avremmo eletto a virtuosa la nostra vita. L’elenco era lungo a sufficienza affinché ognuno potesse sguazzare da un luogo comune all’altro credendo però di nuotare liberamente.


Uomini di Serie B

A fianco a noi qualcuno percorreva altri solchi. Si vedeva l’impegno che ci mettevano. Noi ci chiedevamo cosa li avesse spinti a tanto. Ma era retorica. La verità era che li consideravamo dei cialtroni, dei ciarlatani, gente che non aveva capito nulla e soprattutto che non contava nulla. Erano spesso soli. Facevano gesti di richiamo che qualcuno di noi ogni tanto considerava. Ma si trattava di tentativi d’ascolto che regolarmente abortivano. Stravaganze inammissibili. In poco e con poco sforzo l’incauto soggetto veniva riportato sulla retta via della consuetudine. “Non ci vuole tanto” – gli veniva ribadito – “basta il buon senso per capire che stavi solo perdendo tempo”. Avventurarsi a considerare il richiamo di gente estranea e non di rado diversa, non era cosa compatibile con il grande solco della maggioranza.


La scoperta dell’io

Raramente si accetta di prendersi per mano per andare a ripercorrere il giro del palazzo, per scoprire se nella costruzione delle nostre convinzioni eravamo davvero noi gli autori o subivamo gli occulti solleciti delle consuetudini. Tendenzialmente accade a chi, davanti all’insolito, invece di scartarlo a favore del più rassicurante status quo, invece di giudicarlo e di identificarsi nel proprio giudizio, si chiede da dove arrivino voci tanto diverse dalla sua e da quelle che aveva sentito. Sono queste persone le più disponibili a rivedere il percorso, a riconoscere che l’io è una struttura che scambiamo per noi stessi e che genera l’altro.

A volte, questa presa di coscienza è una delle prime che si incontrano lungo le tracce alternative intorno al palazzo. All’epoca neppure viste. Non di rado, è seguita da quella che gli altri sono altri soltanto se la nostra concezione di questi è limitata al loro io.

È facile infatti parlare quando si parla degli altri. Come fossero davvero come li vediamo; come stessero realmente entro la nostra descrizione e come se noi non c’entrassimo nulla con la verità che ne estraiamo. Come non sospettassimo che non c’è alcuna realtà ferma davanti a noi, come non sapessimo che ogni realtà si genera nella relazione tra noi e qualcosa, fosse anche un pensiero; come se altre descrizioni non esistessero.

È una sorte che, in forma coatta, tocca anche al narciso. Parla di sé immaginando che gli altri parlino così di lui. Diviene intollerante quando si trova al cospetto di descrizioni differenti dalla propria. Oltre la cornice del suo specchio il mondo scompare. Narcisi lo siamo tutti.



Una questione sentimentale

Quando tutto ciò ci appare lapalissiano, i luoghi comuni svelano la loro biografia, la loro necessarietà diviene chiara, e così la loro superficialità. Il registro cambia. Gli altri diventano dei noi; fanno esattamente quello che facciamo noi; ciò che facciamo è già stato fatto da altri e altri lo faranno ancora. E come potrebbe essere diversamente? Come potremmo interrompere la frattalica generazione di noi stessi? Hanno i nostri stessi sentimenti ed emozioni, nonché esigenze psicologiche, fisiologie, biochimiche; esprimono e subiscono attrazioni e repulsioni come noi.

Non vedere che il nostro agire è dominato dai pochi sentimenti che tutti conosciamo è il necessario per edificare differenze, per generare il dualismo e con esso la storia. Che è storia di conflitti in nome del sentimento che ci muove. I sentimenti creano dunque il mondo che, per l’inconsapevolezza del solco in cui siamo, lo crediamo esterno, pronto per essere attraversato, occupato, terreno dei nostri intenti, delle nostre stragi. Dentro la penombra del solco non possiamo immaginare altri mondi. Non ci siamo accorti che l’immaginazione crea la realtà.


Magia del luogo comune

Se ci prenderemo per mano per accompagnare noi stessi a rifare il giro del palazzo, avremo modo di ricordare il maestro di scuola che ci diceva com’era il mondo, come per noi il mondo fosse proprio come diceva lui. Ricorderemo come ugualmente agirono su noi i suoi colleghi di ruolo incontrati nel nostro vivere. Lo vedremo chiaramente, e ci farà un po’ piangere e un po’ ridere. Ce lo raccontavano seriamente, non volevano prenderci in giro. E così abbiamo perpetuato a nostra volta. Abbiamo perpetuato quella poca quisquilia di verità che credevamo contenesse il mondo. Ci abbiamo campato. C’abbiamo costruito categorie e graduatorie. In sostanza, siamo arrivati a credere che la pipa fosse davvero una pipa, abbiamo scambiato la mappa per il territorio. Lo abbiamo fatto con orgoglio, sebbene tracimante di inconsapevole insolenza. Ora, nel nuovo giro del palazzo, ci è evidente. Mentre ci chiediamo come sia stato possibile arrivare a tanto, la risposta è semplice quanto potente: è la magia del luogo comune.


Capire non conta nulla

Il solco dal quale il nostro maestro declamava la verità era profondo, non c’è da biasimarlo. Come poteva vedere il mare, raccontando il mondo dal fondo della valle. Non c’è da dargli contro, per averci costretto a un ordine artificioso e povero, né da farci attraversare dal rancore o dall’ira, dal sentimento di vendetta. Perché nella consapevolezza che l’altro è un noi solo formalmente differente, è incluso il principio di reciprocità di legittimazione, di pari dignità. Ma non nell’accezione comune, quella che il grande solco di oggi ci indurrebbe a pensare. Non in senso giuridico-amministrativo, politico, etico, e neppure morale. Non si tratta di valori limitati alla dimensione intellettuale, superficiali. Con certe fattezze esistono già, sbandierate e altisonanti quanto poco incisive, per niente in grado di cambiare il mondo, come è invece scritto nei proclami che ne accompagnano la nascita e negli slogan, che li spalleggiano. Non sono in grado perché non generano da consapevolezze incarnate. Sono solo stati capiti, e capire non conta, saremmo saggi da millenni.


Noi e non altri

Per evolvere è necessario sentire la portata e ricreare il significato della reciprocità di legittimazione e della pari dignità. Ma meglio non dirlo a nessun maestro, gli potrebbe venire a mancare il solco sotto i piedi.

Non sono dunque elementi amministrativi, superficiali. Possono cambiare la storia. Sono rivoluzioni in potenza che non generano dalla massa ma da noi. Senza sangue, né violenza. Partendo da noi stessi, individualmente, possiamo esperire come dare dignità, legittimare e ascoltare istantaneamente modifichino la relazione, istantaneamente permettano un dialogo alla pari e di rivisitare noi stessi; di abbassare la lancia in resta della nascosta arroganza di quanto candidamente affermiamo. Noi e non altri possiamo modificare il modo di vivere i sentimenti. Noi e non altro possiamo modificare la storia.

Lorenzo Merlo  - xex@victoryproject.net



Dall'I Ching agli archetipi alla conoscenza di Sé



Come accennato in precedenza il calendario cinese è un calendario lunare in cui l'inizio dell'anno è sancito dal passaggio di tredici lune (si considera il passaggio delle lune nuove o nere).

Il Libro dei Mutamenti (I Ching), come tradizione orale, addirittura precede la formazione del calendario cinese: si trattava inizialmente di un sistema di conoscenza basato sulle coordinate spazio-temporali e su di un responso oracolare affermativo o negativo in cui la linea spezzata rappresentava il no e la linea intera rappresentava il si, in modo del tutto analogo al sistema divinatorio degli sciamani mongoli e tibetani (a cui è collegato) e a quello della Pizia o delle Sibille nel mondo mediterraneo.
I cicli di base del calendario cinese sono costituiti da sessanta anni.
I Cinesi erano pragmatici ed il sistema lunare si rifà alla condizione spazio-temporale sulla terra, ai cicli stagionali che riguardano tutti gli esseri viventi; i movimenti dei pianeti non vengono tenuti in gran conto perché si privilegia l'aspetto del "qui ed ora", delle condizioni presenti  in cui ci troviamo immersi.

Commentari del Libro dei Mutamenti:

I commentari sono ad opera di Lao Tze con il Taoismo e di Confucio e/o dei suoi discepoli, circa nel 600 a.c. Nell'I Ching si possono riconoscere anche alcune influenze di tipo buddista.
Secondo la filosofia cinese gli aspetti negativi non vanno scartati ma per dare la giusta risposta è necessario tenere un atteggiamento discriminante. Questo comportamento è rappresentativo dell'evoluzione. Secondo il criterio cinese ed indiano (soprattutto nel sistema Taoista ed Advaita) è necessario vivere la propria natura liberandosi dalle sovrastrutture come le influenze culturali e sociali.
Lo Zen stesso ci esorta a perseguire l'autenticità piuttosto che la perfettibilità.
A questo proposito rammento un antico proverbio popolare: “Il meglio è nemico del Bene”.

Come leggere il Libro dei Mutamenti:

Il Libro dei Mutamenti è un libro di conoscenza e andrebbe letto come un “romanzo” in cui i personaggi sono costituiti dagli esagrammi stessi.
Lasciarsi pervadere dalle immagini evocate senza tentare un'analisi è il modo migliore per avvicinarsi ad esso; il testo va compreso sia per mezzo della razionalità che per mezzo dell'intuizione, usando cioè la mente con la sua parte sia logica che analogica ovvero Yang e Yin.
Il nostro studio ci porta ad analizzare tutti i modi espressivi della mente fino ad arrivare a comprendere che colui che osserva non è diverso da quello che è osservato (e questo viene corroborato persino dalle recenti scoperte della fisica quantistica).

Ambito di formazione del Libro dei Mutamenti:

Nel periodo iniziale della formazione del Libro dei Mutamenti vigeva ancora il matriarcato ed in esso se ne trovano delle tracce, per esempio nell'esagramma “Il Farsi Incontro” in cui vediamo la donna prendere l'iniziativa nell'avvicinarsi ad un gruppo di uomini.

Nella cultura greca assistiamo alla lotta tra Venere, rappresentante del fascino femminile, e Minerva che rappresenta l'intelligenza nelle sue qualità femminili.  Al tempo della fondazione dell'impero cinese c'era già il patriarcato che arriverà in Europa con gli Indo-Europei scalzando il matriarcato (vedi studi dell'archeologa lituana Marija Ginbutas), le cui ultime vestigia sono ravvisabili a Creta ed in Sardegna, luoghi abitati delle ultime enclavi di stampo matriarcale. Le divinità tipiche del periodo matriarcale sono le divinità ctonie (della terra e sotterranee) mentre quelle relative al periodo patriarcale sono le divinità “celesti” che “virtualizzano” il concetto stesso di divinità, per esempio il dio dei Giudei (che è poi lo stesso Arconte del Cristianesimo e dell'Islam).

Nel sistema zodiacale indiano e nel Libro dei Mutamenti il principio maschile e quello femminile sono considerati paritari salvo che per un lieve accento a favore della cultura patriarcale; come esempio portiamo il concetto, presente nel Libro dei Mutamenti, secondo il quale la Terra senza la fecondazione del Cielo non potrebbe produrre i suoi frutti. E' da notare comunque che la Devozione è la qualità principale della Terra e la Conoscenza è la qualità del Cielo. I due aspetti vanno integrati in quanto costituiscono una realtà unica.

Ricordiamo qui che il greco ed il latino sono lingue di derivazione sanscrita; parimenti la filosofia greca rappresenta un aspetto speculativo simile a quello della filosofia indiana (vedi Socrate e Plotino). Infatti i Greci sono di origine indoeuropea (tale civiltà trovò la sua affermazione più evoluta nella Valle dell'Indo e del  Sarasvati (quest'ultimo fiume ora prosciugato) e si estese fino alla Persia). Altra popolazione indoeuropea furono gli Ittiti, che invasero la Mesopotamia e zone limitrofe.

Alcune considerazioni filosofiche

Possiamo dire che la perfezione nella forma è una convenzione e come tale “perfettibile”; la perfezione per i Cinesi e gli Indiani risiede piuttosto nell'Assoluto, nella coscienza interiore, nella fase che precede ogni attributo o identificazione. Da qui il concetto di verità indefinibile ed ineffabile che può essere solo evocata e vissuta nello scioglimento del soggetto individuale nel soggetto universale.
L'esistenza è una espressione dell'Assoluto,  che non si comprende né si descrive, ma all'interno del dualismo appare in forma di conoscenza empirica di un soggetto che conosce l'oggetto.
La nostra ricerca presente è basata sulla conoscenza degli aspetti pratici di questa manifestazione duale, salvo il negarlo di tanto in tanto per ricordarci che non è la verità ultima, questo percorso non è di apprendimento per conoscere quello che intimamente siamo, Coscienza Assoluta, ma ci serve soprattutto per “disintossicarci” dalla tendenza esternalizzante e da tutto ciò che essa produce (il senso di identificazione con la forma ed il nome) perché vogliamo dare meno valore a questo aspetto specifico. In realtà analizziamo l'esterno (ovvero gli aspetti riconoscibili della mente) solo allo scopo di poterne riconoscere la non-sostanzialità.

Reincarnazione e Buddismo

La reincarnazione secondo il concetto buddista non è di tipo personale. L'incontro dello Yin con lo Yang porta alla manifestazione fisica e psichica senza che questo percorso formativo sia legato all'Esistenza di un io individuale; si tratta piuttosto di un modo espressivo della coscienza che assume una determinata sembianza ed identità sulla base delle caratteristiche psicofisiche in cui si imbatte.

In altre parole l'io individuale è solo una tendenza mentale, un pensiero, una capacità identificativa, che non ha sostanza, insomma è un riflesso che si forma nella coscienza. Perciò secondo il criterio buddista non c'è alcun io individuale che si reincarna ma solo una sequenza di pensieri e tendenze mentali che trovano espressione  in una sorta di prosieguo evolutivo.

Per questa ragione si indica la realizzazione di Sé come un “ritrovare” la vera natura originaria,  ciò che si è sempre stati,  e non il raggiungimento di un qualcosa che si ottiene ex novo, questa conoscenza di Sé e allo stesso tempo imponderabile, indefinibile ed onnicomprensiva. L'insieme di tutto ciò che è e non è. Mentre il  credere in uno stato duale (dio e anima, creatore e creatura, io e l'altro, etc.) significa fissazione su un fotogramma mentale e quindi corrisponde alla "morte" od oblio del Sé. Qui si pone l'esempio dell'esame di un organismo, non tenendo conto (in senso olistico) dell'insieme vitale, che è come il sezionare un cadavere per capirne il funzionamento. Ma la comprensione di quel che è vita può venire solo dalla diretta esperienza e non da una sterile analisi sul cadavere.

La coscienza "è", non è coscienza "di", e noi siamo quella pura ed assoluta  Coscienza.

Paolo D'Arpini