In questo articolo accenneremo brevemente ad una serie di filosofi, e di scuole filosofiche dell’800 di stampo irrazionalista, sorte come reazione, sia all’idealismo di Hegel (che manteneva comunque un impianto razionalista derivato da influenze illuministe), sia alla fiducia assoluta nella scienza e nella tecnica dimostrata dalle correnti positiviste, da molti governi sostenitori del capitalismo, ed anche da molti scienziati e da ambienti politicamente socialisti(1)(2)(3).
Contemporaneo ed avversario dichiarato di Hegel (considerato un ciarlatano) fu il tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860), che nell’opera più importante: “Il Mondo come Volontà e come Rappresentazione” del 1819, ripubblicata ed ampliata nel 1844, pur dichiarandosi seguace di Kant ed ammettendo l’esistenza dei fenomeni, ha poi precisato che la rappresentazione della realtà esterna sarebbe illusoria ed i concetti derivati da essa solo costruzioni sterili della mente. L’unica realtà sarebbe la “volontà infelice” dell’uomo, che prova dolore per i limiti che sono imposti alla sua stessa volontà. Solo la creazione artistica (in cui la musica ha un ruolo privilegiato) può darci delle idee. La limitazione della volontà individuale, causata dalla compassione o da idee di giustizia, ci porta alla fine a contemplare il “nulla” (fatto che però può darci pace).
Il danese Soren Kierkegaard (1813-1855), che frequentò a Berlino le lezioni di Schelling, nelle opere “Aut, aut” e “ Timore e Tremore” del 1843, “Il Concetto dell’Angoscia” (1844), “ La Malattia mortale” (1849), si pone essenzialmente il problema dell’esistenza individuale, così come faranno gli Esistenzialisti del ‘900. L’esistenza traversa una fase “estetica” di ricerca del piacere, che però ricade nell’angoscia; una fase “etica” in cui si dà delle regole; ed infine una fase “religiosa” in cui fronteggia l’assurdo del rapporto con Dio, la trasgressione del peccato e la contemplazione – in questo caso angosciosa - del “nulla”. L’opera di Kierkegaard ebbe larga diffusione, come quella di Schopenhauer, nella seconda metà del secolo.
Il tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), nelle sue opere: “Così parlò Zarathustra” (1883-85) ed “Al di là del Bene e del Male ” (1886), denunciò l’abbandono da parte dell’umanità di un presunto stato primitivo di ebbrezza “dionisiaca” per abbracciare una razionalità “nichilista” di cui l’autore ritiene responsabili la filosofia di Platone ed il Cristianesimo. Bisognerebbe invece andare al di là della morale comune per liberare la propria “volontà di potenza”, utilizzando tutte le proprie potenzialità e raggiungere lo stadio di “Super-Uomo”. La filosofia di Nietzsche – finito comunque in manicomio – ha influenzato varie correnti irrazionaliste posteriori, ed anche il pensiero di movimenti politici totalitari, come il Nazismo.
Bertrand Russell, e sostanzialmente anche Ludovico Geymonat, stroncano (giustamente, a parere di chi scrive) il pensiero di questi filosofi ritenuti irrazionalisti romantici. Nella seconda metà del secolo si deve segnalare anche il francese Émile Boutroux (1845-1921), la cui filosofia (che ebbe grande successo) fu definita “Contingentismo” in quanto egli riteneva che ogni branca del sapere fosse “contingente” (cioè irriducibile) rispetto ad altre. Essa contiene una polemica esplicita con il positivismo, lo scientismo, e la fisica meccanicistica in auge. Boutreaux si batte a favore dello spiritualismo e ritiene che la religione – basata sulla fede – sia incompatibile con la scienza, basata su verifiche sperimentali. Ritiene che la conoscenza sia un adattamento della realtà alla nostra mente mediante costruzioni “simboliche”. Su posizioni analoghe troviamo Félix Ravaisson-Mollien (1813-1900), sostenitore di uno spiritualismo religioso, e Charles Renouvier (1815-1903), secondo cui è la volontà che ci indica le verità da accettare.
Dubbi irrazionalisti sulla validità della scienza coinvolsero anche noti scienziati come il tedesco Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) – che parlò di enigmi insolubili con i metodi della scienza – e come il francese Claude Bernard (1813-1878), che parlò della necessità di conoscenze più alte, di tipo metafisico. Già ne facemmo cenno nel numero dedicato ad Helmholtz (N. 82). Abbiamo anche ricordato (N. 80) la posizione assunta dal filosofo Spencer di valorizzazione della religione per affrontare il problema di un presunto “inconoscibile”.
Chiari aspetti irrazionalisti si trovano anche nell’ambito del “Pragmatismo” americano, corrente filosofica il cui “manifesto” è considerato lo scritto del 1878 di Charles Sanders Pierce (1839-1914): “Come rendere chiare le idee”. L’autore, che già abbiamo segnalato (N. 91) come valente filosofo logico, afferma che la verifica di un’idea è data, non dal fatto se sia vera, cioè se corrisponda alla realtà, ma dai risultati pratici a cui porta, ovvero se ci porta al successo. Per lui infatti conta solo la “razionalità dell’azione” ed il pensiero deve servire solo a realizzare azioni più efficaci. Per Pierce la verità è solo “l’opinione destinata ad essere accettata dall’ultimo di coloro che hanno investigato”.
Su una linea analoga si pose il pensiero di William James (1842-1910), medico e professore ad Harvard (come Pierce), autore dei “Principi di Psicologia” del 1890. Anche per lui è determinante, non la conoscenza (in cui non vi è differenza tra soggetto ed oggetto in un’ottica che ricorda il pensiero di Berkeley), ma l’azione. In un Universo, da considerarsi aperto ed indeterministico, dove nessuna realtà oggettiva sarebbe stabilita, siamo liberi di avere fiducia nei nostri mezzi personali e di poterci migliorare (“Migliorismo”), e dobbiamo scegliere le “credenze” più utili. Tra queste al primo posto James non pone le conoscenze scientifiche ma i postulati etico-religiosi, che sarebbero i più utili ad orientarsi correttamente nella vita.
Impostazioni analoghe, anche se più articolate, si possono trovare nel pensiero di John Dewey (1859-1952), professore all’Università del Michigan, a Chicago ed alla Columbia di New York, considerato il massimo filosofo statunitense di tendenze pragmatiste. Anche Dewey sostiene che – nell’ambito di una realtà articolata ed aperta, di cui bisogna considerare tutti i livelli, fisico, psicologico e spirituale – l’intelligenza deve servire, non tanto alla scoperta della verità, quanto alla vita pratica (“Strumentalismo”). Il pensiero ha un’origine ed un fine pragmatico. La conoscenza è data da un processo (chiamato “indagine”) di adattamento reciproco tra soggetto e fatti esterni, il cui scopo è l’autoconservazione. Anche la logica ha un fine pratico e deve servire solo a riorganizzare i fatti. Le convinzioni che ne scaturiscono sono buone solo se portano a risultati positivi (indipendentemente dal loro contenuto di verità). La morale è solo un mezzo per risolvere problemi. L’educazione è importante in quanto ci deve dare gli strumenti per affrontare la realtà della vita. Essa deve curare sia gli aspetti materiali della vita, sia quelli spirituali.
Bertrand Russell criticò duramente il pensiero del suo contemporaneo Dewey, accusato di voler manipolare i fatti – quasi preso da una volontà di potenza - invece di analizzarli razionalmente e studiarne le cause. Ne seguì una vivace polemica, in cui chi scrive prende chiaramente posizione a favore di Russell.
Vincenzo Brandi
(1) L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti ed. 1972
(2) W. Adorno e altri, “Storia della Filosofia”, Laterza 1987
(3) B. Russell, “Storia della Filosofia Occidentale”, TEA 1995, originale 1945
(*) L'articolo è tratto dal libro "Conoscenza, Scienza e Filosofia", di cui si può chiedere copia all'autore scrivendo a brandienzo1940@libero.it