Celebrazione come atteggiamento di vita... secondo Osho


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DomandaOsho, puoi parlare della celebrazione? È possibile celebrare l’infelicità?

OshoÈ possibile, perché la celebrazione è un atteggiamento, quindi anche verso l’infelicità puoi assumere un atteggiamento di celebrazione. Ad esempio, se sei triste, non identificarti con la tristezza. Osservala, diventa un testimone e goditi i momenti di tristezza: ha anche lei la sua bellezza. Non osservi mai, ma ti identifichi così totalmente da non penetrare mai le meraviglie di un istante di tristezza. 

Se osservi, rimarrai sorpreso nel vedere quali tesori ti sei lasciato sfuggire. Notalo: quando sei felice non sei mai così profondo come quando sei triste. La tristezza ha in sé una certa profondità, la felicità è superficiale. 

Osserva le persone felici, le cosiddette persone felici. Le trovi nei club, nei ristoranti, a teatro... Sorridono sempre e sprizzano felicità da tutti i pori. Ma le troverai sempre poco profonde, superficiali, non hanno alcuna profondità. 

La felicità, come le onde, è solo sulla superficie: ha una vita superficiale. Al contrario, la tristezza ha profondità. Quando sei triste, non è un’onda di superficie, è come la fossa oceanica del Pacifico, che si inabissa per chilometri e chilometri. 

Entra nell’abisso, osservalo. La felicità è rumorosa, la tristezza contiene un suo silenzio. La felicità può essere paragonata al giorno, la tristezza alla notte. La felicità è simile alla luce, la tristezza all’oscurità. La luce va e viene, il buio rimane, è eterno. La luce arriva a volte, l’oscurità è sempre presente. 

Se entri nella tristezza, tutte queste cose saranno percepibili. All’improvviso ti accorgerai che la tristezza è presente, come un oggetto. Tu la osservi, diventi un testimone e, all’improvviso, inizi a sentirti felice. Una tristezza così bella! Un fiore dell’oscurità, un fiore di eterna profondità!
È come un abisso senza fondo, così silenziosa, così musicale. Non c’è rumore, nessun fastidio. Puoi sprofondarci dentro all’infinito e uscirne totalmente rinvigorito. È riposante. 

Dipende dall’atteggiamento: quando diventi triste, pensi che ti sia accaduto qualcosa di brutto. È solo una tua interpretazione che ti è accaduto qualcosa di brutto, perciò cerchi di evitarlo, vuoi sfuggirlo. Non ci mediti mai su. E allora ti viene voglia di vedere qualcuno, vai a una festa, in un locale; oppure accendi la televisione, la radio, o ti metti a leggere il giornale... Qualcosa che ti aiuti a dimenticare. 
Questo è l’atteggiamento errato che ti è stato inculcato: che c’è qualcosa di sbagliato nella tristezza. Non c’è nulla di male nella tristezza, è solo un’altra polarità della vita. 

La felicità è un polo, la tristezza è l’altro polo. La beatitudine è un polo, la sofferenza è l’altro polo. La vita è fatta di entrambi: una vita di sola beatitudine ha estensione, ma non ha profondità; una vita di sola tristezza ha profondità, ma nessuna estensione. Una vita fatta sia di tristezza che di beatitudine è multidimensionale: si dispiega contemporaneamente in tutte le dimensioni. 

Osserva la statua del Buddha, oppure, qualche volta, guarda nei miei occhi e troverai le due cose insieme: beatitudine, pace, ma anche tristezza. Troverai una beatitudine che contiene in sé anche la tristezza, perché quella tristezza dà profondità alla beatitudine. Osserva le statue del Buddha: è estatico, eppure triste. Per  te la parola “triste” ha una connotazione negativa: qualcosa non va. Questa è una tua interpretazione. 

Per me la vita è bella nella sua totalità. E quando comprendi l’esistenza nella sua totalità, riesci a celebrare, altrimenti non ce la fai.

Celebrazione significa che ciò che accade è irrilevante: io celebro. La celebrazione non dipende da determinate cose: “Celebro quando sono felice”, oppure: “Se sono triste, non celebro”. La celebrazione è incondizionata: io celebro la vita! Se porta infelicità, va benissimo: la celebro. Se porta felicità, va benissimo: celebro anche lei. La celebrazione è il mio atteggiamento, indipendentemente da ciò che la vita porta. 

Ma il problema si pone, perché quando uso le parole, nella tua mente hanno una certa connotazione. Quando dico: “Celebra” tu pensi che si debba essere felici. Come si può celebrare, quando si è tristi? Ma io non sto dicendo che si deve essere felici per celebrare: la celebrazione è gratitudine per tutto ciò che la vita ti offre. Qualsiasi cosa il divino ti offra, celebrazione è esserne grato. 

Questa storia l’ho già raccontata, ma ve la racconto di nuovo…
Un mistico Sufi molto povero, affamato e stanco del viaggio arrivò una sera in un villaggio e fu scacciato. Era un villaggio di musulmani ortodossi, persone molto difficili da convincere: non gli permisero di entrare in città. 

La notte era fredda, l’uomo aveva fame, era stanco, aveva abiti leggeri e tremava dal freddo. Si sedette sotto un albero, fuori dal paese. Si sedettero anche i suoi discepoli. Erano depressi, tristi e persino arrabbiati. 

Il mistico si mise a pregare e disse a dio: “Sei magnifico! Mi dai sempre ciò di cui ho bisogno!”. 
Questo era troppo! Un discepolo disse: “Aspetta un attimo, ora stai veramente esagerando! Queste parole sono false in una notte così: siamo affamati, stanchi, vestiti poco e la notte si fa sempre più fredda. Siamo circondati da animali selvatici, il villaggio ci ha buttato fuori e siamo senza un tetto. Per quale motivo ringrazi dio? Cosa intendi dire con quelle parole?”. 
Il mistico rispose: “È vero, lo ripeto: dio mi dà quello di cui ho bisogno. Questa notte ho bisogno di povertà, questa notte ho bisogno di essere scacciato, di avere fame, di essere in pericolo. Altrimenti, perché mi avrebbe dato tutto ciò? Dev’essere ciò di cui ho bisogno! È necessario e io devo esserne grato. Si prende cura dei miei bisogni in modo così bello: è veramente meraviglioso!”. 

Questo è un atteggiamento che non si preoccupa della situazione in sé: la situazione non è rilevante. 

Celebra, in qualsiasi caso. Se sei triste, celebra il fatto che sei triste. Prova! Se farai un tentativo rimarrai sorpreso, succede. Sei triste? Mettiti a ballare, perché la tristezza è così bella, è un silenzioso fiore dell’essere. Danza, gioisci e, all’improvviso, sentirai che la tristezza sta scomparendo, che si crea una distanza. Un po’ alla volta ti dimenticherai della tristezza e ti ritroverai a celebrare: hai trasformato l’energia. 

Questa è alchimia: trasformare il metallo comune in oro puro...
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Tratto da: Osho, Yoga: Potenza e libertà, Oscar Mondadori

Lo zen marziale di Tsuji Gettan, il samurai


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Chiunque  pratichi Arti Marziali deve essere consapevole che il combattimento rappresenta solo una parte di esse.  L’arte Marziale è un cammino che ci insegna e ci fa riflettere su discipline quali la filosofia, l’etica, la medicina e molto altro. Dopo questa breve introduzione è il momento di parlare di Tsuji Gettan, un leggendario praticante di Arti Marziali.

Tsuji Gettan fu un samurai che visse dal 1647 al 1726 nell’antico Giappone, esperto nell’arte della spada combinata alla filosofia Zen, era  stimato nel  paese anche per la sua saggezza. Egli viene ricordato non solo per la sua abilità nel combattere ma anche per i suoi scritti. era raro a quell’epoca che un samurai sapesse scrivere bene come gli accademici e le persone colte. Le opere di Gettan invece, erano considerate tra le migliori dell’impero. Per i contemporanei  di Gettan che cercavano fama e gloria fu  una fortuna che Gettan non interessasse essere il numero uno nel combattimento. Utilizzò la sua abilità per aiutare i bisognosi, cosa assai poco comune in quell’epoca.
In un’occasione, dopo una lunga meditazione tra le montagne, percorrendo la strada verso una città, venne a sapere che sette “ronin”  (samurai falliti, o samurai rimasti senza padrone per la sua morte o mancanza di fiducia) stavano spaventando la gente ed erano divenuti i padroni della strada. Quando si annoiavano minacciavano i poveretti che avevano la sfortuna di incrociarli. Per Gettan il comportamento di  quei ronin era chiaro. Volevano guadagnarsi il rispetto che loro stessi non erano capaci di offrire. Gettan andò a parlare con loro. Disse “non occupate tutta la strada. C’è molto posto. Anche gli altri vogliono usarla ed è un loro diritto.” i ronin erano sorpresi, ed intuirono che l’uomo venisse dalle montagne per gli abiti consunti e per il berretto. Uno di loro rispose. “Non osare parlarci col berretto in testa. Toglitelo affinché possiamo vedere il tuo viso, mostraci rispetto” gridò.

Gettan si tolse il berretto. i suoi capelli uscirono in tutte le direzioni e i suoi occhi guardarono i ronin.  Questi, vedendolo come fosse infuriato, scapparono via correndo.

Gettan disse allora “i persecutori sono persone spaventate che serbano in gran segreto la loro paura. Si muovono sempre in gruppo e dimostrano la loro forza. ma se infrangi quella crosta finiranno per piangere come bambini. E’ un peccato, perché non si rendono conto che la vita consiste nel dare e nel ricevere. E’ come essere circondati dagli specchi -quello che dai finisci per riceverlo-.

Raccontò  anche la storia della scimmia che vide un riflesso di se stessa nello specchio e che sorpresa per un immagine così orribile, dipinse lo specchio con del rossetto per rendere l’immagine più bella. Ma dato che l’immagine continuava a essere la stessa, la scimmia finì per diventare pazza e,  più pazza era,  più brutta diventava l’immagine. Si mise a correre attorno allo specchio e alla fine si accorse che quello che stava vedendo era un riflesso, un’illusione, ed allora si mise a ridere. Guardò lo specchio e più rideva più diventava bella l’immagine.
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(Fonte: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2009/10/01/le-arti-marziali-come-esercizio-filosofico%E2%80%A6-l%E2%80%99avventura-spirituale-e-guerriera-del-samurai-tsuji-gettan/)