Un colpo di vento mi porta ai 5337 Km. percorsi attraverso la penisola balcanica, come un filo elettrico, attraverso un luminoso caleidoscopio di paesaggi, tradizioni e contraddizioni senza fine… l’estate scorsa, al puntuale presentarsi del periodo delle ferie. Una risalita, a partire da quei lidi della Grecia, attraversati dalle sorgenti dell’Acheronte e da quell’isola infilata in un oceano di perlacea bellezza, dedicata alla ninfa Leucade, che è via via andata arricchendosi di colori, sensazioni e sorprese inaspettate, a partire dalla costa epirotica di quella terra d’Albania che, accanto all’ipertrofica confusione di uno sviluppo urbano spesso incontrollato, spesso nasconde squarci di inaudita bellezza. Coste contornate da mari perlacei ed improvvise risalite su passi di montagna ad altitudini alpine, da cui ammirare un panorama mozzafiato di isole e costiere. Città turche, come Berat, adagiate sui costoni di due montagne, da cui partire per visitare la versione illirica del monte Olimpo, attraverso un panorama riarso dal sole, sino a giungere alla fine della strada, alla presenza dell’immensità di un canyon, di una fenditura della crosta terrestre, probabilmente seconda solo a quella strapubblicizzata in Colorado, Usa.
Oppure dopo una sfibrante gita da Saranda sulla costa meridionale, alla città storica di Argirocastro/Gjrokaster, tra monti impervi, solcati da stradacce e tornanti senza fine, fermarsi nella fresca radura delle sorgenti dell’Occhio Blu, infilate nel cuore delle montagne di un parco nazionale, e gettarsi tra i dieci gradi di gelide acque sorgive, quasi a voler rinnovare istintivamente il rito senza tempo di una “lustratio” a cui tutti i pellegrini ed i viaggiatori dovrebbero sottoporsi al termine di un percorso che non solo fisico è, ma anche, e specialmente ideale, connettendo l’anima a quell’ “idèin/vedere” che, di essa è il momento principiale…oppure dopo aver visitato i resti della ellenistica Butrint/Butrothos, andarsi a gettare nelle acque di una qualsivoglia assolata e semideserta spiaggia ionia. O visitare la greco-romana Apollonia e recarsi alla scoperta dei semideserti litorali a nord della confusionaria Valona. Parlare con la direttrice del rinnovato museo archeologico di Durres per poi scoprire che, la costa epirotica tutta, fu colonizzata da greci provenienti da Kerkyra/Corfù, isola cara agli Dei e, pertanto, tutta fu dedicata a Diana/Artemide, Dea della caccia e della natura ferina, lì a testimoniare che, a dispetto del brullo aspetto odierno, una volta le terre d’Albania erano ricoperte tutte da verdi foreste di querce, cipressi, faggi e pini, rifugio di fiere ma anche di ninfe e driadi…
Percorrere impossibili strade deserte attorno a laghi di montagna, lontani da tutto, eppure a due passi da città confuse come Scutari, le cui vestigia venete fanno bella mostra di sé nel centro città, accanto a moschee ed edifici cadenti. Scoprire la presenza veneta nelle città montenegrine di Cotor/Cattaro ed Herceg Novi, magari incastonata tra moschee e bastioni, come in Bar.
Percorrere laghi oceanici, come quello di Scutari, aridi ed immoti, immersi in foschie senza tempo e d’improvviso ritrovarsi davanti agli occhi scorci di paludi e foreste senza fine…Allontanarsi dalla confusione delle città costiere, per respirare la quiete mistica in monasteri come quello di Ostrog, incastonato tra le rocce, a precipizio di una ripida montagna… E poi tuffarsi nel verde della costiera dalmata, tra penisole ricoperte di pini e cipressi, contornate da isole senza fine, qua e là puntellate di chiesette e minuscoli borghi dalla caratteristica matrice architettonica veneta e da cui, ogni tanto, sbucano resti e vestigia romane. E poi quella disarmante gentilezza, quel senso dell’ospitalità, tutte balcaniche che, in Albania, proprio non ti saresti aspettato, ma che, senza eccezioni, accomunano tutte le lande da me percorse, Grecia, Albania, Montenegro e la Croazia stessa…
Ospitalità, cortesia, sorrisi, ma tante, troppe, significative contraddizioni che stonano significativamente. Arrivi nella povera Albania, tra strade scassate o altre in costruzione, edifici fatiscenti, redditi minimi da 250 euro al mese in su…ma un parco macchine da far paura anche ai nostrani italioti, tanto amanti delle quattro ruote. Miseria e povertà a profusione, ma tanti abiti firmati, griffe e tanti bei cellulari di ultima generazione….discoteche sul mare, con la musica sparata a tutta birra, neanche fossimo a Ibiza. Tra una tappa e l’altra, qualcuno sommessamente mi racconta di strutture sanitarie assolutamente insufficienti e mal funzionanti e di una endemica corruzione che, pare, stia rallentando la costruzione di strade e compagnia bella…
Stessa solfa in Montenegro: anche se, rispetto all’Albania, ti sembra di stare in Svizzera, quanto a servizi, qualità dei cibi nei supermercati, etc., di strade kaputt e storie del genere se ne sentono a bizzeffe. Concludo il mio percorso in Croazia, prima a Ragusa/Dubrovnik e poi, infine, a Spalato, gironzolando per il Palazzo di Diocleziano. Mi ero precedentemente recato, alcuni anni fa, in queste città, e ben ricordavo le folle di turisti, ma quanto ho adesso veduto, ha stavolta superato ogni limite. Orde di giovinastri yankee vocianti e cafoni, hanno invaso la bella città; uno stuolo di ciccione sguaiate ed ubriache, coppiette di maschietti barbuti mano nella mano…arroganza, invadenza, totale mancanza di rispetto per la meravigliosa storia di Spalato. Il tutto con il condimento finale della squallida esibizione musicale di un guitto che, nello spiazzale antistante al Tempio di Giove ed alla Ecclesia Maior (edificata su un altro tempio pagano, sic!), con tanto di chitarra elettrica, intona un nauseabondo “Hey Jew” , ad memoriam dei Beatles, che li’, in quel contesto, proprio non “c’azzecca” nulla. La melodia (si fa per dire) del guitto è accompagnata da uno sguaiato coretto di turisti e turiste yankee, sbragati alla ben’e meglio tra le vetuste rovine di Spalato.
Disgustato da quello spettacolo, mi allontano tra i vicoli della città, in cerca di un po’ di silenzio e nel mentre vengo colto da una visione che, di quell’intero scenario, rappresenta la classica ciliegia sulla torta. Mentre cammino assorto nei miei pensieri tra quegli stretti vicoli, il mio occhio cade in un negozio di non so cosa; spalle al muro, assise allo stesso tavolo, due splendidi esemplari di giovani femmine croate. L’etera bellezza di volti freschi dalla pelle tirata, condita da un’espressione immota, catatonica, rivolta verso il nulla…quel nulla che oggi si chiama cellulare, smartphone…Come per un perverso sortilegio le due giovanette stanno lì a contemplare il nulla in tutta la sua magnitudo… per loro il mondo, la gente, in ragazzi, i sorrisi, gli ammiccamenti, la voglia di uscire, conoscere, curiosare, amare, il mondo, non esistono più…per loro è tutto un “emoticon”, dietro a cui sta solo un arido ed inanimato groviglio di fili e relais.
Improvvisamente colto da un senso di fastidio e rabbia, torno a ripercorrere con la memoria, alcuni momenti della mia vita.
Come per incanto, mi ritrovo proiettato in una via di Roma negli anni ’70, tra l’aspro fumo dei lacrimogeni e la voce roca a forza di urlare slogan, ma felice ed esaltato dagli scontri e dai cazzotti dati e presi con i compagni…mi ritrovo ancora una volta, zaino in spalla a viaggiare giovane ventenne con il treno attraverso quell’Europa, piena di splendide e sorridenti fanciulle straniere desiderose di fare quattro chiacchiere con un giovane di altre contrade…o a conversare tra sacchi di sabbia e strade deserte, al suono di colpi di cannone, con i giovani croati della “Garda” e della “Hos”, durante la terribile guerra balcanica dei primi anni ’90. Tutto crudamente e magnificamente vero, reale, animato dalla voglia di vivere, amare, morire che tutti quegli anni mi hanno sbattuto dinnanzi agli occhi, come in un film vissuto in prima persona. Mi risveglio, giro i tacchi e, mentre lascio le mie catatoniche marionette a svuotarsi le sinapsi in aridi giochi virtuali, mi dirigo verso il Tempio di Giove, di cui, sino a quel momento non ero riuscito a ritrovare, dopo anni, l’ubicazione. Il Tempio è piccolo e ben curato; a guardia del suo ingresso un omino a chiedere un balzello d’ingresso. Quale giornalista potrei entrar gratis ma, preferisco versare volontariamente quel “piaculum” quale dedica a Jupiter/Giove/Zeus/Nous, una volta Mente di quel Tutto, ora svuotato di qualsiasi contenuto, che non siano boutiques e cellulari…l’ambiente piccolo, sormontato da una statua assolutamente non pertinente e, addirittura, riempito di blocchi di muro pieni di glifi di età medioevale cristiana… mi allontano silenziosamente passando come un fantasma , indifferente a quel “bailamme” con il quale, mi rendo conto, sento di non aver nulla a che spartire.
Ma non è solamente in Croazia, nella splendida Spalato, che ho avvertito questa sensazione. Dovunque io mi sia, in questi ultimi anni, recato, sia in moto che in aereo, sia in Europa che fuori di essa, via via in me è andata rafforzandosi la percezione di una barriera di incomunicabilità con il mondo esterno…oggidì rappresentato da quel mondo occidentale che, gettatosi anima e corpo tra le braccia di un alienante modello Tecno Economico, ha invece causato la propria desertificazione spirituale, avendo scelto di far gestire a quest’ultimo le proprie spinte vitali, sino ad arrivare al capolinea di un’assurda auto castrazione. E così il mio peregrinare attraverso terre e continenti, si fa metafora di un percorso attraverso tutti i fallimenti d’Occidente. Dalla ingloriosa fine delle dittature pauperiste che, in barba a tutti i bei propositi, hanno spalancato la strada a famelici e smodati modelli liberisti, anch’essi alienanti e fallimentari quanto queste prime, sino ad arrivare al cuore di un modello di sviluppo che, grazie al suo totale asservimento alla Tecno Economia, ha fatto dell’incomunicabilità tra gli individui, il proprio vessillo. E così mi rendo conto che i miei sono stati pellegrinaggi effettuati nel caos silente di un mondo che, sempre più, vive di apparenza e di poca, o nulla, sostanza.
Ed è allora che, come in preda ad un repentino “satori”, sale nell’animo mio di giramondo la necessità di trovare delle risposte che sappiano essere oltre e dentro la stessa sostanza delle cose che ho davanti agli occhi. Il mondo mi si presenta allora innanzi, come un gigantesco caleidoscopio, una molteplicità di forme che fanno capo ad un’unica misteriosa realtà. Ed allora, oltre alla condizione della contemporanea, umana alienazione, mi ritrovo davanti agli occhi, in tutto il loro splendore, quei mari, quelle montagne, quelle foreste, quei deserti, ma anche quei magici “rassemblements” architettonici, che ho percorso in sacra solitudine. E capisco come le antiche semplificazioni, tutti quei modelli di intransigente monoteismo mentale, non siano più sufficienti a dare una spiegazione ed un senso alle cose. E sempre più avverto la presenza di una percezione “altra” da quella solita che, da sempre, costituisce sfida e tentazione per le menti che ne sappiano cogliere le suggestioni. Essa è fatta di simboli e simulacri oggi, all’apparenza, polverosi ma che, a guardar meglio, risvegliano in noi antiche e mai sopite suggestioni.
Ci parlano di Astri, di insensate forme e simboli geometrici, ci riportano a Dei e Dee, ma anche alla possibilità attraverso essi, di penetrare l’anima, seppur senza estraniarsene, di quel mondo, di quella caotica e multicolore confusione, di cui costituiscono il senso ultimo. Meditando, appuntando le proprie energie mentali sopra uno di essi, scopri che possono essere il varco verso il controllo di uno o più aspetti di quella realtà che ci avviluppa come un misterioso Velo di Maya, ma che, d’improvviso sembra volerci disvelare e suggerire una soluzione all’apparenza semplice ma, per noi mortali, sempre sfuggente: quella del giuoco d’ombre dell’immanenza della trascendenza e della trascendenza dell’immanenza.
E questa realtà finisce con il riportarmi a quel mondo che, con i suoi infiniti aspetti ne è la principale espressione. Il viaggio finisce così, con il farsi forma di autoiniziazione, di lucida apertura verso quella duplice dimensione della realtà, verso la quale, ogni qualvolta ne veniamo a contatto, non possiamo non provare “thàuma”/sbigottimento.
Un’improvvisa folata di vento mi risveglia dai miei pensieri e mi riporta, a cavalcioni della mia moto, in un rigido pomeriggio d’autunno tra i monti dell’alto Lazio, tra foreste il cui rosso fogliame, mi fa venire alla mente l’arzigogolato manto di Diana, Dea delle foreste… proseguo lungo la strada del ritorno, mentre il carro solare di Helios va a tuffarsi per il tramonto in un mare di nubi, creando uno splendido effetto scenico multicolore. E’ l’ultimo saluto di quegli Dei che, oggidì, solo attraverso l’immersione nella “natura naturans”, si possono ancora incontrare….
Umberto Bianchi
Fonte: http://www.ereticamente.net/2017/12/il-viaggio-esoterico-corsa-attraverso-il-silenzio-umberto-bianchi.html