"Il
ragioniere ha una sola ontologia: ordinare, classificare, misurare.
Non gli è concesso sentire che ogni catalogazione scambiata per
realtà genera mondi artificiosi o superstizioni." (L.M.)
Precisazione
Il
dogma del ragioniere,
non toglie, né vuole, né potrebbe togliere nulla al valore del
razionalismo. La prospettiva razionalista non è demoniaca di per sé.
È piuttosto semplicemente
da impiegare come strumento relativo, non più assoluto, affinché
cessi di incarnare
il monopolio
dell’intelligenza. Da limitare a circostanze amministrative. Se
necessario da sottomettere ad altre dimensioni umane, come quella
affettiva, empatica, compassionevole, contemplativa, euristica,
serendipidica. Tutte utili per liberare l’uomo dalle gabbie in cui
si è rinchiuso attraverso reti di suggestioni intellettuali, che
tendono a mantenerlo incompiuto nelle sue potenzialità, a privarlo
del conoscere attraverso il sentire.
Il
limite in due punti
Uno
riguarda l’aspetto statistico.
Ogni
nostra previsione, per quanto scientifica,
è solo una delle molteplici possibilità. Essa appoggia, spesso
inconsapevolmente, la propria dignità entro un ambito definito, i
cui profili sono fortificati: non corruttibile da idee e forze
estranee a quelle considerate per formulare la previsione stessa.
Consideriamo solo la previsione/possibilità tratta dagli elementi
considerati. Quelli che ci appaiono di più e che sono biologicamente
e metafisicamente compatibili con il nostro bisogno e la nostra
identità. Quelli che non la mettono a repentaglio. Diversamente
sarebbe suicidio fisico, dialettico, emotivo. Questo avviene quando
l’attenzione alle esigenze altrui diviene prevaricante.
Il
secondo limite è relativo alla creatività ed è implicito nel
precedente.
Questa
sussiste ma limitata a quanto crediamo sia razionale. Ogni nostro
motto considerato irrazionale è valutato negativamente in quanto non
soddisfa i criteri logici dominanti. È perciò autocastrato, indotto
all’aborto spontaneo.
Così, una sensazione fuggevole, resta inosservata, nonostante
l’informazione che conteneva, magari che stavamo lasciando un luogo
dimenticando là qualcosa di nostro. È in quel prurito, malattia,
visione, sogno che siamo il senso profondo delle cose, che siamo
collegati all’infinito e all’eternità, che siamo dio.
Nei
momenti di non accettazione di tutte le informazioni che il sentire
permanentemente diffonde a noi, ci autolobotomizziamo di una
dimensione umana della quale – ci hanno insegnato – è opportuno
farne a meno. Ma è a noi stessi, alla nostra natura e missione che
stiamo abdicando.
Totalitarismo
eletto
Bastano
poche considerazioni su due aspetti relativi al tema del razionalismo
– inteso come campo aureo della vita, delle scelte, delle relazioni
– che già si avverte quanto quella predilezione limiti il campo
dell’umano. Costringa l’immensa potenzialità di ognuno entro i
violenti – ma silenti – canoni meccanicistici. Una sorta di
mortificazione della nostra infinita profonda natura da parte
dell’assassino seriale che ha un nome e un cognome: Norma
Consuetudine.
https://www.youtube.com/watch?v=01i_yDpe7WU
Eleggendo
(consapevolmente) o subendo (inconsapevolmente) il razionalismo a
Santo
Graal della
verità definitiva, ci poniamo sul naso delle lenti specifiche che
implicano un giudizio sul mondo, sulla realtà e sugli uomini. Per
porre rimedio, non si tratta di muoversi astenendosi dal giudicare –
impresa antistorica e anch’essa prossima al disumano –, piuttosto
di prendere coscienza dell’identificazione tra noi e quel giudizio
stesso. Comunione che necessariamente si compie se presupponiamo
l’esistenza di una realtà oggettiva, con caratteristiche proprie.
Ovvero se non ci avvediamo che quelle peculiarità che riteniamo sue,
corrispondono invece a nostre proiezioni. Se non ci avvediamo che
queste ultime sono emanazioni della nostra cultura, ambiente,
educazione, sentimento, emozione. Come se ci sentissimo esistere
soltanto entro piramidi gerarchiche, soltanto operando per
riconoscerle nel caos disordinato che ci impegna a classificarlo.
Averci
pensato prima
Ridurre
l’universo a ciò che possiamo e sappiamo classificare, nominare,
misurare ha un che di mostruoso, non servono grandi argomenti per
sostenerlo. L’origine di
tanta aberrazione e la sua perpetuazione restano tuttavia
comprensibili. Ha legittime ragioni storiche.
Se
è vero che la storia procede a balzi rivoluzionari, tutti
caratterizzati da un nuovo che si fa spazio nel vecchio, si può
condividere che l’epoca dei lumi affermava modalità di conoscenza
e interpretazione della realtà appunto nuove rispetto all’epoca
precedente. La nuova nomenclatura dello scibile, tanto fisico che
metafisico, ha soddisfatto in lungo e in largo gli spiriti del tempo.
La nuova moda, come il fuoco nella sterpaglia, si è estesa ovunque e
velocemente. Ha preso tutti gli ambiti dello scibile. Ha ghettizzato
e ridicolizzato le dimensioni più umane, quelle dove era ed è
impotente. È riuscita a divenire cultura egemone e
contemporaneamente a lasciare sul piatto del vero e del giusto, solo
le parti che ritiene di essere riuscita a comprimere entro le sue
artificiose, autoreferenziali categorie. Ha prodotto gli specialisti
e ci ha indotto a credere in loro. Ora la loro parola conta più del
nostro sentire. Forse qualcosa non va.
Pensiamo
sia giusto così
Il
motivo della perpetuazione di tanto deragliamento da se stessi è a
suo modo colluso con il mud del razionalismo, con la sua mente. È il
nostro liquido placentare, la nostra madre, la nostra cultura, il
nostro modo di interpretare la realtà. Esiste insieme a noi e senza
certe consapevolezze non possiamo scoprire che è solo una nostra
creatura, che non è la verità.
Perpetuiamo
ciò che rientra nel nostro campo visivo. Entro quel campo ci poniamo
domande e solo in quel campo cerchiamo le risposte. Ognuno ha da
mantenere la propria identità. Cercare, accettare ciò che il canone
maggiore considera inopportuno la può incrinare. Si va giù perciò
secondo corrente, lasciando ad altri il compito di questuare,
credendo che criticare l’universalità della cosiddetta
scientificità della ragione sia semplicemente stupido, perché
sbagliato!
Il
lato che ci nascondiamo
Certe
modalità di tagliare fuori dalla realtà la parte che non vediamo,
o quelle considerate pragmaticamente e positivisticamente vuote,
possono andare bene in contesto amministrativo. Ma se le estendiamo a
quello globale, vitale – tanto più se inconsapevolmente – i
buoni principi rimangono teorici, la realtà quadra sempre meno, i
problemi e i conflitti crescono, e così la necessità di impiegare
la gerarchia per dirimersi, per trovare una rotta. Salvo nel caso in
cui, la polizia segreta del razionalismo, non faccia sparire dal
nostro cuore le tracce d’esistenza di altre modalità di
conoscenza, affettive, olistiche, misteriche, energetiche. In quel
caso, ci si avvia ad uno stato di polizia dove, per ragion di stato
appunto, non c’è difficoltà, né senso di colpa, ad impiegare la
forza del buon senso naturalmente, per condannare, espropriare,
eliminare. E per mantenere alta la bandiera della vera
verità.
Anime
morte.1
Con
l’idea razionalista in testa, Architetti,
Urbanisti e
Politici hanno
creato palazzi e quartieri non solo popolari. Per ogni appartamento,
hanno previsto e realizzato tutto quello che serviva; così in ogni
quartiere. Ma hanno dimenticato del tutto che non basta avere il
bagno e la cucina se l’accesso è una gimcana tra battenti; hanno
tralasciato la dimensione umana per realizzare urbanistiche prive di
rispetto, di vitalità, di crocicchi e centri. Hanno creduto che
razionalità fosse tutto, che funzionalità ne fosse inclusa; che
curvare una via come un serpente potesse bastare a sollevare
dall’alienazione chi avrebbe dovuto percorrerla e abitarla. Della
dimensione energetica non se ne sono curati, e di conseguenza per la
sua dimensione estetica. Sdraiati sulla loro lounge
chair Eames con
un drink a lato e un libro in mano, sotto la calda luce di una
lampada Arco
Castiglioni,
nel sottofondo della filodiffusione da una Cubo
Brionvega
l’hanno creduta superflua. Togliendo così, senza patema alcuno -
in quanto privi di opportuna consapevolezza - dignità, rispetto,
onorabilità alle persone là destinate. Persone evidentemente
diverse da loro.
I
loro non
luoghi adatti
al solo transito anonimo, lo dimostrano. E se di energia ne avessero
sentito parlare, se ne avessero sentito la presenza o avvertito
l’assenza, avrebbero probabilmente cacciato via quella stupida
idea,
come è giusto che sia con un nemico dell’Intelligenza.
Anime
morte.2
Prendiamo
la Giustizia,
amministrativa appunto, quella espressa dalle leggi, tra cui ad
personam.
Chi
ha detto che altre modalità che hanno attraversato la storia non
corrispondano di più alla giustizia di quanto non possa un giudice
rosso o nero, un avvocato acuto o scarso? La tradizione
giudaico-islamica prevedeva la vendetta; quella cristiano-orientale
l’accettazione e il perdono. Entrambe si appoggiavano all’etica
non agli interessi. Entrambe sono in grado di connotare, di volta in
volta, quanto avvenuto, non potrebbero mai pensare che la giustizia è
uguale per tutti, semmai l’opposto. Ma non lo è neppure nei nostri
tribunali laici, neppure per chi ritiene di attenersi ai fatti e alla
legge. La stessa giurisprudenza ne è contraddizione e così i gradi
di giudizio. Sugli scranni dei giudici è scritta una pretesa
disumana, alla quale tutti noi vogliamo credere, secondo il dogma
della ratione.
Anime
morte.3
Così
la Scuola,
fucina di esperti e specialisti. Destinati a mantenere
l’establishment così com’è. Territorio dove filtrare l’idoneità
all’irreggimentazione secondo canoni valutativi pedestri e
aberranti. Reti inidonee, quelle sì, a trattenere e a filtrare lo
spirito delle persone, le doti uniche che ognuno porta in sé. Ma
assolutamente performanti per selezione, per creare scemi e
intelligenti, adatti e disadattati, meritevoli e inutili.
E
la Salute
poi, ridotta ad essere sintomo, la sola cosa che la farmacia e la
medicina siano in grado di vedere e in complicità di produrre. Delle
vere cause delle patologie non ne hanno idea.
Processi
di presunto sviluppo che non hanno nulla a che fare con l’uomo.
Salvo che nel suo momento intellettuale o sintomatico, ovvero le
dimensioni più superficiali, quelle meno idonee a cogliere le
profondità dell’oceano che siamo.
Anime
morte.4
Ma
è così ovunque si guardi, a qualunque livello si voglia portare
l’attenzione. Prendiamo il
fatto.
Il
fatto al quale attenersi,
affinché giornalisti e razionalisti siano felici di esistere, non
esiste senza di noi e da noi dipende. Noi conteniamo e creiamo il
fatto e il fatto ci contiene. Il fatto è nella relazione, da solo
non è autosufficiente, neppure con la terapia intensiva, con la
quale ogni soccorritore razionalista vorrebbe tenerlo in vita.
Il
fatto è con noi un’unità indivisibile. Scomporla – grande,
celebrato processo analitico, dal quale, con i nostri mezzi
tecnico-scientifici, con il nostro razionalismo, crediamo di poterci
astrarre – non porta che all’illusione di essere giusti e
benevoli dei con il potere di amministrarlo, distribuirlo, farlo
proprio o attribuirlo. Il fatto, non contiene, né esprime alcuna
oggettività, non supera alcuna interpretazione. È lui stesso
un’interpretazione. L’uomo ha dato un nome alle cose per farle
esistere, uccidendo così i miti dei quali quelle stesse cose erano
espressione.
In
un incidente, a parte l’aspetto formale di due auto che si toccano,
entrambi potranno dire che qualcuno è andato loro contro.
Quell’unico fatto accaduto non è per niente uno, sono due, uno per
narrazione.
Delirio
di onnipotenza
Con
la dialettica razionalista, si costruiscono poteri e domini; si
delegittima; si creano i diritti lasciando che i doveri e l’etica,
vadano alla deriva come un inutile relitto, si da e toglie dignità
alla bisogna. Quale altro fondamento si può trovare sotto le
poltrone di chi serenamente afferma che business
is business? E
come non vedere contemporaneamente che da quel punto si allungano
prospettive di guerra in forma varia?
Soprattutto
si imbavaglia l’universo creativo nascosto dentro gli uomini. La
cui emersione non richiede studio e competenza ma libertà
dal conosciuto.
In quale altro modo si potrebbe tenere a bada interi popoli, fargli
credere che produrre di più è importante, convincerli che se
seguiranno la sola via, allora si meriteranno ferie e pensione?
Flusso
congelato
La
cultura razionalista domina. L’egemonia è assoluta. Essa limita
così, entro le proprie categorie, l’universo, la verità, gli
uomini. Costringe la libertà a muoversi nel suo campo. Tutte le
scelte, le valutazioni sono sua diretta discendenza.
Ma
non si tratta di pensare di eliminare ciò che la storia ha prodotto.
Le ragioni sufficienti c’erano e delegittimarle non fa che
deragliare il discorso. La modalità razionalista semmai è da
circoscrivere, ovvero da impiegare opportunamente, non assolutamente.
Un processo di aggiornamento che avverrà con l’estendersi della
consapevolezza dei limiti razionalistici. Se il razionalismo fosse su
un banco da lavoro dell’umanità, dovrebbe essere un attrezzo tra
molti, non l’unico. Come ogni altro, quando è necessario diviene
indispensabile. Infatti, solo lui fornisce il miglior servizio in
contesto amministrativo, cioè nella concezione bidimensionale
della realtà,
quella inetta a cogliere il flusso o il respiro dal quale emergono i
mondi; quella idonea a misurare e valutare la modalità statica di
essi.
In
contesto volumetrico,
ovvero quell’ambito dove cogliamo che gli elementi che esprimono la
loro azione sono innumerevoli e impediscono una conta e una logica
piana, l’applicazione dello strumento razionalistico non ha potere
di studio, penetrazione, predizione. Ne ha di più l’empatia, la
compassione, l’ascolto, il sentire, la visione, la contemplazione,
la meditazione. Strumenti di non misurazione ma di accettazione,
olistici e globali, sferici. La cui forma se la vediamo corrisponde
alla nostra. Ma in quel caso significa che siamo tornati
all’amministrazione, che ancora pensiamo ci sia una verità
raggiungibile, che abbiamo nuovamente ridotto alla bidimensione il
volume multidimensionale della vita.
Anche
per accedere alle consapevolezze, per cogliere la concezione
volumetrica non è necessario un corso d’apprendimento. Quel
modo lo sappiamo già, sebbene arrugginito e sotto strati di disuso,
esso emerge con certezza in modo direttamente proporzionale alla
nostra serenità, apertura, equilibrio, forza, capacità di essere
amore.
Per
questo le oscillazioni azionarie della borsa o l’azione d’attacco
di una squadra e ogni evento umano e biologico, per quanto le si
voglia avvicinare sul vetrino del microscopio razionalista, non
saremo in grado di prevederne gli esiti. È per questo che la madre,
ma non il giudice, perdona il figlio, del quale già sapeva cosa
avrebbe commesso.
Progresso
über
alles
Quando
le comunità erano minute e ognuno sapeva tutto, non era necessaria
l’insegna del fabbro e del sentiero per la sorgente. Ora, senza
indicazione non sappiamo dove andare, senza scuola non sappiamo
imparare, senza indicazione non sappiamo dove guardare. Forse è
maturo il momento per recuperare l’umano che abbiamo gettato via
con ciò che abbiamo creduto fosse solo acqua sporca. Di tutte le
nostre magiche potenzialità utilizziamo quelle dell’uomo timorato
dalla norma. Lì trova il suo terreno d’azione, lì si sente forte
fino a sottomettere chi in quel modesto campo energetico neppure ci
vorrebbe giocare. L’uomo timorato è facilmente organizzato e in
costante assetto per pianificare e anticipare la vita. La sua
autostima non risiede in lui ma nel successo delle sue azioni,
nell’affermazione della sua figura.
Genealogia
del crollo
Con
l’egemonia del razionalismo abbiamo dato agio al capitalismo di
estendersi come un unguento necessario ai dolori dell’umanità. Ora
siamo al liberismo che gli ha messo il turbo. Passaggi che si
spiegano attraverso la consapevolezza che le ragioni di capitalismo e
liberismo – come altre infrastrutture sociali, politiche,
economiche, istituzionali – hanno evoluto se stesse appoggiandosi
su leve di tipo narcisistico-cognitivo-analitico. Architetture
razional-speculative, totalmente intellettualistiche che hanno eletto
il simbolico in sostituzione della natura, dell’uomo. Che hanno
fatto dimenticare il sacro sostituendolo con succedanei sempre più
mercificati e sempre più effimeri. Alla stregua di bolle finanziarie
che esistono indipendenti dal denaro che le ha originate.
Una
dimensione nella quale non v’è più traccia dello spirito della
natura globalmente inteso. Artificio dopo artificio ci si è
dimenticati della dimensione olistica dalla quale proveniamo. Ora
pensiamo che la realtà che constatiamo, sia la sola possibile e
quella alla quale attenersi. Ora non vediamo la biografia, le scelte
che ne sono state ad arbitrario supporto, né immaginiamo che altre
decisioni possano favorire altra cultura e valori rispetto a quelli
oggi disponibili.
Modalità
del giudicare
Vanno
ricordati alcuni momenti nodali affinché la critica al razionalismo
si impregni di propositività.
Dicevamo
inizialmente che «...
non si tratta di muoversi astenendosi dal giudicare – impresa
anch’essa prossima al disumano –, piuttosto di prendere coscienza
dell’identificazione tra noi e il giudizio stesso».
È
qui il momento dirimente: prendere coscienza della nostra
consuetudine di giudicare il mondo e la contemporanea credenza che
quel giudizio lo rappresenti veramente, per quello che è.
È
il primo passo che predispone al secondo: è la fede in ciò che
esprimiamo che comporta un’identificazione con il giudizio che
diamo o che ci viene dato. Accondiscendendo all’identificazione con
il giudizio sulla realtà, abdichiamo a noi stessi. Ovvero, ci
conformiamo, ci limitiamo in forme e dimensioni limitanti.
Il
terzo è che ciò agevola lo scontro come modalità ordinaria delle
relazioni in quanto siamo necessariamente obbligati a difendere la
nostra posizione, la nostra affermazione, la nostra realtà.
Il
quarto riguarda l’eureka sulla presa di coscienza dei primi tre: Ma
se le cose stanno così, dov’è l’alternativa? In cosa consiste?
Come detto
l’alternativa non dirige in una impossibile, disumana, ricerca di
non giudicare. Semmai, appunto in quella di non separazione dal
giudizio, di presa di distanza. E ciò, nonostante gli argomenti
razionalistici che possiamo addurre per non farlo.
Compiuta
la presa di coscienza della nostra proiezione sulla realtà di
caratteristiche che non ha, credendo poi le siano proprie, abbiamo a
disposizione la soluzione.
Quinto:
in una parola, accettazione. Giudicare secondo l’abitudine che
abbiamo descritto, tende a separare. Liberarsi da quella dinamica
psico-razionalista, che offre all’io tutto ciò di cui necessita
per la propria autostima, ci permette di entrare nel campo
dell’accettazione. Un dominio dove continueremo ad avere ed
esprimere la nostra opinione ma in modo via via più distaccato. Dove
saremo perciò in grado di accettare e mantenere la dignità d’essere
di ciò che non è a nostra misura e convenienza; dove potremo
scoprire quanto malessere generava la vecchia modalità e quanto
benessere ci porta la nuova. Quanto una tenda a separare e l’altra
a unire.
Domina
tutto il percorso evolutivo, un sesto punto. Riguarda l’assunzione
di responsabilità. Siamo totalmente, individualmente i responsabili
della realtà con la quale abbiamo a che fare. Siamo noi ad avere
eletto quella razionalistica, solo noi possiamo detronizzarla. Il
nostro benessere, quello che sentiamo non potrà mai essere
sostituito da alcun argomento razionalistico, neanche pronunciato da
uno specialista luminare.
Due
precisazioni
Qualcuno
potrà pensare che accettare è un morire, che è una mortificazione
della passione. È vero, ma solo se razionalisticamente inteso. È
invece il contrario se riconosciuto nella sua potenza di benessere. È
metterci tutto, senza la dispersione energetica e tossica dello
stress e della paura, sapendo che se andrà diversamente dallo
sperato, non saremo afflitti dalla delusione e manterremo intatte le
nostre doti creative, per ripartire. Sapendo che quel fallimento è
una fortuna, perché è lì che troveremo un sacco da imparare.
Sapendo che se così non facessimo, manterremmo le medesime
predisposizioni a commettere il medesimo errore.
«...
l’ordine che voi vedete nella creazione è quello che ci avete
messo voi, come un filo in un labirinto, per non smarrirvi. Infatti
l’esistenza ha il suo proprio ordine, tale che nessuna mente umana
possa abbracciarlo, poiché la mente stessa non è che un fatto in
mezzo agli altri.
[...]
L’arco
dei corpi orbitanti è determinato dalla lunghezza della loro
pastoia, disse [...]. Lune, monete, uomini.»
Cormac
McCarthy, Meridiano
di sangue, Einaudi
Il
ragioniere
Il
ragioniere si rende impossibile vivere il qui
ed ora, la
migliore condizione per gestire le situazioni della vita, imprevisti
inclusi, con la migliore disponibilità creativa a risolverli e o
gestirli, con la migliore attitudine a superare le difficoltà. La
sua condizione ordinaria è entro ciò che lui chiama passato e
futuro. Vive pensando a ciò che è stato e a ciò che dovrà essere.
Tempi che sono territori virtuali nei quali non c’è serenità:
l’identificazione con rimpianti e aspirazioni la impedisce. Nei
quali non ha mai a che fare con la vera natura di se stesso – che
spesso neppure ha mai conosciuto – ma solo con l’idea di se
stesso, facilmente farcita di modelli per lui ideali, che può
arrivare a venerare o a uccidere. Egli è permanentemente rinchiuso
nelle sue idee che crede di evincere dal mondo. Non vede che con
quelle stesse idee lo esaurisce il mondo. Non si avvede del filtro
che adotta per sceglierle o crearle. Non riconosce neppure che con
quelle stesse ha generato il suo stesso io. Non sospetta ci siano
altre realtà presenti in quello che osserva. Nelle quali smetterebbe
di perseverare nel suo spiegare e spiegarsi il mondo. Nelle quali non
potrebbe che tacere contemplando le dinamiche energetice che prima
gli erano occulte.
Il
ragioniere è infatti nella verità, o alla sua ricerca. Un progetto
prioritario, indispensabile per gestire la vita. Sembra un ottima
cosa, tuttavia così facendo decapita e uccide se stesso secondo i
dogmi che più l’hanno affascinato. Con la verità dalla sua,
prevede come deve e non deve essere la vita. Impugna una specie di
timone per dirigere le relazioni. Se si innamora può per esempio
rinunciare a esprimere il proprio sentimento sotto il maglio di
qualche timidezza dietro la quale ancora si trovano sue convincenti
idee ad impedirglielo. E se lo esprime non si lancia a rivedere il
proprio sistema di convinzioni razionalistiche, visto che
l’innamoramento come tutta la natura non è comprimibile né
trasmissibile, neppure quando qualcuno sostiene di poterlo ridurre a
molecole sgusciate da qualche ghiandola linfatica.
Psicologicamente
considerato, il ragioniere, è una persona che cerca sicurezza, anzi,
senza sicurezza non si muove, non sceglie, non fa, non dice. La trova
nel suo bagaglietto di dogmi che porta sempre con sé. Ne fa una
casa. Un po’ come i camperisti. Manche offre sicurezza a tutti
queli della sua stirpe pizzicagnola
e notaia, a
tutti i burocrati della vita, che pure il tempo libero hanno misurato
e reso produttivo.
Il
ragioniere conosce le etichette, sa come si deve fare a tavola, nelle
feste, coi parenti, coi figli, coi superiori e gli inferiori, i
diversi. Nei libroni dei suoi dogmi è previsto tutto.
Tuttavia, crede nel dialogo, ma è proprio quello interiore in
particolare a mantenerlo e trattenerlo nello stato bidimensionale in
cui si trova la sua stretta concezione.
Le
sue abitudini sono semplicemente la cosa giusta. Non ha ragione di
riconoscere il flusso canonico che le contiene e lo contiene. Nel suo
intimo non c’è motivo di uscirne, e il fatto di essere sempre
uguale a se stesso non lo disturba, anzi. Perciò non vede che non
sogna ciò che è altro da lui, se non per temerlo o prenderne le
distanze. Non ha direzioni di vita che non siano la sua. Quelle che
crede essere le sue scelte godono di un’ampiezza limitata alle sue
abitudini, e sono compiute per mantenerne la solidità.
La
sua vita corre su binari e si ferma solo secondo moduli che qualcuno
ha precompilato in sua vece. Se ciò gli genera stress, prima di
tutto non se ne avvede, in seconda battuta si rivolge allo
specialista – figura invidiabile nel mondo del ragioniere – per
avere la medicina giusta.
Il
suo stile va dall’imbellettato al rigido, dal vincolato al
deterministico.
Chi
istiga i suoi confini corre dei rischi. Sotto la bandiera de la
legge non si discute,
può essere ucciso o giudicato – che sono tutti la medesima cosa –
di anarchismo. Tutto il resto con il quale avrebbe potuto estendere i
propri orizzonti (ritagliati dallo scenografo), con il quale avrebbe
potuto evolvere, non lo vede. Senza dimenticare che l’anarchico non
è quello delle bombe e del disordine, è il contrario del
ragioniere.
Avendo
già la
chiave di lettura, il mondo che può elaborare e col quale può
interagire è limitato alla condizione materiale dell’energia.
Anche per la metafisica, che tratta e maneggia solo ed esclusivamente
con logica, espressione positivistica delmaterialismo. Concentrato
su se stesso è pronto a difendere i suoi dogmi per il bene di tutti.
L’infinito per lui sta tutto in un simbolo, non una presenza della
magia, una mappa con la quale navigare tra le dimensioni dell’essere.
Scherzo!
Il
ragioniere non esiste, quantomeno allo stato puro. E anche se
esistesse, non è di quello che si tratta qui. Esistono metatipi,
incarnazioni di tutti i generi, almeno a coprire la maggioranza delle
persone. Il ragioniere e i suoi dogmi sono un po’ in tutti noi. Ma
non in misure permanenti: variano. Per stato d’animo, paure,
pretese, circostanze strette e ampie.
A
ben guardare non mancano le occasioni in cui amiamo i binari e la
libera rotta del mare e del cielo che invece che alla bellezza, ci
portano al timore dell’ignoto.
Dunque?
Consapevoli di non poterci sottrarre mai del tutto al dogma del
ragioniere, al recondito desiderio di pianificare a misura una vita
quantomeno priva di stenti e pene, possiamo meglio riconoscere lo
stato profondo del prossimo, possiamo meglio riconoscere quando siamo
noi ad impugnare qualche dogma come fosse giusto, come fosse un
diritto inalienabile. Consapevoli di tutto questo possiamo escogitare
come ridurre o evitare di rimetterci in marcia per qualche crociata
personale e non contro qualche infedele. Possiamo evolvere e creare
società capaci di vivere secondo natura piuttosto che secondo
un’ideologia acquisita e inconsapevolmente eletta stella polare. A
volte consapevolmente.
Lorenzo Merlo