Teismo, evoluzionismo e creazionismo.... Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso

Uh, uhu

Un secolo e mezzo fa, nel 1859, Charles Darwin pubblicava il suo ancora oggi controverso ma rivoluzionario “Origine della specie”, le polemiche non si son ancora acquietate, ma quel che suona strano –secondo me- è l’opposizione virulenta opposta alla teoria evoluzionista dai cosiddetti “creazionisti” (o credenti) di matrice religiosa, e più avanti spiegherò i motivi del mio stupore.  Debbo far presente che non mi considero -strettamente parlando- un seguace della teoria Darwiniana, nel senso che al massimo la considero una spiegazione strumentale alla dimostrazione della cosiddetta realtà empirica… o della casualità.

L’ipotesi evoluzionista è basata sull’osservazione del processo trasformativo della materia e della vita conseguente alla modificazione od espansione dello spazio/tempo. In un certo senso questa teoria deve in ogni caso tener conto di un “inizio” e pertanto è vicina all’altra teoria della creazione progressiva del mondo, comunque basata sulla presenza di un Dio creatore da cui l’universo viene creato. 

Secondo la speculazione del Big Bang l’inizio del momento creativo viene posto nell’esplosione primordiale del nucleo originario della materia, in seguito al quale incomincia pian piano il processo manifestativi della vita. Infatti i religiosi apprezzano molto la teoria del Big Bang come “dimostrazione” della volontà creatrice di Dio ma dovrebbero altrettanto accettare, per essere coerenti con i loro credo, anche il processo evoluzionistico delle varie forme vitali prefigurato da Darwin e dai suoi successori. 


Dal punto di vista della realtà assoluta (ma anche da quello quantistico, fino ad un certo punto dell’analisi) la creazione può essere “progressiva” solo nell’ambito del divenire nello spazio tempo ma, come evidenziò anche Einstein, questo concetto dell’esistenza spazio temporale è puramente figurativo, non ha cioè vera sostanza essendo un relativo configurarsi di eventi costruiti e proiettati nella mente. Perciò nella visione della assoluta Esistenza-Coscienza la creazione è un “apparire”, che si manifesta simultaneamente, sia pur considerata dall’osservatore uno svolgimento conseguente allo scorrere del tempo nello spazio. 

La manifestazione è di fatto un semplice riflesso nella mente del percepente che riesce a captarla ed elaborarla solo attraverso il “fermarla” nella coscienza. Un singolo fotogramma della totale manifestazione che, sia pur sempre presente nella sua interezza, viene illuminato dalla coscienza individuale, visto nella mente e srotolato nel contesto spazio tempo e denominato “processo del divenire”. Da ciò se ne deduce che la descrizione evoluzionista di Darwin è “relativa” tanto quanto la visione “creazionista” dei più retrivi  teisti. 


Ho immaginato anche una sorta di equazione per visualizzare quanto qui espresso. Se prendiamo il tutto come insieme, in cui ogni cosa appare e si manifesta, e lo definiamo 1 (Uno) in qualsiasi modo aggiungendo o togliendo a questo Uno, sempre l’Uno resta. Esempio: 1 + 1 = 1 ; oppure 1 – 1 = 1 


D’altronde questo concetto è stato già espresso molto chiaramente in una Upanishad in cui è detto: “Se dal tutto togli il tutto solo il Tutto rimane” 


Paolo D'Arpini





Post Scriptum.

La coscienza individuale è in costante movimento ed evoluzione, seguendo i diversi modi di sviluppo della società od i periodi storici nei quali si manifestano le vicende umane. Ogni transizione assomiglia al superamento di un livello d’apprendimento, un po’ come succede nella spirale del DNA. La coscienza, in questo caso meglio definirla mente, si muove dalle espressioni più semplici a quelle più complesse. Una sorta di testimonianza-memoria dei vari processi sofisticati della vita.   (Pensiero da non prendere per vero…)

Laicità dello spirito - Un chiarimento sul concetto di "Spiritualità Laica"



Vorrei  chiarire il significato originario e concettuale di "spiritualità laica" che viene malamente indicato come un modo di esprimersi spiritualmente da parte di membri laici di una qualsiasi religione...

In verità il termine laico derivante dal greco "laikos" sta a significare  l'assoluta non appartenenza ad un modello religioso o filosofico, e persino politico. Perciò, ‘laico’ significa  "al di fuori di ogni contesto socialmente strutturato",  un po' come il termine sanscrito "pariah". Quindi è impensabile che un membro di una religione possa esprimere laicamente la spiritualità relativa a quella religione.

Perciò la Spiritualità Laica  sta ad indicare la "spiritualità naturale", la ricerca spontanea dell'uomo verso la sua origine, verso il  significato  misterioso della vita, tale anelito  è indirizzato verso l'auto-conoscenza.    Ad esempio la traduzione inglese di "laico" è "laymen" che significa "uomo comune" ed il termine inglese più prossimo ad esprimere il concetto di Spiritualità Laica è "awe" ovvero "meraviglia di Sé".Tanto per cominciare stabiliamo che "spirito" per me significa "sintesi fra intelligenza e coscienza" inoltre confermo di non essere "credente" in alcuna forma,  quel che affermo è  sulla base della mia diretta esperienza di esistere e di averne coscienza.  Non è necessario che qualcuno me ne dia conferma.

Non è necessario "credere” nella propria esistenza per dire "io sono",  lo sappiamo senza ombra di  dubbio da noi stessi. Mentre per sentenziare l'assunzione di una fede o la mancanza di una fede non possiamo fare a meno di usare il termine "credo" oppure "non credo". Se ne deduce che l'essere ed esserne contemporaneamente coscienti è naturale ed inequivocabilmente vero, mentre  sostenere qualcosa che ha il suo fondamento nel pensiero, cioè nella speculazione mentale,  è solo un processo, un concettualizzare.

Non voglio fare il difficile ma è ovvio che  nessuno dirà mai "credo di esistere e di essere consapevole" mentre per qualsiasi altra affermazione (o forma pensiero astratta o concreta) dovrà sempre usare il termine "credo in questo od in quello …  nella religione o  nell'ateismo" od in qualsiasi altra cosa a cui si presta fede..... "Io sono"  è  perciò  la verità pura e semplice ed è qui  vano  spiegare le possibili ragioni di tale "essere" giacché questo procedimento esplicativo (o interpretazione)  rientra solo nella speculazione  ed è quindi  opinabile.

Affermare  che la coscienza è il risultato della scintilla divina o il percorso casuale della materia che si trasforma in  vita lasciamolo dire ai sofisti.

Mentre "Io sono" è l'unico  fatto incontrovertibile che non abbisogna di prova o discussione alcuna. Ed è su questa base che  voglio restare. Non ha senso quindi mettersi a discutere sui "modi".....o sulle "ipotesi". Dico ciò per tacitare  ed evitare qualsiasi contrapposizione sulla realtà del fatto contingente da me espresso (e tutti a mente serena possono esserne consapevoli).  
Questa è laicità dello spirito.



"Spiritualità laica" è un semplice e banale "riconoscimento" dello stato spontaneo di ognuno di noi.... coscienza o conoscenza di Sé. Conoscere le caratteristiche incarnate, saper individuare le pulsioni che contraddistinguono la nostra persona, è sicuramente utile per non farci imbrogliare dalla mente, per non cadere nella trappola della falsa identità. Infatti tutto ciò che può essere descritto non può essere “noi”, ma solo la struttura funzionale del corpo/mente (nella quale ci riconosciamo). Questo apparato psico-fisico è il risultato della commistione di forze naturali (od elementi) e di qualità psichiche (che degli elementi sono espressione). Nella multiforme interconnessione di queste energie gli infiniti esseri prendono forma…. Anche se –in verità- non si tratta di “forze” né di “esseri” bensì di una singola forza e di un solo essere che assume vari aspetti durante il suo svolgersi nello spazio-tempo.

Ma qui occorre descrivere la “capacità separativa” (maya – yin e yang) che produce l’illusione della diversità. Essa è il primo concetto che si forma nella mente (in effetti è la mente stessa) contemporaneamente all’apparire del pensiero “io”. Attenzione non si tratta dell’Io-Assoluto, l’Essere, ed esserne coscienti aldilà di ogni identificazione, si tratta invece del primo riflesso cosciente (di siffatto Io) nella mente e che consente l’oggettivazione e la percezione dell’esteriorità attraverso i sensi. In tal modo si attua il meccanismo dissociativo di “io sono questo” e quel che viene osservato “è altro”.  Così il dualismo assume una sembianza di realtà e viene corroborato dalla causalità consequenziale alle trasformazioni che si srotolano nello spazio/tempo. Il processo formativo duale è di facile individuazione da parte dell’accorto intelletto (nel  senso di attento) ma questa considerazione è ancora all’interno del riflesso speculare della mente, per cui dal punto di vista della Conoscenza Assoluta anche questa spiegazione (o comprensione) è futile, forse in necessaria e magari addirittura fuorviante… (a causa della tendenza appropriativa del pensiero speculare) e qui ritorno alla necessità di conoscere la propria mente per non rimanere ingannati dalle sue elucubrazioni empiriche, tese cioè a dimostrare una realtà oggettiva.

Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto: “…Allora perché scrivere tutto ciò? Perché leggerlo?” -  Ma la risposta è banale, talvolta noi prima di gettare l’immondizia sentiamo il bisogno di esaminarla in ogni particolare, in modo da non aver rimpianti dopo… Purtroppo, in anni ed anni di volo basso, tutti noi abbiamo sviluppato un forte attaccamento alla zavorra…! 

Paolo D'Arpini





Vita e morte nel seme - Intervento di Alberto Meriggi




Ringrazio l’amico Paolo d’Arpini per avermi invitato ancora una volta a partecipare ad una iniziativa del Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia. La mia presenza non attiene alla sfera delle competenze nel settore ma è motivata solo dal legame di stima e amicizia con Paolo il quale desidera avere in questi incontri anche una voce che tenti di coniugare le tematiche di volta in volta trattate, con la storia, la memoria e le tradizioni locali. Io nella vita, facendo lo storico per mestiere ed essendo treiese, non ho potuto fare a meno di addentrarmi con i miei studi nel passato della mia città e delle mie zone e qualche volta sono riuscito a farlo diventare storia, cioè conoscenza.

Confidando forse troppo nel mio sapere e nelle mie capacità, proverò ad esporre qualche idea per il dibattito prendendo spunto da ricordi personali e da riscontri offerti da documenti concernenti il nostro passato locale. Il tema di questa giornata è “La Memoria è nel Seme”. 

Ho letto nel blog del Circolo una nota di Paolo d’Arpini dal titolo “La posta in gioco” nella quale egli lamenta il fatto che “da quando l’agricoltura industrializzata si è imposta come modello agricolo vincente, la legislazione europea in materia di semi è diventata sempre più restrittiva dei diritti degli agricoltori e del loro libero accesso ai semi. Allo stesso tempo ha permesso sempre di più ad una manciata di industrie multinazionali di monopolizzare il mercato”. Un aspetto estremamente interessante sul quale si potrà e si dovrà discutere. Qui il seme che cita Paolo è qualcosa di concreto, è l’organo di propagazione per eccellenza che attraverso la fecondazione porta alla pianta e al frutto: il seme della mela, il seme dell’erba, il seme del grano. Ma questo straordinario termine da sempre ha svolto un ruolo da protagonista in tantissimi altri ambiti: nella letteratura, nell’arte, come allegoria, come metafora, spesso avvicinato ad altri termini per indicare il meglio o il peggio di qualcos’altro: il perdono è il seme dell’amore, ma anche l’intolleranza è il seme dell’odio, ecc. Per non parlare della sua presenza e dell’uso nei testi sacri di ogni religione: la Bibbia, il Vangelo, il Corano ed altri, nei quali la parola seme è utilizzata in parabole, allegorie, metafore, proverbi ed esempi. Chi non conosce il Vangelo di Matteo al capitolo 13 in cui sono protagonisti i semi della zizzania e della senape e dove svolge un ruolo fondamentale il seminatore?

Anche il Corano utilizza il termine seme più volte e perfino come metafora della vita e della morte. Nel versetto 95 si legge: “Allah schiude il seme e il nocciolo: dal morto trae il vivo e dal vivo il morto”. Dunque vita e morte nel seme. Ecco un altro interessante spunto su cui discutere. Ma in questo contesto non vorrei addentrarmi più di tanto in questo tipo di riflessioni per privilegiare, invece, ciò che a tutti noi, appassionati della natura, forse più interessa: il seme reale, concreto, visto come origine di ogni forma di vita, soprattutto quella vegetale. Cioè il seme inteso come quell’organo che, gettato nel terreno, avvia un processo che fa sviluppare la vita e rigenera se stesso producendo altri semi. A me a questo punto vien voglia di lanciare una provocazione che sintetizzo in questa mia riflessione su cui potremmo discutere: a me pare che, in agricoltura e nella vita, non è tanto il seme che conta ma il terreno in cui lo si getta. E che ciò possa esser vero è stato testimoniato da tanti esempi tramandatici dalla storia anche delle nostre zone. Se è vero che un cuore duro non può far attecchire il seme dell’amore, è altrettanto vero che un terreno arido e impenetrabile non può accogliere alcun seme e in esso non può attecchire nulla. Il terreno deve essere accogliente per il seme! E qui si apre una pagina di storia millenaria legata al mondo del lavoro e della produzione. Quanta fatica nei secoli per preparare il terreno alla semina! 

La storia del lavoro ci dice che nelle nostre zone, come ovunque, da sempre fino agli inizi del Novecento tutti i lavori agricoli erano svolti con la forza delle braccia di uomini, donne e bambini, aiutati da animali e da attrezzi rudimentali. Da qualche fonte documentaria (contratti di compravendita, locazione, affitto, inventari di aziende) si evince che anche nelle nostre zone prima del Trecento non si riuscì mai ad avere un indice di resa che raggiungesse il 4 per uno: cioè ogni chicco di grano seminato (ma anche di altri cereali più poveri) solo allora riuscì a darne quattro ma, ripeto, solo dal Trecento in poi, prima il rapporto era uno a due e raramente uno a tre e i tre semi prodotti consentivano appena la sopravvivenza, perché uno serviva per seminare ancora, il secondo per mangiare, il terzo per il padrone, se non vi erano carestie che erano sempre in agguato. Il risultato del quattro per uno si ottenne attraverso un’ agricoltura di tipo forzatamente estensivo, cioè aumentando i terreni da coltivare attraverso un forte diboscamento e un sistematico attacco all’incolto. 

Non poteva essere praticata una agricoltura intensiva perché il terreno non si poteva far produrre di più in quanto non c’erano concimi al di fuori di quelli naturali, né macchinari capaci di muovere in profondità il terreno, come invece avverrà dalla fine dell’Ottocento in poi, ma a discapito della genuinità dei prodotti e di un armonico equilibrio naturale. Col passare dei secoli il rapporto tra il seme seminato e quello raccolto migliorò, ma aumentò anche la richiesta di consumo perché l’Europa, compresa l’Italia, vide un forte aumento della popolazione determinato da fattori noti che non sto qui a ripetere. In Italia si passò dai 13 milioni di abitanti del 1700 ai 18 del 1800. Negli stessi anni nello Stato pontificio la popolazione crebbe da 1.950.000 unità a 2.300.000 (più del 20%) e nelle Marche passò da 521.000 a 700.000 (più del 40%). Questa vivace crescita della popolazione accrebbe ovunque in Italia la domanda di cereali e di prodotti agricoli. Si passò in breve ad un esasperato sfruttamento della fertilità naturale dei suoli alla messa a coltura di aree marginali dirupate o argillose. Ciò provocò la riduzione delle rese unitarie e l’erosione degli spazi della proprietà collettiva e dell’allevamento ovino con vistosi fenomeni di dissesto idrologico. Ne conseguirono ovunque l’instabilità dei raccolti e l’intensificarsi delle carestie dopo quella devastante e terribile degli anni 1763-67 che costrinse torme di contadini affamati ad abbandonare i poderi per riversarsi nelle città a chiedere l’elemosina. Ma lo squilibrio tra l’aumento della popolazione e la disponibilità di prodotti agricoli stava creando problemi in tutta Europa. 

Ovunque si cercava di porre rimedio a tali problemi e soprattutto al dilagare della fame con iniziative pratiche e con progetti basati su teorie avanzate da studiosi e pensatori. Tutti conoscete la teoria del pastore protestante inglese Thomas Robert Malthus che ipotizzava un “controllo preventivo” delle nascite basato sulla castità. Secondo Malthus ciò avrebbe impedito l’impoverimento dell’umanità: se si è in meno a mangiare il cibo basta per tutti! Un’altra teoria importante fu quella fisiocratica, una dottrina economica (Francois Quesnay) che si affermò in Francia verso la metà del Settecento. Essa sosteneva che l’agricoltura era la vera base di ogni attività economica e solo essa era in grado di produrre beni, mentre l’industria si limitava a trasformarli e il commercio a distribuirli. Dunque, secondo i fisiocratici, bisognava migliorare l’agricoltura in tutti i suoi settori al fine di avere più produzione. Questa dottrina si diffuse ben presto in tutta Europa e giunse perfino a Treia dove fu abbracciata e applicata dalla locale Accademia Georgica che nel 1778 cominciò ad interessarsi di sperimentazione in agricoltura raggiungendo notevoli risultati. 

Nell’Accademia Georgica di Treia uno dei protagonisti delle sperimentazioni fu proprio il seme. Vi cito soltanto alcuni di quegli studi e alcuni risultati ottenuti. Dico subito che l’Accademia si distinse ben presto per gli studi e i tentativi di estrarre l’olio dai semi. All’epoca l’olio di oliva era costosissimo e poteva essere usato solo dalle classi signorili. Ma l’olio serviva anche come combustibile per le lampade e le luminarie. Consapevoli di tutto ciò gli accademici iniziarono sperimentazioni per ricavare olio da fonti alternative. I loro tentativi furono rivolti ai semi di girasole, di colza, di rapa, di lino e, perfino, delle “perelle delle fratte” o sanguinelle, ma ottennero ottimi risultati attraverso l’estrazione di olio commestibile dalle granelle dell’uva. Quest’ultima sperimentazione, di lì a poco, divenne una vera e propria attività commerciale. Per dimostravi l’importanza che le sperimentazioni degli accademici e i semi ebbero nell’attività agricola locale, vi leggo un brano che ho tratto dalla relazione di Fortunato Benigni, il personaggio più rappresentativo dell’Accademia di quegli anni (fine Settecento). Il Benigni scriveva: “I soci tutti, di lodevole emulazione ripieni, a gara hanno fatto per provvederci di nuovi semi, e di piante esotiche insolite ad allignare fra noi”. E quali sono stati questi semi mai visti nelle nostre zone? Ebbene, furono quei semi ricercati e fatti venire da lontano per impiantare quelle nuove colture fino ad allora non praticate in zona, ma ritenute assolutamente necessarie per migliorare l’agricoltura nel suo complesso. L’Accademia importò soprattutto semi di foraggere sconosciute nelle Marche e nello Stato pontificio, come l’erba medica, la lupinella, il lojetto, la sulla e la verza alta. Queste foraggere importate dall’Accademia treiese divennero poi colture usuali nella zona. Esse non erano conosciute dai contadini locali in quanto esigenze di mercato e il fabbisogno alimentare imponevano nelle campagne la monocoltura granaria, la quale però causava l’esaurimento della fertilità naturale dei terreni, rendendo indispensabile lasciare i campi a maggese, cioè a riposare inutilizzati per il tempo necessario al recupero della fertilità. Con i foraggi, invece, si evitava di lasciare incolti i terreni rendendo più veloce il recupero della fertilità e, nello stesso tempo, si otteneva un abbondante nutrimento per il bestiame, tanto che, come attestano i catasti, dopo la diffusione dei foraggi l’attività zootecnica nelle campagne treiesi e marchigiane ebbe un notevole incremento. Certamente l’introduzione di quei nuovi semi comportò anche una maggiore attenzione alla cura dei terreni e stimolò il rinnovamento e l’adeguamento degli attrezzi agricoli: i proprietari, vedendo i vantaggi arrecati da tali colture, accolsero l’introduzione di aratri in ferro e cominciarono a mettere a disposizione dei contadini attrezzi meno rudimentali, anche se le braccia degli uomini e la forza degli animali rimarranno indispensabili e insostituibili per almeno un altro secolo e mezzo. La sorte del seme, che ha sempre rappresentato la vita e la morte, continuerà a dipendere a lungo dal seminatore che lo getta e dal terreno che lo accoglie. Solo oggi questo processo antico e naturale sembra non essere più frequentato: il terreno è scosso, sconvolto e stimolato da una eccessiva macchinizzazione e, purtroppo, anche alterato assai spesso dalla chimica che moltiplica e abbellisce i semi ma a discapito della loro genuinità. 

Potrei dilungarmi ancora su queste tematiche utilizzando gli stimoli offerti dalla storia e dalle tradizioni locali, ma il tempo a mia disposizione mi obbliga a fermarmi qui. Spero di aver offerto qualche spunto interessante per un dibattito che a mio parere potrebbe prendere avvio dalla considerazione e domanda che mi sono posto all’inizio: non è tanto il seme che conta ma il terreno che lo accoglie! E’ così? Parliamone! 

Intervento di Alberto Meriggi, incontro al Circolo Vegetariano di Treia del 8 dicembre 2013 sul tema "La memoria è nel seme"

Treia - Paolo D'Arpini e Alberto Meriggi nel Circolo Vegetariano VV.TT. 

Religioni patriarcali astratte e Saggezza matristica concreta


Eva offre la "conoscenza" ad Adamo

Insistere troppo su valori astratti  "teisti"  non aiuta la mente umana al superamento del pensiero patriarcale. Dobbiamo -secondo me- abbandonare la speculazione religiosa e ritornare ad una spiritualità priva di dogmi e non specificatamente  legata al genere (qui ricordo che il sacerdozio nelle religioni monoteiste è precluso alle donne).

Per carità, va anche bene fare un'analisi storica sulla formazione del cristianesimo e di come  questa religione "semita" abbia attinto al paganesimo pre-esistente. Tra l'altro  la rivalutazione del paganesimo è una delle caratteristiche portanti non solo nel filone New Age ma anche in ricerche storiche serie,  come ad esempio quella di  Daniel Danielou sul mito di Dioniso-Shiva.

Ma dovremmo andare anche più in là riscoprendo i culti più antichi e vicini alle nostre radici, ovvero l'adorazione della Grande Madre o Energia Primordiale  (Shakti).

Spesso, qui al Circolo vegetariano VV.TT.,  durante le feste da noi organizzate, soprattutto quelle in concomitanza con i solstizi e gli equinozi o per la luna piena e nuova, mettiamo in evidenza gli aspetti sincretici fra cristianesimo e   “neo-paganesimo”, facendoli coincidere con   il nostro spirito laico e simpatetico con la Spiritualità della Natura.

Ad esempio, è avvenuto che durante alcune cerimonie,  già da noi predisposte, si aggiungessero  riti diversi  con offerte alle divinità e fate dei boschi o dei corsi d'acqua, il tutto magari collegandolo a credenze o leggende cristiane... (tanto per fare un esempio ricordo la Vigilia di San Giovanni, con il battesino dell'acqua e del fuoco, etc.).  Io  lascio fare perché in fondo il riconoscere  il Genius Loci e la sacralità della natura in tutte le sue forme è uno degli aspetti della spiritualità laica e dell’ecologia profonda, che ci contraddistingue.  


In effetti la spiritualità della natura  è un aspetto riconosciuto anche nella fede cristiana antica, soprattutto nel misticismo (sia in quello primitivo che in quello francescano)  in cui prevale  la consuetudine di ritirarsi in grotte, boschi e deserti in stretta comunione con gli elementi naturali e con il mondo animale.

Aspetti pagani erano presenti persino nella religione ebraica, sia pur condannati, come ad esempio l’adorazione della vacca sacra durante la traversata del Sinai, oppure riconosciuti e facenti parte della tradizione  come avvenne presso la setta degli Esseni che vivevano in strettissima simbiosi con la natura e con  i suoi aspetti magici, avendo essi sviluppato anche la capacità di trarre il loro nutrimento dal deserto, un grande miracolo questo considerando  che erano persino vegetariani….

Il rispetto e l’adorazione  della natura, definito dalla chiesa cattolica (un po’ dispregiativamente) “panteismo” è uno degli stimoli da sempre presenti nell’uomo, tra l’altro questo sentimento panteista è  alla base dell’exursus evolutivo della specie.

Ciò  mi fa  ricordare  una storiella,  che amo spesso raccontare,   sull’origine della specie umana. Ormai è certo che ci fu una “prima donna”, un’Eva primordiale. L’analisi   del patrimonio genetico femminile mitocondriale lo dimostra inequivocabilmente.  Mi sono così immaginato una donna, la prima donna, che avendo raggiunto l’auto-consapevolezza (la caratteristica più evidente dell’intelligenza) ed avendo a disposizione solo “scimmioni” (tali erano i maschi a quel tempo)  dovette compiere una opera di selezione certosina per decidere con chi accoppiarsi in modo da poter avere le migliori chance di trasmissione genetica di quell’aspetto evolutivo. E così avvenne conseguentemente  nelle generazioni successive ed è in questo modo che pian piano dalla cernita nell’accoppiamento sono   divenute rilevanti qualità come: la sensibilità verso l’habitat, l’empatia,  la pazienza,  la capacità di adattamento e di gentilezza del maschio verso la prole e la comunità, etc. etc.

  
Pregi che hanno  portato la specie  verso una condizione “intelligente” che riconosciamo (o riconosceremmo se nel frattempo non fosse subentrata una spinta maschilista involutiva).

Purtroppo in questo momento storico, in seguito all’astrazione dal contesto vitale e alla manifestazione della religiosità in senso  metafisico (proiettata ad un aldilà ed ad uno spirito separato dalla materia),  molto di quel rispetto (e considerazione) verso la natura e l’ambiente e la comunità è andato scemando,  sino al punto che si predilige la virtualizzazione invece della sacralità vissuta nel quotidiano. Ed in questo buona parte della responsabilità è da addebitarsi al radicamento dei credo monoteisti (Ebraismo, Cristianesimo ed Islam).

Ma quello che era stato scacciato dalla porta spesso rientra dalla finestra, infatti la psicologia sta riscoprendo i miti, le leggende e le divinità della natura descrivendole in forma di “archetipi”.

All’inizio della  civilizzazione umana, nel periodo paleolitico e neolitico matristico, la sacralità era incarnata massimamente in chiave femminea, poi con il riconoscimento della funzione maschile nella procreazione tale sacralità assunse forme miste  maschili e femminili, successivamente con i monoteismi patriarcali fu il maschile che divenne preponderante.

Ora è tempo di riportare queste energie al loro giusto posto e su un totale piano paritario. Anche se già in una antica civiltà, quella Vedica,  questa parità era stata indicata, come nel caso della denominazione (maschile) “Surya” che sta ad indicare l’identità del sole in quanto ente divino, che  viene completato dall’aspetto femminile “Savitri”  che è la capacità irradiativa dell’energia solare.

E noi sappiamo che fra il fuoco e la  sua capacità di ardere  non vi è alcuna differenza....  


Paolo D'Arpini

Il credere è nella mente.... il vivere è nel presente


Le belle figurine

Qual’è la differenza  fra il restare assorbiti nella quiete della coscienza indifferenziata, rispondendo agli stimoli della vita con spontaneità e leggerezza, e l'affermazione spasmodica basata sull’assunzione di concetti ideologici che ci fanno da gabbia comportamentale?

Un uomo studia libri su libri, ascolta e tiene grandi discorsi, cerca seguaci e diventa egli stesso seguace, inizia insomma a "credere" in un sistema, in un vantaggio, egli imposta ogni sua azione nel rispetto di uno schema sul quale erige una struttura idealistica, con essa ritiene di poter "istruire" gli altri e di poter esprimere "la verità". Ma come è possibile che la verità sia statica, una cosa prestampata ed immobile, un rigido ideale? Essa può esser "vera" solo se è vera nel fluire continuo della vita, assestandosi ed adeguandosi alle circostanze correnti, essa non sclerotizza gli eventi, non impone restrizioni, essa respira con tutto ciò che esiste.

Basarsi su un credo (in positivo od in negativo) per descrivere la verità è voler dare alle parole un valore che non hanno… 

Ed in buona sostanza come nasce la parola?

Il linguaggio attraverso il quale osiamo affermare "questa è la verità" è molto lontano dalla pura coscienza. Infatti all’inizio esiste una consapevolezza astratta, una coscienza intelligente e non qualificata, da questa sorge il senso dell’io, l’ego, il quale a sua volta dà origine ai pensieri, ai concetti, ed infine questi diventano parole e scrittura. Quindi il linguaggio è di molto successivo alla conoscenza.

Come è possibile che attraverso la parola si possa esprimere la verità, cos’è questo se non cieca arroganza?

Quando noi dichiariamo "questa è la verità" è come se dicessimo "il cristianesimo è mejio, l’islam è mejio, l’ateismo è mejio, il fascismo è mejio, anzi no, è mejio il comunismo.." e contrario per contrario tutto ciò in cui crediamo "è sempre mejio!".

Se usiamo adesso un po’ di discernimento, non possiamo far a meno di osservare che ognuna di queste verità appartiene all’io, è solo ciò in cui crediamo, ma può esser definita verità una verità che è solo individuale? Una verità che può essere descritta?

C’è un antico detto taoista che dice: "Il Tao che può esser detto non è il Tao".

E Ramana Maharshi, un saggio dell’India, disse: "..la Verità è nel profondo silenzio del nostro cuore…".

Purtroppo alcune persone sbandierano la loro verità ai quattro venti, pretendono di averla trovata in fantastiche proiezioni della psiche, nelle curiosità di varie religioni, negli inferni e paradisi, nella reincarnazione e nel materialismo ateo, perché essi amano il mistero e non la verità…. Ed in verità a che servono queste "verità" fasulle, ignorando la vita del giorno per giorno, del qui ed ora, se non per speculare sull’immaginario del credere? Nel credere restiamo in perenne apnea….

Per sperimentare la verità di vita basta stare nella spontaneità del respiro… senza decidere in anticipo quando inspirare e quando espirare….


Paolo D'Arpini


PIL - Sesso droga e rock and roll

Prostituzione e droga, pratiche malsane di una società decadente e non voce del PIL


Vivendo nella società malsana in cui viviamo gli ottimizzatori finanziari ed i politici europei considerano la prostituzione una voce del PIL, quindi per essi se la prostituzione esiste è meglio regolamentarla per un suo miglioramento utilizzativo, esattamente e coerentemente  come  stanno cercando di fare  per il consumo di droga, e cioè: se  il tabacco e l’alcol vengono regolarmente venduti e tassati per quale motivo accettare  questi e non legalizzare l’altra? Perché mantenere sacche incontrollate di mercato abusivo, di cui si avvantaggia solo la mafia? Meglio che sia tutto legale e controllato…  Ma questa è una visione “utilizzativa”   che  posso comprendere  ma  non condividere….  A questo punto alla “legalizzazione” preferirei la “liberalizzazione” tout court, soprattutto per le sostanze di carattere naturale (come la canapa, le foglie di coca, il papavero da oppio, etc.)

Ma tornando al discorso della prostituzione, se si sente la necessità della promiscuità  sessuale sarebbe preferibile  compartecipare ad una famiglia allargata. E questo vale sia per le esigenze di uomini che di donne senza sperequazione alcuna.  Insomma nella sessualità e nella libertà personale, che non nuoccia agli altri, ci vuole elasticità, ferme restando  le attenzioni per le fasce sociali più deboli, come i minori. 

D'altronde se osserviamo le abitudini sessuali dei nostri “consanguinei” primati antromoporfi scopriamo che spesso la promiscuità è preponderante… ed è un fatto perfettamente naturale.  Come è naturale, e lo è da tempo immemorabile (sia per l'uomo che per gli animali) l'uso di sostanze inebrianti. Persino nella religione cristiana il vino è considerato elemento sacramentale. 

Ma  non ha senso  legalizzare la pratica prostitutiva solo perché si sente il bisogno di far crescere il PIL, come non ha senso degradare la società attraverso  lo smercio "certificato" di droghe od il gioco d'azzardo legale. 

Scrivevo in calce ad un mio articolo di ecologia sociale:

“La soluzione per lo scollamento sociale in corso sta nel superamento dei modelli consumistici, in primis, per ritrovare in una socialità allargata nuove espressioni per la solidarietà umana, contemporaneamente abbandonando il permanere nei grandi agglomerati urbani e rinunciando ai parossismi culturali (musiche preconfezionate, televisioni, sport idioti, giochetti virtuali, etc) in modo da ricreare in noi lo stimolo primario della gioia di vita e la capacità creativa per produrre qualcosa che abbia lo spirito del necessario e del bello”.

Paolo D'Arpini

Antiche civiltà - Insediamenti umani altamente evoluti vecchi di 30.000 anni


Il dottor Semir Osmanagich, antropologo di Houston, scopritore delle possibili piramide bosniache di Visoko e fondatore del Bosnian Archaeology Park, in una recente dichiarazione ha ribadito con granitica certezza che le prove scientifiche confermano in maniera inconfutabile che nel passato della Terra è esistita una civiltà altamente tecnologica che costringe a riscrivere i libri di storia.
Da un esame delle strutture individuate da Osmanagich, e su altri siti altrettanto interessanti, il ricercatore stima che tale civiltà avanzata sia esistita oltre 29 mila anni fa.
“Riconoscere che ci troviamo di fronte a delle prove fondamentali che confermano l’esistenza di una civiltà tanto antica e tanto progredita costringe la comunità scientifica a riconsiderare la sua comprensione dello sviluppo della civiltà e della storia”, spiega il dott. Semir Osmanagich. “I dati conclusivi sul sito delle piramidi bosniache di Visoko forniti da diversi laboratori indipendenti che hanno condotto la datazione al radiocarbonio confermano che le strutture risalgono a oltre 29 mila anni fa”.
Le analisi sono state condotte su materiale organico trovato nel sito delle piramidi. Il primo annuncio dell’incredibile scoperta fu dato nel 2008 dalla dottoressa Anna Pazdur della Silesian University, Polonia, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Sarajevo nel mese di agosto.
Alessandra Mona Haggag, professoressa di archeologia presso l’Università di Alessandria, coinvolta anch’ella nelle analisi al radiocarbonio, dopo aver condotto il suo studio spiegò che il materiale su cui fu eseguito il test al radiocarbonio fu ottenuto da un pezzo di materiale organico recuperato da una misteriosa guaina argillosa rinvenuta all’interno della piramide del Sole.
L’ultimo studio condotto nel 2012, di cui abbiamo riportato i risultati in un articolo precedente [Leggi: Nuovi studi sulle Piramidi di Visoko spingono l’inizio della civiltà indietro di 20 mila anni], ha rivelato che la struttura interna della piramide, realizzata con una sorta di calcestruzzo, è databile a quasi 30 mila anni, confermando le analisi di laboratorio su materiale organico.
“I popoli antichi che hanno realizzato queste piramidi conoscevano i segreti della frequenza e dell’energia della Terra”, spiega il dottor Osmanagich. “Hanno usato queste risorse naturali per sviluppare tecniche di costruzione su scale che non abbiamo mai visto prima sulla Terra”. Osmanagich è convinto che le piramidi fossero delle enormi macchine capaci di estrarre energia dalla griglia che circonda la Terra, in maniera simile alle intuizioni di Tesla.
Di recente, storici e ricercatori statunitensi hanno riportato scoperte altrettanto sorprendenti che costringono a chiedersi chi e per quale scopo siano state costruite queste strutture e, soprattutto, in che modo queste antiche e avanzate civiltà hanno contribuito a plasmare il nostro presente.
Si registra un crescente interesse per questi argomenti anche da parte del grande pubblico, tematiche che accendono l’innata curiosità sulle nostre origini, tanto da spingere numerosi network televisivi a dedicarsi. Il National Geographic ha dedicato l’edizione speciale della sua rivista uscita nel mese di novembre 2013, dal titolo: 100 Grandi Misteri Rivelati, alle civiltà antiche.
All’interno si legge che “a volte le culture si lasciano dietro misteri che confondono quelli che vengono dopo di loro, tra costruzioni, pietre e manoscritti codificati. Tutto fa pensare che le indicazioni degli antichi avevano uno scopo profondo”. L’edizione speciale si concentra in maniera approfondita sui siti antichi e i misteriosi indizio lasciato da civiltà antiche che conosciamo molto poco.
Un noto autore, Michael Cremo, nel suo libro Archeologia Proibita, teorizza che la conoscenza di civiltà antiche altamente tecnologiche è stata soppressa o ignorata dalla comunità scientifica perché contraddice le attuali convinzioni sulle origine dell’Homo Sapiens e che quindi demoliscono l’attuale paradigma dominante. Il lavoro di Cremo, sebbene irriverente e provocatorio, è stato valutato interessante dal punto di vista didattico e valutato con interesse da numerose riviste accademiche.