Università degli Studi della Calabria
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Filosofie e Scienze della Comunicazione e della Conoscenza
I semantici seminatori semitici
Frangella Francesco
Matr. 73628
Murgo Maria
Matr. 71485
Tarsia Alessandro
Matr. 65324
Anno Accademico 2002 - 2003
1 Il problema della parola
La Torah è il testo normativo dell’identità
giudaica anche per gli ebrei laici o atei.
I libri della Bibbia sono fissati in canoni (misure) diversi fra loro per impostazione ideologica e religiosa, fra quelli più noti c’è quello palestinese (degli altri ci occuperemo in seguito). È il frutto di una selezione fatta su libri eterogenei che ha scartato tutti quelli che non rispecchiavano le idee dei rabbini autori dell’elenco biblico. La Bibbia ebraica secondo il canone palestinese è chiamata Kitvè ha-qòdesh (Scritti Sacri, o Sacra Scrittura) o Miqrà(lettura), in base alla sacralità ed al valore normativo si distinguono tre parti:
1. Toràh (Insegnamento, Legge) composta dal Pentateuco
a) Genesi
b) Esodo
c) Levitico
d) Numeri
e) Deuteronomio
2. Neviìm (Profeti)
a) Profeti anteriori (libri storici): Giosuè, Giudici, Samuele, Re
b) Profeti posteriori
b.1) Maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele
b.2) Minori: dodici profeti
3. Ketuvim (Scritti)
a) I Cinque rotoli (Ḥamesh meghillòt): Cantico, Ruth, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester
b) Salmi, Giobbe, Proverbi, Daniele, Ezra-Neemia, Cronache.
Gli ebrei si riferiscono anche ad un’altra raccolta di pari importanza che la tradizione chiama Mishnah (ripetizione). Quando parliamo di Sacre Scritture intendiamo anche la loro lettura (
Miqrà) e quindi interpretazione poiché leggere è immediatamente interpretare. Fra gli ebrei sono i Maestri e cioè i Rabbini
che si pronunciano sull’attinenza delle interpretazioni, essi leggono i testi insieme ai loro allievi. Nella Toràh è contenuto il senso dell’essere ebreo perciò esso non può non interrogarsi sulla scrittura, con una procedura antica come la Bibbia stessa. Anticamente gli insegnamenti dei maestri si tramandavano oralmente da maestri ad allievi, questi ultimi terminati gli studi avrebbero sostituito i loro maestri. Nel 70 d.C. la furia dell’impero Romano distrusse la città di Gerusalemme ed il suo Tempio. La casta sacerdotale s’interruppe bruscamente e per evitare la perdita degli insegnamenti alcuni dotti trascrissero la tradizione orale. La Sacra Scrittura viene chiamata
Toràh She-Be-Ketàv, la raccolta di norme orali è ugualmente importante ed è chiamata
Toràh She-Be-‘Alpeh, fu redatta dal patriarca Rabbì Jehudà Ha-Nassì verso la fine del II o l’inizio del III secolo, egli raccolse gli insegnamenti orali e compilò la Mishnà. La Mishnà è costituita da Sei ordini ed è un riassunto delle leggi definite dai Maestri secondo argomenti specifici.. Essa indica sia la singola norma, sia il loro insieme, sia il metodo dell’insegnamento orale fatto di continue ripetizioni. Rispetto alle leggi scritte di carattere generale la Mishnàh indicava dettagliatamente le singole regole e le loro modalità di applicazione. Essa si affianca alle Sacre Scritture ma è scritta in un ebraico differente detto “Mishnico” ed è divisa in sei sezioni chiamate
Sedarìm (ordini). Ogni ordine (
Sèder) si divide in trattati (
Massekot al singolare
Masseket); i sessantatre trattati a loro volta si dividono in cinquecentoventitre capitoli ed in paragrafi.
Nei secoli III-VI i rabbini delle scuole palestinesi e babilonesi fecero della Mishnàh l’oggetto prevalente dei loro studi, eseguiti col metodoMidràsh e volta a spiegare la Mishnàh, a collegarla alla legge scritta, a scioglierne le contraddizioni e a trovarvi la risposta ai problemi che in essa non erano stati previsti, furono riuniti in una specie di grande commentario che fu definito con la parola aramaica Ghemarà (Studio o Completamento). Ogni paragrafo della Mishnàh è stato sviscerato quasi sempre in modo analitico e la Ghemarà, la cui esposizione è spesso molto discorsiva sembra un verbale minuzioso delle discussioni, spesso interrotte da divagazioni che i rabbini tenevano nelle loro scuole.
La
Mishnàh e la
Ghemarà insieme costituiscono il
Talmùd (Studio), abbreviazione di
Talmùd Toràh(Studio della Legge). La parte più ampia del Talmud è dedicata alla discussione delle leggi; una parte cospicua è dedicata alla narrazione di midrashim (parabole che hanno un profondo significato morale e da cui spesso si desume la normativa) e a insegnamenti in varie materie (medicina, scienza, storia, matematica etc.). Mentre il testo della
Mishnàh è unico, della
Ghemarà esistono due redazioni diverse del contenuto, nella presentazione e nella lingua. La Mishnàh e la
Ghemarà elaborate nelle scuole palestinesi nella lingua aramaica giudaica della Palestina formano il
Talmùd palestinese (IV sec.,
Talmùd Èreṣ Yisraèl) o gerosolimitano (
Yerushalmì). La Mishnàh e la Ghemarà elaborate nelle scuole mesopotamiche in lingua aramaica giudaica di Babilonia formano il Talmùd babilonese (VI sec.,
Talmùd Bavlì). Quest’ultimo si affermò come il Talmùd per antonomasia, diventando la fonte primaria della giurisprudenza ebraica e da molti è considerato il baluardo che ha consentito al giudaismo di sopravvivere attraverso i secoli. Le interpretazioni di ogni maestro venivano riportate completamente per non penalizzare nessun rabbino e nessuna di essa veniva privilegiata. Opera voluminosa raccolta in 30 volumi e composta da 6000 fogli, venne chiusa verso il VI secolo dopo Cristo ma non è ancora conclusa poiché ogni volta che la si legge si aggiunge un’altra interpretazione. Il Talmùd, opera difficilmente classificabile con i consueti criteri letterari, è essenzialmente un
corpus iuris in cui sono presenti, spesso giustapposti alla rinfusa, i materiali più disparati. Gli eterogenei materiali confluiti nel Talmùd, che, come si è già osservato, in parte derivano dalla riflessione sulla legge scritta e orale condotta secondo il metodo Midràsh, sono di solito distinti per il loro contenuto in due grandi categorie:
halakàh e
haggadàh. L’halakàh (con questo termine ebraico che significa “via” o “condotta”, si può indicare in senso generale un insieme di leggi e in senso stretto sia una singola legge, sia l’insegnamento giuridico che si segue, sia il precetto che regola il comportamento) comprende, ovviamente, la Mishnàh e quella parte della Ghemarà che tratta questioni giuridiche. L’haggadàh (narrazione) – categoria difficile da definire in modo preciso al punto che si usa dire che tutto quello che non è halakàh è haggadàh – comprende elementi narrativi, religiosi ed etici, politici folcloristici e tradizioni popolari.
Secondo la sentenza di un maestro rabbinico del II sec. d.C. sul modo di acquisire la Torah, esistono 48 modi di studio diversi. Questa sentenza fa parte del “Trattato dei Padri”, testo anonimo del II secolo della nostra era, fa parte di una collana di testi ed è molto importante per gli ebrei perché fa parte della Toràh, la Bibbia ebraica che può essere ricondotta al cristiano “Vecchio Testamento”. Il “Trattato dei Padri” è composto da sentenze riguardanti l’uomo ed il suo comportamento, la sua azione sulla realtà. Dei su citati 48 modi i primi tre fanno espressamente riferimento alla comunicazione, ad un’alterità prettamente strutturale, alla presenza di qualcun altro prima di me. Essi sono:
Lo Studio “si sono fermati prima che io iniziassi a studiare”: è in ebraico una parola
importante, giocando sull’ambiguità del significato della parola Talmùd, ricollegabile alla radice /LaMaD/ come vedremo in seguito.
L’orecchio teso: ascolto qualcuno che parla prima di me. L’alfabeto ebraico è composto di 22 consonanti, dalla loro combinazione vengono prodotti campi semantici più che significati univoci, che hanno come combinazione base una radice triconsonantica. Le vocali non esistono nell’alfabeto perciò vengono scritte in caratteri minuscoli. Ad esempio la parola “libro”
ha più radicandi, ed è possibile, inserendo altre vocali al posto di queste, ottenere anche i significati di “libreria”, “volume” e “biblioteca”. Il radicale triconsonantico / LaMaD / significa “studiare” mentre il radicale triconsonantico / LoMeD / significa “insegnare”. “C’è anche un simbolismo della lettera / L / correlato alla parola / LaMaD /, la lettera ebraica “ ל ”
lamed nella sua stessa forma si “spinge oltre la linea”, va aldilà; lo studio è sempre passaggio aldilà, se non si oltrepassasse questo limite sarebbe circoscritto ed il testo rimarrebbe inutilmente muto. L’atto dell’interpretare indica che qualcosa è oltrepassato poiché nulla si impara se non ci si predispone ad accoglierlo. Elaborare viene dal latino
labor nel senso di “lavoro”, dell’oltrepassare, del modificare ciò che abbiamo davanti agli occhi. Non interpretare significherebbe restare prigionieri di quella lettera del testo. Talmùd, lo studio è sempre passaggio aldilà, superamento della frontiera poichè il testo è delineato nel tempo e nello spazio, se non venisse interpretato resterebbe li, immobile.
- Pronuncia ordinata: devo imparare a pronunciare cose che sono prima di me
- Fare un recinto intorno alle proprie parole
- Apprendo con l’intenzione d’insegnare
- Rendere saggio il proprio maestro
Se un insegnamento non funziona il maestro è sempre imputabile del fallimento. L’azione didattica funziona quando un discepolo fornisce il modo del maestro di captare il mondo, poiché non può limitarsi a prendere o ad apprendere. Affiora qui l’idea del “ricevere qualcosa” , se ciò che mi giunge mi sorprende e mi interpella allora quanto mi giunge va elaborato attivamente, non è possibile limitarsi ad apprendere nel senso tecnico passivo, mnemonico. Sono quindi invitato a costruire qualcosa di nuovo che non era presente in precedenza. Non c’è accoglienza senza attività e l’elaborazione può chiamarsi storia, intesa come prodursi dell’evento ma anche come racconto dell’evento. I maestri propongono insegnamenti muovendosi fra i due tipi d’interpretazione della Toràh e della Mishnàh: le su citate halakike (nel senso di “camminare”) ed haggadiche (secondo alcuni “racconto”); l’interpretazione halakika è a carattere etico-normativo, ed è quindi il modo di procedere. Questa via è stata proposta da alcuni maestri, affinché per accogliere qualcosa ci si prepari all’accoglienza. Tutta la storia di Mosè fino al Sinai e quella immediatamente precedente al dono della Toràh racconta proprio il modo in cui gli ebrei si prepararono al dono. Un testo non è soltanto il racconto di un evento, ma è l’evento stesso. Come se il testo non esistesse direttamente per noi, esso è evento ma non solo, dice qualcosa, narra qualcosa quindi apre l’altra via dell’interpretazione, l’ haggadica che rimanda a miti o a storie fantastiche.
La Toràh si apre con la lettera ב / bet , che è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico. La prima lettera è א / alef , i maestri iniziano la loro analisi chiedendosi il motivo per cui la Toràh inizia con la seconda e non la prima lettera. Secondo una narrazione haggadica in principio esistevano le lettere e Dio, ancor prima della creazione
esse “sgomitavano” per avere la precedenza sul Creato, la più infervorata era la / alef / che fu punita per questo, fu resa muta. Questa lettera ha nell’ebraico la stessa funzione della nostra / h /. La lettera che “sgomitava” meno era la / bet / che per questo motivo venne scelta come prima lettera della Toràh.
Lo scrittore non ebreo Maurice Blanchot in un testo che tratta del rapporto fra maestro e discepolo spiega la dissimmetria di questo rapporto della parola. La dissimmetria produce infinità, il maestro deve rendere difficili le vie del sapere. L’intenzione è quella dell’apprendere nello studio e nell’insegnare.
La tripartizione della Bibbia in Toràh, Neviìm e Ketuvim, ha fatto riflettere i rabbini che hanno dedotto dalle lettere iniziali di ognuna di queste la parola /TaNaK/ cioè il nome della Bibbia stessa. Il terzo libro della Toràh, il Deuteronomio, è scritto in prima persona ed è una ripetizione del libro dell’Esodo che parla di Mosè e della storia della formazione del popolo giudaico. Esso si conclude con l’arrivo del popolo in prossimità della Terra di Canaan, Mosè che lo ha guidato fin qui per volere di Dio non può più proseguire. Sarà Giosuè a fare entrare il popolo d’Israele. Nel capitolo III di questo libro al versetto 23 (indicato con la dicitura: Dt 3,26) si svolge il drammatico dialogo fra Mosè e Dio. Alle incessanti richieste del profeta il Signore si oppone con veemenza intimandogli di non ripeterle mai più. In italiano il testo è stato tradotto:
Ø Mosè: “Permettimi di attraversare il Giordano”
Ø Dio: “Basta, non parlarmi più di queste cose”.
Ma in ebraico la risposta di Dio, /RaVLaK/, può voler dire: “Basta così”; oppure: “Hai un maestro per te”. /RaV/ vuol dire rabbino, maestro. Ma essi sono anche discepoli poiché in ebraico “saggio” ha due significati: sia maestro che maestro che si riconosce allievo di un altro maestro. Quando nella Toràh si trova scritto che due rabbini stanno viaggiando s’intende che stanno elaborando (Talmùd) sulla stessa Toràh. Nella Mishnàh c’è una discussione tra rabbini intenti ad interpretare questo versetto. Uno sostiene che dopo Mosè ci sarà Giosuè, secondo altri il passaggio che Mosè chede a Dio è gia avvenuto poiché non è da intendere come passaggio fisico di frontiera ma come trasmissione del proprio insegnamento a qualcun altro, cioè a Giosuè. Quindi Giosuè diviene maestro di Mosè che da maestro diviene discepolo. L’insegnamento è sempre un’operazione di cancellazione, di ritrosia, l’insegnamento è tale quando il maestro si ritira ed il discepolo si fa avanti. Il maestro si fa da parte perchè andando oltre occuperebbe lo spazio di chi dovrebbe raccogliere l’eredità del suo insegnamento. Per Maurice Blanchot l’insegnamento è il dimostrarsi di un’assenza di relazione dove l’incommensurabile si fa misura, il maestro deve farsi da parte.
Un rapporto analogo esisteva ad esempio fra Socrate e Platone dove il maestro non dava mai una risposta definitiva ed esauriente ma rilanciava la questione liberando spazio al discepolo che era chiamato a riempirlo. Riguardo ai due rabbini viaggiatori del racconto haggadico (trattato delle feste) di cui sopra essi si trovarono in un villaggio dove vollero parlare con un maestro cieco. E’ il tema della visione, del vedere-essere visto, il maestro cieco dice “Possiate accogliere i volti che non possono essere visti”. I due che sono maestri ma per questo anche discepoli hanno camminato molto e nel senso di halakà hanno lavorato molto sulla Toràh, il maestro e il discepolo hanno tra loro un rapporto di assenza, potremmo dire che i “volti non visti” lo rappresentano a livello materiale. Il discepolo guarda il maestro ma non ne riceve in contraccambio lo sguardo, il discepolo apprende e il maestro offre se stesso. Un maestro cieco al discepolo offre la sua “non captazione” del mondo egli insegna che la propria assenza è la sua relazione col discepolo, perchè il discepolo non deve appropriarsi del modo di conoscere il mondo proprio del maestro, così facendo atrofizzerebbe il suo stesso approccio al mondo. Il maestro indica al massimo grado il modo in cui “non afferra il mondo”, egli indica cioè ciò che non conosce, il maestro deve differire il senso, non lo deve dare. La cecità è si una cancellazione del volto, “il volto che non vede” è si quello del maestro ma è utile a far capire al discepolo che il maestro non è completo e che c’è tanto da fare per rafforzare l’opera, in questa offerta il maestro compie la vera operazione didattica.
Un volto si da o si mostra solo nel suo scomparire poiché lo scomparire è il vero volto del volto, l’autentica epifania del volto. Accogliere i volti dei maestri significa accogliere i volti di Dio. Quest’ultimo, nella tradizione giudaica, è l’ “assente”, il “cieco per eccellenza”, “il grande silenzioso”. Il maestro offre la modalità attraverso cui il discepolo può confrontarsi col mondo. Studiare per rendere saggio il proprio maestro, vuol dire apprendere con l’intenzione d’insegnare.
L’insegnamento passa anche attraverso il silenzio, nel senso di una parola che dice il silenzio e non la semplice assenza di suoni. Nel capitolo XIX del I libro dei Re, versetti 11 e 13 (1 Re,19,11-13) il profeta Elia fugge dalla furia di una regina e si rifugia in una caverna sul monte Orev (Sinai), qui qualcuno apparve e gli disse: “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Dio passò e ci fu vento tra i monti, ma il Signore non era sul vento, poi vennero il terremoto il fuoco, ma il Signore non era tra questi, poi venne un vento leggero ed Elia tornò nella caverna. Fu li che egli incontrò il signore che disse: “Che ci fai qui Elia?”; la traduzione letterale del testo ebraico è “Mormorio di vento leggero, una voce sottile di silenzio” in un ossimoro che riconduce all’assenza, al parlare con voce di silenzio. Poiché la parola deve necessariamente dire, il silenzio di cui si parla indica un qualcos’altro. “Cosa ci fai qui Elia?” /MaH LaK PoH/ analizzato lettera per lettera il versetto potrebbe essere tradotto in “ A te un che cosa”, nel senso della concessione della possibilità di una domanda. Questa voce sottile di silenzio consegna ad Elia una domanda, gli da la possibilità di domandarsi sulla natura di ciò che gli sta intorno, sulla realtà, sul mondo in genere. Il silenzioso passaggio del Signore è passaggio di una domanda. L’insegnamento non è mai la trasmissione di un contenuto, è la trasmissione di una modalità. Nella tradizione giudaica è sempre riaffermato che anche Dio in questo senso non è catturato in un paradigma, Egli è sempre inafferrabile.
Per gli ebrei la questione è “Che cosa intendiamo dire quando parliamo di Dio?”. L’ebraismo, il giudaismo non è religione, non è un credo religioso, è un percorso cognitivo, gnoseologico, è una forma attraverso cui l’uomo s’interroga sul mondo e su se stesso. Noi occidentali non siamo esclusivamente figli di Atene (nel senso strutturale) ma anche di Gerusalemme, lo studio del pensiero filosofico ebraico quindi, presenta una forte esigenza d’indagine delle proprie radici.
La parola Toràh proviene dal radicale biconsonantico
che significa “monte” ma anche “concepire” nel senso fisiologico del termine, “gravidanza”, o ancora “pensiero aurorale”, “iniziale”. La Scrittura fu ricevuta da Mosè sul monte Sinai e affermare che essa è una gravidanza significa dire che il dono della Toràh non è qualcosa definito compiutamente, è il dono di qualcosa che deve essere concepito, elaborato, ciò che è avvenuto sul monte Sinai è l’inizio di qualcosa che ha bisogno di un compimento. Il dono della Toràh è il dono di un percorso aurorale. Il pensiero aurorale porta dentro di sè la necessità di un’elaborazione. Normalmente siamo portati a considerare la Bibbia come un testo immobile, immodificabile, così facendo leghiamo la scrittura. La libertà è limitata e può muoversi soltanto attraverso l’immutabilità del testo che diventa paralisi della comunicazione, quanto più il testo è definito tanto più è
ampio il luogo dell’interpretazione, l’idea della Toràh dev’essere conformata dall’idea dell’ebreo. Se Dio ha parlato attraverso la Toràh allora c’è poco da elaborare, le cose sono queste e basta. Viene avanti il discorso dell’immodificabilità del testo che da spazio, che ha infinite interpretazioni, dobbiamo ribaltare il discorso, tanto più una cosa è strutturata tanto minore è l’interpretato. Questo discorso vale anche per la questione etica dei precetti, proprio perché essi sono tanti la libertà di movimento intorno ad essi è infinita. Quanto più il precetto è definito tanto più l’uomo è libero di attuarlo alla sua situazione di vita. L’acquisizione della Toràh non è paralizzante. Se essa dev’essere conosciuta nei minimi dettagli è solo perchè a queste condizioni è possibile far scatenare i vari significati.Due maestri stavano discutendo le norme secondo cui doveva essere costruito un forno che non contaminasse i cibi, erano in disaccordo ed uno di essi disse “Credo di avere ragione io, e se ho ragione io lo provi quest’albero”. L’albero si sradicò e andò a trapiantarsi da un’altra parte. Gli altri maestri non si scomposero perché un albero non prova niente. L’acqua del fiume iniziò a scorrere al contrario ma anche questa volta i maestri affermarono che ciò non provava niente, lo stesso accadde per le mura che tremarono e per il cielo che addirittura parlò per dare ragione al maestro. I rabbini risposero che la Toràh non è nei cieli, ciò vuol dire che la Toràh una volta donata agli uomini non riguarda più il cielo. Se è affare dell’uomo c’è spazio per l’interpretazione, se accadesse che il discepolo ascoltasse il cielo la sua libertà ne sarebbe inficiata. Neppure Dio può intervenire ed è quindi grande la forza drammatica di questa scena in cui i rabbini gridano contro il cielo. Molto tempo dopo uno di questi maestri incontrò Elia; “Ti ricordi quella discussione? Cosa ha
fatto Dio dopo che i discepoli lo hanno criticato?”, la risposta di Dio fu: “I discepoli mi hanno vinto”. Il fatto che la Toràh non sia nei cieli significa che la Toràh è concepimento, non sono soltanto i significati che vanno estratti ma è il testo stesso che dev’essere elaborato poichè esso non è che la “punta dell’iceberg”. Secondo la tradizione ai piedi del Sinai ad aspettare Mosè c’erano 600.000 uomini ed ognuno ha ricevuto la Toràh in modo diverso. Un testo non dice mai la stessa cosa a due persone. I 600.000 volti della Toràh vanno disvelati. Dice la tradizione che se fosse mancato uno solo di quei volti la Toràh avrebbe avuto un volto in meno, ciò vuol dire che l’interpretazione non è un momento successivo, è il darsi stesso del testo. Riguardo i 48 modi con cui si acquista la Toràh possiamo affermare che acquisizione ed interpretazione sono due momenti che vanno sempre concepiti come un unico movimento. Dire che la Toràh si da significa dire che si da interpretazione. La Toràh che si desse subito sarebbe come un giorno che non tramonta mai, senza movimento, generazione, concepimento. Lo studio è il momento più importante all’interno dell’idea giudaica di interpretazione. I primi tre modi di acquisizione della Toràh sono collegati con gli ultimi tre attraverso una mnemotecnica poichè questi insegnamenti venivano tramandati solo oralmente ed erano difficili da ricordare. Eppure c’è anche un evidente richiamo interno poichè uno studio che non rende saggio il maestro non ha senso. Saggio è un termine che in ebraico utilizza due parole. Si è saggi solo se si è e si continua ad essere discepoli, solo se si ascolta si può ripetere con esattezza. Cosa vuol dire però “ripetere con esattezza”? Forse ripetere le stesse parole di colui che parla? Chi ripete le parole metterà nella ripetizione la sua interpretazione. Quanto più avrà ascoltato le parole del maestro tanto più ci sarà la possibilità della novità della sua interpretazione.
Qual’è la pronuncia corretta di un brano?
La discussione ermeneutica avviene anche su questo. E’ impossibile dire che ci sia una pronuncia corretta in quanto per pronunciare correttamente la Toràh l’attenzione dev’essere massima a causa della mancanza delle vocali nel testo. La pronuncia corretta è l’enunciazione di qualcosa in modo corretto, le opinioni del maestro sono precedute da un lunghissimo elenco di maestri che stabilisce la catena della trasmissione delle interpretazioni. Dire che ognuno di essi ripete con esattezza significa che ognuno dei maestri citati ha messo qualcosa di suo, l’ultimo che parla aggiunge qualcosa di nuovo ad una catena ininterrotta, il cui elemento fondamentale è l’idea di novità che è ḤiDSH
, nuovo, novità, rinnovamento del tempo, del significato. Ma questa radice produce anche un’altra parola HọDeSH, uno dei mesi del calendario giudaico, in cui la luna ha il compito di rappresentare il rinnovamento del tempo. Nei primi versi della Genesi si dice che Dio fece i grandi luminari, la grande luce per illuminare il giorno, il piccolo per illuminare la notte. La domanda che viene posta riguarda il criterio con cui si fa la distinzione, in quelli che sono stati definiti i equamente “grandi luminari”, tra grande e piccola luce. Un’interpretazione haggadica suggerisce che in principio sia il sole che la luna fossero stati creati nelle medesime “grandi” dimensioni, ma poi un litigio tra loro portò Dio a punire la luna rimpicciolendone le dimensioni. La contropartita che Dio diede alla luna per non farla protestare fu l’assegnazione a quest’ultima del compito di rinnovare il tempo, nonostante quindi le sue ridotte dimensioni il compito che doveva eseguire era grande. La similitudine con il discepolo è forzatamente collegata, in quanto anch’egli rispetto al maestro è piccolo ma il suo compito è quello di rinnovare.
4 Il giardino
C’è una parola che chiarisce il senso di questo discorso,
,
: rimuovere. Un’interpretazione che non può rinnovarsi nel senso è fallace. Si potrebbe obiettare che questa libertà interpretativa
concederebbe tutto e tutti i discorsi. Nell’interpretazione ci sono dei limiti, ad esempio l’idea di violenza perchè non si danno interpretazioni che aprono alla violenza. Non si può ricavare nessun insegnamento da ciò che ha a che fare con la violenza. Un’interpretazione non deve mai essere una ripetizione, non deve aderire al testo come se fosse una decalcomania. Quanto più l’interpretazione si approfondisce tanto più il testo è spinto a scomparire, a causa del susseguirsi delle interpretazioni. Ma questo non è un problema perchè tutte sono legate fra loro fino al testo, non c’è mai una scissione, il legame può essere debole o nascosto ma c’è. L’interpretazione scaturisce dal testo a più livelli ed i rabbini ne hanno individuato quattro:
· PSHaT senso letterale
· ReMeZ senso allegorico
· DRaSH senso simbolico
· Sod senso segreto
Le iniziali di questi quattro livelli formano la parola PaRDeS, paradiso, nel senso di giardino, nel quale camminando si scoprono questi quattro sensi.
Esiste nel mondo un pardes (giardino) percorso da quattro sentieri. Il primo sentiero è facile da percorrere, perché chiaro e sgombro da inciampi. Il secondo sentiero è disseminato di indicazioni che fanno seguire una via lunga e piena di giri apparentemente viziosi. Il terzo sentiero ha trentadue diramazioni, che si diramano ognuna trentadue volte e così via all'infinito. Nel quarto sentiero l'intrico dei rami e lo spessore delle fronde lasciano intravedere a tratti sprazzi di luce. Quattro uomini decisero di entrare in questo giardino per percorrere i quattro sentieri. Essi si chiamavano: Ben Zomà, Rabbì Akivà, Ben Azai, Acher. Prima di entrare nel giardino rabbì Akivà ammonì i compagni: "Fate attenzione agli improvvisi sprazzi di luce: sono accecanti. Potrebbero trarvi in inganno e farvi perdere la via
maestra. Ben Azai invece voleva fissare la luce… e ne rimase fulminato. "E' cara al Signore la morte di coloro che lo amano" Ben Zomà guardò la luce con maggior prudenza, ma ne rimase accecato "Quando trovi del miele non mangiarne più di quanto puoi, potresti rigettarlo…" Per poter guardare meglio Acher abbatté gli alberi e… divenne un altro. Akivà percorse il giardino pregando, anche nei suoi punti più intricati, ma quando stava per raggiungere la luce i rami e le fronde gli sbarrarono la strada. "Traimi a te e correremo insieme", disse. E una voce disse: "Lasciate passare quel vecchio perché lui sa come cercarmi." E così Akivà attraversò la luce e imparò quel che il giardino ha da insegnare.
v Ben Zomà era un tannà del II secolo (i tannaim sono i Maestri che ordinarono e compilarono per iscritto la Legge orale, cioè tutte le norme che derivano dalle leggi della Bibbia) e anche lui non arrivò a diventare rabbino, ma nonostante questo di lui è scritto in Berachot 57b che chiunque lo veda in sogno, può sperare di divenire saggio. Molti dei suoi detti divennero proverbi, come ad esempio "chi può sperare di divenire saggio? quello che imlpara da chiunque. Chi è onorato? chi onora il suo prossimo". (Avot 4:1) Fu allievo di Joshua bar Hananià e sappiamo che si dedicò agli studi mistici. Secondo il midrash dopo aver gettato uno sguardo ai misteri esoterici impazzì e dopo pochi giorni morì
v Rabbi Akiva (c. 50-135 e.V.) viene considerato uno dei maggiori Maestri del Talmud del suo tempo e ha avuto un rilevante ruolo anche nello sviluppo della halachà, la legge ebraica.
Rabbi Akiva inizialmente era un pastore semi-analfabeta. A quaranta anni però dedicò se stesso completamente allo studio della Toràh e dopo molti anni di studio divenne un grande Maestro del suo tempo. I principali maestri di Rabbì Akivà furono Rabbi Eliezer, Rabbi Yehoshua, e Nachum Ish Gamzu. Come allievo Rabbi Akiva fu famoso per il suo brillante intuito nel far derivare i principi della legge ebraica dal testo biblico. Il metodo che seguiva rabbi Akivà era che essendo la Toràh una emanazione di origine divina, non contiene niente di inutile o ridondante, ma che ogni singola parola contenuta nel testo, compreso il particolare modo di scrivere una parola nel testo, ha un suo preciso e definito proposito e significato. In effetti è scritto che Rabbì Akiva interpretava perfino il significato dei "taghim", i segni che adornano alcune lettere nei rotoli della Toràh. Rabbi Akiva viene riconosciuto come un maestro della Halacha (la legge ebraica), della Aggadah (l'interpretazione omiletica), ed anche della mistica. Rabbì Akivà fu imprigionato, e quindi venne martirizzato ed ucciso dai Romani perché coinvolto nella rivolta di Bar Kochbà del 132 E.V.
v Ben Azai era un tannà. Visse a Tiberia all'inizio del II secolo E.V., e fu quindi coevo di Rabbì Akivà, di cui era discepolo-collega. Probabilmente fu allievo di Joshua bar Hananià ed era considerato uno tra i grandi Maestri della sua epoca. Morì giovane, senza ancora essere diventato rabbino. Non si sposò mai - e questa era considerata una grave colpa - per non distrarsi dallo studio della Toràh. In Berachot 57b è scritto che a chi compare Ben Azai in sogno, può sperare di raggiungere la santità.
v Elishà Ben Avuyà,
conosciuto anche come Acher (l'altro). Era uno dei grandi dotti del suo tempo, ma poi rinunciò all'ebraismo. Tutto il capitolo 24 del Pirké de rabbi Nathan contiene detti attribuiti a lui. Ci sono varie interpretazioni sulle motivazioni dell'apostasia di Elishà Ben Avuyà. Oltre al pericolo insito nello studio della mistica, secondo alcuni si allontanò
dall'ebraismo a causa della non osservanza delle mizwot, secondo altri invece a causa della cultura ellenistica e secondo altri ancora a causa del fatto che credeva in due esseri supremi e non in un Dio unico. Secondo altri ancora fu negativamente colpito vedendo il martirio degli ebrei durante la rivolta di Bar Kochbà. Il suo discepolo Rabbì Meir che secondo molti era rimasto legato all'ebraismo più volte cercò di fargli fare teshuvà. In punto di morte Elishà alle sollecitazioni di Rabbì Meir scoppiò in lacrime e per questo Rabbì Meir credette che si fosse pentito. La sua personalità controversa (forse a causa di crisi simili a quelle che attraversò e forse anche per la ricerca di nuovi sentieri a cui si dedicò) fu studiata nel periodo della Haskalà, l'illuminismo ebraico, ed ispirò molti racconti storici, romanzi e poemi di quel periodo.
Dire che ci sono almeno quattro sensi significa dire che l’interpretazione non finisce mai di approfondirsi.
Ogni testo va immaginato come se fosse un giardino e l’interpretazione non finisce mai di approfondirsi. Dal primo senso letterale maggiormente aderente al testo ci allontaniamo sempre più fino a quello segreto sviluppato dalla tradizione cabalistica. Il percorso è di lontananza e allontanamento dal testo, distanza che permette una reale autentica interpretazione. Il coinvolgimento interpretativo è importante ma spesso impedisce al testo di mostrarsi realmente, esso non deve mai mescolarsi col testo, va mantenuta la distanza che è rispetto dell’autorità di ciò che il testo dice. La Toràh è qualcosa di altro rispetto all’uomo perchè Dio stesso è altro rispetto all’uomo. L’interpretazione che non si distanzia perde il suo valore. L’interpretazione è la produzione di un nuovo mondo, una nuova realtà. L’idea di rinnovamento del senso è correlata all’idea di rinnovamento-produzione di un nuovo mondo-realtà. Ciò vuol dire che il linguaggio non è uno specchio in cui la realtà si riflette altrimenti non esisterebbe questa produzione. Le parole non riproducono mimeticamente la realtà, il linguaggio non è solo mezzo strumentale, è già sempre interpretazione. Il mondo è fatto di parole perciò ogni rinnovamento del senso è creazione di un nuovo mondo fatto di combinazioni diverse di parole. Il nostro essere è linguistico, siamo parola il mondo è parola. L’interpretazione rabbinica non appartiene all’ordine del sapere nel senso stabile e monolitico del termine, è l’ingresso in un processo di creazione che passa attraverso il rinnovamento e la trasformazione (HDSH). L’identità è narrativa ed è sempre ermeneutica, interpretativa, è un farsi, non un qualcosa di dato, è sempre ricerca. L’identità perciò è sempre assenza d’identità. Quest’identità è una ricerca, che si da come assente e non come presenza, altrimenti non la cercheremmo. La letteratura rabbinica si situa nel punto in cui si intersecano le varie e diverse interpretazioni. L’interpretazione talmudica è la produzione di una distanza, di una differenza, di uno scarto, ma ciò non significa per l’ebreo che l’interpretazione può dire ciò che vuole, anzi è proprio l’immutabilità del testo scritto che permette questa piena e infinita libertà interpretativa. Ciò è permesso dall’immutabilità del testo scritto, col conseguente imporsi della necessità della salvaguardia del testo. I Maestri /SoFRiM/SeFeR hanno il ruolo di garantire questa immutabilità del testo, essi hanno contato gli elementi discreti della Toràh, finanche le parole e le consonanti .
(contare) è la radice della parola che indica i maestri, essi contarono l’intero Pentateuco e stabilirono che si compone di 669 paragrafi, 5854 versetti, 79976 parole, 304805 consonanti. Divisero il numero delle parole a metà per cercare il centro che cade nel XVI cap. del Levitico. Nella traduzione italiana si dice “Bruciato...|...allora”, ma nel testo ebraico cade tra /DoReSH/ e /DaRaSH/, ovvero, “il capro espiatorio cercato...|...ha cercato”. Per due volte viene ripetuta la stessa radice
.
√שןד...|... √שןד , ciò vuol dire che il cuore della Toràh è un invito a cercare, interpretare, nel senso forte. La MiDraSH è un testo interpretativo narrativo, una spiegazione che racconta il senso. Ed il cuore della Toràh è un invito a cercare dove due parole identiche vogliono dire “interroga”, “cerca”. E ci dice che anche l’interpretazione e le parole sono dentro la Toràh, non seguono mai il libro, non vengono dopo come sua possibilità accidentale, virtuale, ma provengono, fanno parte, sono forse il libro stesso, è la struttura stessa del libro. Il testo è la sua interpretazione, non si da un’interpretazione successiva al libro, il testo è nella sua struttura interpretativa. I Mastri non si accontentarono di questa prima interpretazione del centro fra le parole. Il centro in realtà cade nel vuoto fra i due termini e la prima e ultima lettera prima di esso sono : DoRe
SH...|...
DaRaSH, SHD che a seconda della vocalizzazione sarà :
SHaD che significa due cose, uno degli importanti nomi di Dio di cui i Maestri dicono che è formato da un’unione di consonanti compiuta da noi, è un nome scritto e non scritto, è un nome che si impedisce di scrivere. E’ qualcosa che c’è e non c’é, visibile ed invisibile. L’altro significato indica il seno femminile ma in un senso particolare. Quando, coperto da un velo, intravisto, mostra la sua carica erotica, quando viene percepito ma non visto, anche quì quando c’é e non c’é, tema, quello dell’unione fra il visibile e l’invisibile caro alla letteratura ebraica.
SHeD che significa demone.In greco si dice διαβολος , /diabolos/, frutto dell’unione di dia-bolos che indica il separare, il diavolo è il separatore. Contrapposto c’è il sim-bolo,συμβολος che è unione. Un’interpretazione infatti è sbagliata quando separa, giusta quando unisce, non possiamo strappare una parola, un versetto, un paragrafo dal testo pretendendo di ricavarne il senso complessivo dell’intero testo.
SHoD che significa furto. Dicono i Maestri che non ci si appropria dell’interpretazione di qualcun’altro spacciandola poi per propria poiché anche questo è un atto diabolico.
Nel mezzo della Torah c’è un taglio, una cesura, una circoncisione, MiLaH che significa anche parola. Ogni parola è sempre circoncisione dicono i Maestri, anch’essa fu circoncisa. Quando Dio consegnò la Torah a Mosé il rotolo presentava tutte le consonanti attaccate, senza alcuna separazione fra parole, com’era pratica diffusa un tempo. La prima indicazione sull’importanza dell’interpretazione è già nell’atto originario di Mosé che circoncide, interpretandole, le parole.
Questa pratica ha un valore simbolico cultuale molto potente per gli ebrei .Praticata sul neonato dopo otto giorni dalla nascita è l’atto che simbolizza meglio l’appartenenza del bimbo al popolo d’Israele. La circoncisione è l’unica pratica fisica che si fa una volta sola e che rimane per sempre, qualsiasi altro segno che viene fatto sulla carne viene fatto scomparire e deteriorato dal tempo. Tuttavia non è nell’ebraismo che sta l’ebreo o nell’essere circoncisi ma nel nascere da una donna ebrea poiché la discendenza è matrilineare. E’ quindi il fattore femminile a caratterizzare l’identità in senso stretto.
La circoncisione da avvio all’esistenza storica dell’individuo, in quel momento gli viene assegnato il nome segreto ed il nome comune. Segna il passaggio dallo stato naturale a quello storico per il bimbo, mentre per la bimba questo inizierà con la maternità. La circoncisione è l’inizio del racconto, il suo essere storico comincia con un taglio, una cesura (come l’idea lacaniana del soggetto sbarrato). Il taglio è l’inizio della storia dell’individuo, della parola della Torah, che potrà essere interpretata a partire dalla circoncisione delle parole fatta da Mosé.
Un’Ur-text è un testo originale che si presenta così come lo ha scritto l’autore. E il sogno di ogni filologo è realizzare un’Ur-text della Bibbia. Questo desiderio di ciò che non si ha non potrà mai essere appagato sia perché l’autore in questione è Dio ma anche per ragioni di natura tecnica
La Toràh ha più edizioni, che conservate in luoghi diversi ci sono pervenute. Le edizioni su cui si basano maggiormente gli interessi degli studiosi sono quattro e vengono denominate “codici”.
I quattro codici sono:
- il “B19A”, manoscritto copiato al Cairo nel 1008 e ora custodito nella biblioteca di Pietroburgo (ex Leningrado) è il più antico manoscritto completo e datato. Nel 1929 gli editori della società biblica di Stoccarda lo sostituirono al testo e all’apparato masoretico, curati da Yaaqov ben Chayyim e pubblicati a Venezia nel 1524-25 da Daniel Bomberg nella Bibbia rabbinica. Diventando quindi il testo più diffuso (textus receptus).
- il “Codice di Aleppo”
- quello del “Cairo”
- il “445”
Il codice del “Cairo” ed il “445” sono i testi più antichi ma sono incompleti e vengono tradotti in molti modi. La traduzione latina, la Vulgata di Girolamo, presenta ad esempio il problema di inficiare la reale validità del testo.
Gli ebrei di Alessandria da secoli a contatto con la civiltà ellenistica avevano costituito una loro Bibbia in greco più amplia di quella ebraica. Alla base del cosiddetto canone alessandrino sta il cosiddetto canone biblico che fu eseguito ad uso delle comunità greche nei secoli III-I a.C. e che, dal numero dei traduttori tramandato da una leggenda, fu chiamata dei LXX. Secondo questo racconto i maestri si chiusero in settanta celle diverse per scrivere il testo autonomamente. Quando uscirono tutti i testi coincidevano. La Bibbia greca, oltre a quelli della Bibbia ebraica, comprende libri scritti in ebraico o in aramaico ma trasmessi solo dalla versione greca e libri scritti forse in questa lingua. Il problema principale in questo caso è l’assenza del testo originale che permetta un confronto. Il testo dei Settanta era considerato uno dei più antichi. Ma nel 1947 nella zona del Mar Morto, un giovane pastore arabo di 13-14 anni, tale Mohammad conducendo il gregge a pascolare perse una capra. La seguì inerpicandosi su una collina di pietra e poichè gli era impossibile raggiungerla sù per la roccia, iniziò a lanciare pietre per farla scendere. Una di esse entrò in una fenditura e s’udì il rumore di cocci infranti. L’arabo curioso andò a casa per tornare con i parenti, questi lo calarono imbragato giù per la fessura. Nell’antro trovò delle giare che contenevano rotoli antichi. Purtroppo molti preziosi documenti bruciarono nel fuoco della minestra, i suoi parenti non seppero riconoscerne subito l’autentico valore e solo in seguito cercarono di vendere le pergamene agli antiquari israeliani. Uno di essi iniziò ad interessarsi ai rotoli quando ne scoprì l’effettiva validità e valore, la notizia iniziò a viaggiare per mare e per terra. Si dice che ci fu addirittura un interessamento della CIA. In seguito ad altre spedizioni nel deserto si scoprirono 14 grotte con i resti di ciò che un tempo era forse un monastero. Il sito fu abitato da un gruppo di ebrei, contrario al governo degli Asmonei, che avevano scelto la via del pietroso deserto a quella della lotta politica. Erano dediti alla copiatura e al commento dei rotoli ed inoltre composero un’autobiografia. Nacque così probabilmente la biblioteca di Qunram dove sono stati ritrovati testi biblici in ebraico, molto frammentari e in parte ancora non adeguatamente pubblicati, databili fra il III secolo a.C. e il I d.C.
I rotoli del Mar Morto non costituiscono l’intera Bibbia e l’unico rotolo completo è quello di Isaia, è rimasto qualcosa di Ester, un libro di Isaia diverso e quasi una manciata di parole per ogni argomento biblico. I testi
di Qunram vengono numerati con la seguente notazione: 1Qגs, 1 è il numero della grotta, Q per indicare Qunram, גs sta per Isaia.
Il libro di Isaia di Qunram è identico al codice B19A e ciò fa sperare nella validità del testo conservato a Leningrado. In “Isaia” c’è un versetto usato anche dai cristiani nelle liturgie che precedono il Natale, parla della voce di uno che grida nel deserto e di preparare le vie del Signore. Ma per gli abitanti di Qunram il significato era diverso:”Voce di uno che grida: nel deserto preparate le vie del Signore”.
Secondo una tradizionale prescrizione rabbinica i vecchi rotoli logorati ed inutilizzabili non vanno distrutti; bisogna sotterrarli in appositi luoghi nei cimiteri o stipati in un ripostiglio, Demiza, della sinagoga. Nella vecchia Sinagoga del Cairo furono trovati centinaia di rotoli piuttosto rovinati, quest’ingente patrimonio di documenti modificò il corso della critica biblica. Fra il cento ed il duecento d.C. fu definito con precisione il canone biblico scegliendo i testi da includere e scartandone altri. Fu in questo momento storico che i rabbini decisero di inserire le vocali nel sistema di scrittura giudaico, il sistema vocalico fu detto Tiberiense e permette, al pari del lavoro dei SoFRiM di conservare il testo senza alterarlo.
Quanto più il testo è vicino all’origine tanto più è puro. Probabilmente l’ordine sincronico di apparizione dei libri nella Bibbia non è quello diacronico della loro scrittura. La filologia è una disciplina moderna, nacque in Europa nel Rinascimento ma non è un metodo d’indagine che interessa ai rabbini. Nel corso del XX secolo alcuni hanno ipotizzato che l’esegesi testuale non sia un aiuto quanto piuttosto una difficoltà, l’esegeta sarebbe un bimbo che smonta un trenino elettrico. Tentare di ricostruire un testo originario senza averlo sotto gli occhi è un presupposto ideologico secondo cui esisterebbe originariamente un testo “puro” che la tradizione successiva modificherebbe nel tempo. Il problema è che sono queste “modifiche” a far vivere il testo nelle successive interpretazioni. San Gregorio Magno disse che la scrittura cresce insieme a chi la legge, essa pur nella sua immodificabilità non è mai la stessa nell’interpretazione. Il problema filologico non è posto dai rabbini, piuttosto la loro attenzione è per un textus che è un di più di parole nel senso che esse possono essere capite solo attraverso altre parole, se ne aggiungono quindi sempre di più. L’alfabeto e la lingua ebraica sembrano prestare il fianco a questo tipo di lavoro, in un certo senso sono qualcosa in più di una lingua poiché non si limitano a veicolare un significato, non sono mai la traccia di qualcosa che sta prima di se, il gioco è tutto all’interno della lingua. L’ebraico fa parte delle lingue semitiche che in passato (X secolo a.C.) erano tre: arabo, ebraico e amarico (etiopico). All’interno dell’ebraico è germogliato l’aramaico, un dialetto che dal V secolo a.C. è il parlato dell’ebraico, in questa lingua fu scritto il Talmùd babilonese. Ebraico ed aramaico nel medioevo dopo la diaspora smettono di essere lingue vive fino alla rinascita intorno al 1870 ad opera dei movimenti sionisti. Nasce così il neoebraico parlato nello stato d’Israele che ha come base l’ebraico biblico.
La circoncisione è la pratica che genera l’inizio, essa è all’inizio della possibilità di leggere un testo, quindi del processo ermeneutico. La parola è lo scioglimento di un discorso che ritorna al proprio inizio per scoprire un vuoto che è del desiderio stesso. IVRI in ebraico significa appunto “ebraico”, “ebreo”, dalla radice √רכץ, che può essere reso anche àVaR (passato), ùVaR (embrione), èVeR (passaggio). I quattro termini hanno tra loro un forte legame strutturale, Abramo è definito IVRI perché andava sempre dall’altra parte. Leggere è sempre risalire indietro, in greco questo verbo si dice άναγιγνώσκειν /anaghignoskein/, dove /ana/ è un movimento di salita e /ghignoskein/ è l’atto del conoscere. Riconoscere, cioè tornare a conoscere qualcosa
che è già conosciuto, questo è il senso di una risalita su un sentiero già percorso. /ana/ è anche un nuovo inizio di qualcosa e se c’è un nuovo inizio è perché si torna su qualcosa che in realtà è un inizio sbarrato, assente, schermato da un velo che nasconde quell’origine da cui si proviene ma che non si afferra. Come il velo che nel Tempio di Gerusalemme nascondeva il luogo più intimo. L’edificio era costruito come le scatole cinesi e nel luogo più inaccessibile forse era custodita l’Arca dell’Alleanza. Ezechiele (44,15-51) indicò le norme di purità per il sacerdote che si accosta all’altare, quando il sacerdote varcava il limite dell’atrio interno, cioè l’accesso alla parte più sacra del Tempio, doveva togliersi di dosso le vesti profane e cingersi di vesti sacre. Dopo il rito doveva lasciare le vesti sacre all’interno della parte più sacra del Tempio, per non contaminare il popolo con la sacertà di cui si era caricato durante il servizio liturgico. Probabilmente dietro questo velo non c’era niente e proprio per questo il luogo che celava era così importante ed inaccessibile, solo al gran sacerdote era concesso di oltrepassarlo una volta l’anno. Pare che alla morte di Gesù il velo del Tempio si squarciò. È questo un luogo simbolico della fondazione del Tempio.
Nella Genesi un passaggio aiuta a capire il senso della lettura come risalita verso l’assente. I figli di Noè nella tradizione sono i capostipiti di tre popoli. Sem del popolo semitico, Cam degli egizi e Yafeth del popolo greco. Si narra che Noè piantò una vigna, produsse vino e si ubriacò, addormentandosi nudo nella sua tenda. Cam lo vide e andò a raccontarlo ai fratelli (Genesi 9, 23), i quali camminando a ritroso ricoprirono il padre con un mantello. Il padre è l’origine e ciò che è stato tradotto con “mantello” è in realtà un grande camice chiamato SiMLa(H), infatti Giuseppe indossa camici diversi ogni volta che accade qualcosa di nuovo. SiMLa(H) deriva da
√SeMeLche significa “simbolo”. Sem e Yafeth si caricano il simbolo sulle spalle e camminando a ritroso coprono la nudità del padre, i cui genitali rappresentano l’origine da cui i figli sono nati, c’è un ulteriore avvicinarsi a qualcosa che tuttavia rimane inaccessibile. Camminare a ritroso
√aHoRaNiT deriva dal radicale trilettere
√’aHaR che significa “altro”, “ultimo”, “ritardo” e Sem e Yafeth camminano a ritroso verso l’origine. Poiché retrocedere è sempre un movimento di fronte a qualcos’altro essi camminano in ritardo, dopo, successivamente al loro essere stati generati, la lettura è anche il movimento che si compie dopo la scrittura e che ci precede. L’origine è anche la meta che si guadagna alla fine, che è raggiungibile solo camminando a ritroso, non vedendola la si raggiunge non raggiungendola, nell’impossibilità di impadronirsene. Se il testo in qualche modo è una nudità allora la lettura di Cam è violenta, così come è cruenta la sua appropriazione del testo similmente efferata sarà la sua morte. Tutto avviene nell’avvolgersi nel mantello del simbolico, mai nella pura letteralità. L’origine va coperta perché la vera lettura non pretende di scoprire esaustivamente ma cerca di mantenere aperte altre possibilità d’interpretazione, lo copre col mantello di simboli per proteggere il testo e rendere possibili ulteriori future interpretazioni. L’ermeneutica s’interroga sull’intenzione autorale: cosa voleva dire l’autore? La lettura si occupa del testo, non di ciò che viene prima, ma anzi ciò che gli è successivo: l’interpretazione, che ha un senso solo se mette in movimento lo scritto. Non è mai una ripetizione dello scritto ma una modalità di trasformazione.
La Bibbia ebraica viene chiamata anche MiQRaH che letteralmente vuol dire “lettura” e deriva da √QaRaH che significa “leggere” ma anche “chiamare”, “invocare”. La MiQRaH è il luogo dell’invocazione della lettura, essa non si da senza lettura poiché non potrebbe esistere senza.
“
All'inizio Dio creo' il cielo e la terra.”
Nella tradizione giudaica ogni parola, ogni lettera è il mondo. MiQRaH è uno degli appellativi della Bibbia ebraica. Col significato di lettura perchè è da sempre un testo che esiste solo nelle sue interpretazioni-letture.
I primi versetti del libro della Genesi si occupano di creazione d’un senso, di un’interpretazione, è possibile ritrovare punti in comune fra la creazione o meglio la creazione di un senso, di un uomo che si incontra-scontra con questo testo. Anche se appare per primo, questo libro non fu il primo ad essere scritto, è una composizione di documenti appartenenti ad epoche ed ideologie differenti. E’ evidente che il testo è influenzato da tradizioni mitologiche e religiose delle coeve culture di popoli vicini, come “l’epopea di Gilgamesh”.Tuttavia tralasceremo l’indagine storico-antropologica per trattare il testo sincronicamente. Intorno alla seconda metà del ‘700 Velauzen elaborò una teoria esegetica della Bibbia ebraica tutt’ora seguita, seppur modificata con la lentezza propria dell’indagine, dagli esegeti accademico-scientifici. Egli si accorse che era possibile identificare da alcuni dei nomi di Dio le tradizioni testuali. Due di questi nomi ricorrono con frequenza nel Pentateuco:
· Iavista dal nome YHWH
· Eloista dal nome ELoHiM, che è un nome plurale come indica il suffisso – iM.
Le due tradizioni sono state fuse da quella sacerdotale che si indica con “P”, da “priester”, sacerdote. Altri menzionano anche una quarta tradizione quella dei Deuteronomisti.
Un testo biblico non è mai il risultato di un autore che scrive un intero documento ma il risultato di più tradizioni armonizzate e unificate. Perciò la Bibbia ebraica non può leggersi con la stessa linea interpretativa della lettura di un’opera di cui conosciamo l’autore, è un testo fatto da più brandelli, nomi, menti. Non dobbiamo quindi meravigliarci delle contraddizioni fra versetti. La Genesi dell’uomo, per esempio, è raccontata due volte, probabilmente sull’argomento esisteva più di una tradizione e qualcuno anzichè scartare decise di metterle insieme. I maestri non si domandano quante tradizioni ci sono o perchè esistono due racconti della creazione, se la Toràh è stata consegnata da Dio a Mosè sul Sianai c’è un senso che va aldilà della natura semplicemente scientifica. Loro cercano un senso ricondotto alla consegna sul Sinai, la scrittura è densa di significati che l’uomo deve tirare fuori. Il Cantico dei Cantici ad esempio è ritenuto dai filologi un “centone”, un testo fatto di citazioni unite da versetti “gancio”. L’attitudine dei maestri è diversa. Il libro di BeReSHiT (tutti i libri in ebraico hanno per titolo la prima parola del testo stesso) nella versione greca dei settanta del III secolo d.C. inizia con ̉Eν άρκή/ ‘in principio… creo i cieli e la terra’. Non è chiaro però cosa il termine ebraico BeReSHiT voglia indicare, nel tentativo di comprenderlo procederemo come (con) i maestri.
Nella riflessione rabbinica la prima parola della Bibbia: “תישארב” ha una particolare importanza. I maestri si chiesero per quale motivo la prima lettera del testo sacro è la seconda dell’alfabeto ב / bet e non la prima א / alef. Una delle ragioni è che la bet (vedi figura a lato) è una lettera chiusa che impedisce di guardare cosa c’è prima, sopra e sotto, è l’inizio della storia poichè possiamo cercare solo a partire dalla creazione, non possiamo sapere cosa c’è prima. Nessun linguista si porrebbe mai quest’interrogativo sul senso della prima lettera, la domanda non appartiene al senso della ricerca scientifico-moderna. Ciò deve spingerci a cogliere queste domande come appartenenti ad un’identità altra. Il “principio” per i Greci è
arkè, fondamento. La nostra forma mentale occidentale appartiene alla tradizione greca, tale domanda ci è estranea, ci appartiene piuttosto l’interrogativo: “cos’è l’
arkè?”.
L’ultima lettera della prima parola è l’ultima lettera dell’alfabeto: ת / taf; unendola alla prima otteniamo √תב , BaT/figlia. Qui s’impantana la discussione dei maestri: chi è costei? C’è un principio femminile che forse trova la prima risposta nella creazione dell’uomo e della donna. C’e un’apertura nella lettera bet, verso
sinistra, la direzione di lettura dell’ebraico. Essa è orientata, come lo è anche tutta la creazione, verso Es 20, laddove Dio consegna a Mosè le dieci Parole, verso il luogo della rivelazione sinaitica. Nell’autodichiarazione di Dio al Profeta ritroviamo l’alef: ינא/ ‘anì, ‘Io sono’. Tutta la creazione è orientata quindi verso un momento altrettanto importante, la rivelazione, laddove Dio dice “Io sono”. La rivelazione è presente nella creazione come assenza: c’è una bet, deve esserci dunque un’alef. Dice un principio rabbinico che nella Bibbia non c’è un prima e non c’è un dopo. Spesso un evento viene spiegato tramite un’altro evento ad esso posteriore, mettendo in crisi il nostro principio di causalità. Nella consegna della rivelazione non c’è tempo, le parole furono “circoncise” dopo. La Toràh è fissata su due rotoli, quando viene usata su uno s’arrotola ciò che c’è già stato, sull’altro si srotola ciò che non c’è già stato. Solo Dio potrebbe avere una visione sinottica dell’intero rotolo, noi siamo nella dimensione del tempo.
“תישארב” , BeReSHiT , contiene in se “שאר” che significa ‘testa’/RoSH. Diventa quindi “con una testa”, significato che rimanda non solo ad un individuo ma soprattutto a “con un volto”, istituendo così immediatamente uno spazio relazionale. Il volto creato è un volto immediatamente dialogico in quanto volto che può interloquire. Una dimensione dialogica di parola, di discorso che avviene parlando. La creazione è da subito sia l’opera di una parola, sia l’opera di una parola che crea la possibilità di parlare (opera parlante). Dio crea attraverso la parola, il suo parlare non è accessorio nè strumentale, è autoperformativo. Il verbo che noi traduciamo con “dire” è il verbo aMaR che non scaturisce dal radicale Dibber (parlare).
Secondo un racconto il mondo è stato creato con dieci Ma’aMaRoT dove oT è un sostantivo femminile plurale, iM è un sostantivo maschile plurale. Nella seconda frase della Genesi si legge: il Signore disse (in ebraico VaioMeR) dieci parole. Il verbo parlare espresso da √DiBBeR non appare fino a Genesi 8,15, quando si racconta la fine del diluvio. Li si legge, nella traduzione italiana: <<Allora Dio ordinò a Noè: “Esci dall’Arca …”>>; è interessante notare che la parola ebraica TeVa con cui si traduce Arca può significare anche parola, come se Dio abbia detto a Noè d’uscire dalla parola. Per gli ebrei “Egli (Dio) ha creato come ha parlato”, cioè le prime parole della Toràh, (A)BR/C/DBR, che messe insieme formano la parola magica, gioco di prestigio compiuto da Dio per creare il mondo: ABRaCaDaBRa.
In principio Dio era solo e quindi crea nel parlarsi. La creazione avviene dal nulla, come sottolineato dal termine /BaRa’/, ארב, e si perpetua nel senso degli innumerevoli “et” che introducono i complementi oggetto nel testo. “et” è formato da תא, cioè da “alef” e “taf”, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto, dal punto di vista linguistico sono contenuti dall’intero alfabeto, tra la prima e l’ultima lettera Dio crea.
Zain
Pronuncia: Z morbida.
Esempio: ZMAN (tempo)
Il valore numerico (Ghematria) della Zain è 7.
La lettera ZAIN rappresenta spirito, sostentamento, lotta.
Il valore numerico di ZAIN è sette. Come tale, la lettera denota i valori spirituali che erano alla base della Creazione. Dio creò l'universo in sei giorni, ed il
settimo giorno si riposò. Lo
Shabbat rimane l'eterno ricordo che l'universo non potrà durare se non sarà continuamente permeato dagli aspetti spirituali rappresentati dal numero sette, che e’ in se il simbolo dell'essenza di Dio. (
Maharal)
Nel sistema decimale, che è il sistema di conteggio della Toràh, il numero uno ed il sette sono, tra le prime dieci cifre, gli unici che godono delle seguenti due proprietà: 1. Sono numeri primi e, contemporaneamente, 2. non sono un fattore primo per nessun altro numero tra uno e dieci. (Harav Ezriel Munk)
Il 7 è il numero della totalità, è il numero della creazione, delle braccia della Menoràh il candelabro, indica qualcosa che è compiuto perciò si sottintende che all’inizio fu creato tutto.
La Toràh fu scritta con fuoco nero su fuoco bianco ed è stata creata insieme al mondo, essa fu creata in principio ed appartiene al creato. È piena, satura, così come le sue interpretazioni sono strutturalmente infinite, è una totalità, un tutto compiuto “infinito”; è infinita perché infinito è il suo creatore. Levinas titola una sua opera “Totalità e infinito”, in cui distingue i due termini. Se la Toràh appartiene a quella completezza, essa riflette il suo stesso creatore, ed infinita perché infinite sono le sue interpretazioni, infinito è il suo senso.
Rabbi Shim’on Ben Laqish disse che la Toràh data dal Santo a Mosè è fuoco nero su fuoco bianco. La parola “fuoco” è rintracciabile in BeReSHiT: “תי/שא/רב”, שא, ‘eSh; le due lettere sono Shin, penultima lettera ed Alef, la prima. Nella Toràh sono contenute le infinite interpretazioni ed esse tuttavia ne rimangono fuori poiché spetta all’uomo interpretare, come se fossero contenute nel testo in potenza infinite e virtuali interpretazioni; come se la chiusura del discorso, l’apposizione dell’ultima lettera dell’alfabeto, spettasse all’uomo. Chi risponde a Dio è investito dalla responsabilità del discorso.
Le interpretazioni della prima parola dispiegano tutta l’interpretazione della Bibbia e la tradizione talmudica ha compiuto questo lavoro su tutte le parole del Pentateuco, rispondendo per altro al dettato ermeneutico della Toràh stessa. Rashi fu fra i più importanti commentatori del Talmud, visse intorno al 1000 nel nord della Francia e fu rappresentante della scuola renana. Il suo nome è l’acronimo di Rabbi Schlohom Ben Itsaq, cioè Rabbi Salomone figlio di Isacco. Egli spiegò il senso letterale di tutte le parole e tutte le bibbie rabbiniche portano il suo commento normativo, inoltre la sua scuola influenzò anche la scrittura dei caratteri ebraici, tant’è che il moderno corsivo si ispira a quei caratteri. Disse a proposito di BeReSHiT che il suo unico significato non letterale è “interpretami”, imperativo che si riferisce a tutto ciò che segue nella direzione della lettura e
dell’interpretazione. Ogni volta che nella Bibbia c’è un fuoco bisogna prestare attenzione. In questo testo l’ebreo non coglie solo le indicazioni etiche ma anche il suo atteggiamento ermeneutico sul mondo, il suo percorso conoscitivo. È un ipotesi di progetto sull’umano poiché fornisce l’idea di un uomo ermeneutico, che interpreta. Se l’uomo è costitutivamente interpretante allora non ha un’identità definibile, si potrebbe dire che l’identità dell’uomo della Toràh sia “cercare l’identità”. L’identità non è mai data ma è da costruire nel legame fra il piano del sapere e il piano dell’agire in quanto non si da un sapere che non sia anche un fare. Possiamo cogliere un interessante aspetto di differenza fra la cultura greca e quella ebraica nelle figure di Abramo e di Ulisse. Dio dice ad Abramo di partire dalla sua casa verso un luogo non definito, che non gli viene rivelato, che dunque non conosce. Ulisse invece nel suo viaggio (Odissea) parte da Itaca per tornarvi con un pellegrinaggio circolare, sa di far ritorno e questa è la sua identità. Il viaggio di Abramo non è quello della partenza poiché egli rischia la sua identità, va via da Ur dei Caldei, la sua terra, sapendo solo una cosa: il luogo che lascia non sarà la meta del suo viaggio, la terra del suo ritorno. Quest’idea di percorso senza meta precisa, permea fortemente l’ebraismo ed è ricorrente in differenti racconti della Bibbia associata spesso al deserto. Questo è il luogo per eccellenza del Pentateuco, dove non ci sono punti di riferimento, dove si è in balia e si dipende da ciò che è intorno, è il luogo in cui la voce risuona con chiarezza, è il luogo del silenzio, della
riflessione. In ebraico si usano diverse parole per indicarlo fra cui MiDBaR/רבד׳מ, da cui risulta la radice: רבד/√DVR
che significa ‘parola’ o ‘cosa’ e che è un complemento di moto a luogo. Il deserto, che nella nostra cultura evoca il silenzio, per gli ebrei è il luogo della parola poiché lì essa risuona con maggiore intensità rispetto ad altri luoghi. Ogni volta che tutto scompare bisogna prestare maggiore attenzione poiché anche lì c’è qualcosa che bisogna indagare.
Quella del principio è la questione dei volti legata alla traduzione di BeReSHiT: “Col volto Dio creò il cielo e la terra”, che non è una traduzione letterale ma testuale, è un discorso etico posto al centro dell’attenzione dai maestri. A causa di ciò il racconto della Genesi, pur avendo assonanze con i miti della creazione si svincola da qualsiasi presa mitologica, inoltre siamo in un orizzonte culturale che nulla condivide con quello greco. Il piano etico è un punto di differenza sostanziale-strutturale, nella creazione del mondo Dio stabilisce una sorta di relazione paritaria con la sua
creatura pur non negandone la dipendenza. Ma laddove riconosciamo una subordinazione naturale-concettuale non ne consegue che il ruolo dell’uomo nella creazione sia non paritario rispetto al suo Creatore. Il signore si è trasmesso-coinvolto nell’opera della sua creazione fino al punto di consegnargli il suo stesso destino, qualità speculativa questa che difficilmente altre teologie hanno raggiunto. Anche il destino di Dio è appeso alle scelte ed alle azioni dell’uomo. Aristotele diceva invece che la divinità è divisa, non coinvolta con l’umano, ed il divino è tale proprio perché non si mescola. Dio per l’ebreo invece si consegna nella sua creazione fino al punto da permettere alle sue creature di decidere il suo destino. In Isaia 42,12 Dio dice “Io sono Dio, voi siete i miei testimoni”. Nel significato che Egli sarà Dio finchè gli uomini saranno suoi testimoni. L’idea che la creazione sia il frutto di un coinvolgimento di Dio è stata tanto indagata dal pensiero ebraico da condurlo su crinali pericolosi: se l’uomo decidesse di annientare tutto anche Dio sarebbe annientato. Il fatto che la Genesi sia la proposta di un percorso etico a dire dei maestri dovrebbe sgombrare il campo da questioni filologico-scientifiche come quelle di possibili allacci ad altre tradizioni culturali. E’ piuttosto un percorso di tipo identitario, una certa costruzione dell’identità, si tratta di costruire l’umano, verificare qual è l’ipotesi d’uomo avanzata nella Genesi. Pur narrando la storia della formazione del popolo ebraico ciò che questo libro propone non è un’ipotesi sull’ebreo, il testo si sottrae ad un orizzonte etnico, storicamente e culturalmente determinato, è un percorso universalistico che riguarda tutti gli uomini. Leggendo i primi versetti ci si chiede dove sia questa idea d’identità poiché solo apparentemente essa non è presente, eppure in BeReSHiT compare già tutto ciò. Poiché nella Scrittura non c’è un prima e non c’è un dopo e poiché ogni parola ed ogni lettera devono poter contenere tutta la Scrittura, lettura e interpretazione del testo sono infinite ed esso ha 600.000 volti, tanti quanti gli israeliti ai piedi del Sinai. Nel Deuteronomio si
afferma inoltre “La Toràh è stata donata a voi oggi, ma anche a chi verrà”. Essa quindi è stata donata a tutti, ed ha un numero incalcolabile di interpretazioni ricavabili. Tuttavia la tradizione ebraica non afferma che ogni lettura è legittima e libera. I 48 modi in cui si acquisisce la Toràh sono precisi e non ce n’è nemmeno uno che si riferisca al singolo individuo strappato al contesto poiché fanno sempre appello alla presenza dell’altro. È un’interpretazione che abbisogna strutturalmente del rapporto dialogico, con un altro che interviene strutturalmente e non accidentalmente nella costruzione dell’interpretazione. Un altro limite ad esempio è il rigetto dell’autorizzazione alla violenza sull’altro. I maestri non danno spiegazioni forzate poiché l’interpretazione diverrebbe astratta (da
abstrao/ ‘tirare fuori’). Per quanto essa sia raffinata non deve mai essere astratta, altrimenti si tirerebbe fuori, l’interpretazione è sempre frutto dell’esperienza. Proprio nelle pagine in cui la speculazione è vertiginosa e sembra lontana dal testo si annida la concretezza ed esperienzialità dell’interpretazione. Il senso è la storia di un’esperienza ermeneutica, del farsi, del costruirsi di un senso. Il Talmùd si è si chiuso intorno al VI secolo, ma non si è concluso, poiché quando i maestri lo interpretano esso cammina ancora, non s’interrompe, come una frase che non finisce mai. Negli anni settanta Roland Barthes affermò che c’è nel linguaggio l’esperienza di una struttura infinita, e la frase ne è l’esempio. Una frase può essere riempita all’infinito e se nell’esperienza linguistica concreta fermiamo queste frasi è unicamente a causa di contingenze e mai a motivo della loro struttura, in quanto nessuna legge linguistica lo impone. La frase potrebbe essere aperta all’infinito. Le chiusure sono motivate da ragioni fisiologiche, così come fisiologica è la divisione del dì in giorno e notte, quest’ultima limitazione è necessaria alla creazione ma la prima è necessaria ai nostri discorsi
Non c’è una verità unica nei discorsi fra maestri, ad esempio la scuola di Hiller e di Shammai s’impantanarono per più di due anni su un punto della discussione; decisero così di chiedere consiglio al cielo. La risposta fu “Le parole degli uni e degli altri sono parole del Dio vivente”. Non c’è dunque una verità, esse sono entrambe vere perché sono prodotte da due scuole, perché scaturiscono dalle discussioni fra maestri e discepoli, non dalla solipsistica lettura. C’è un criterio che sopravanza gli altri: la verità è dialogica. In ebraico verità si dice ‘eMeT/
, questa parola è costituita dalla prima lettera dell’alfabeto, da quella mediana e dall’ultima. Abbraccia l’intero alfabeto, quindi le intere combinazioni alfabetiche, la verità dunque è il farsi, il costruirsi di un discorso. È un insieme di lettere che non sta lì come l’ aleteia/
α̉-λήθεια greca, che secondo l’etimo di Heidegger non-nasconde; verità nel senso del non nascondimento di qualcosa che è e rimane lì, indipendentemente dal soggetto che la scopre. Il giudaismo non ha dogmi e l’unico criterio è la Toràh, a chi propone false interpretazioni non accade nulla, sarà contestato dai maestri ma non sarà impedito, semplicemente, non produrrà nulla o solo violenza: falsità. La parola che indica ‘falsità’ è SheQeR/ רקש, che sono tre lettere vicine ma alla fine dell’alfabeto. La falsità è comune, mentre la verità si disperde, ha bisogno di tutto l’alfabeto, mentre la falsità ne assume solo un pezzo, essendo parzialità e limitazione. Secondo un racconto il mondo abitato dall’uomo non fu il primo ad essere creato, il Signore ne aveva creati già altri, ma li distrusse perché ne era insoddisfatto. Egli voleva governarlo secondo un rigoroso principio di giustizia perciò ad esso affiancò la misericordia e le fece governare insieme. Con TzeDeQ s’intende ‘giustizia’ mentre ReḤeM/מחר è la ‘misericordia’, ma vuol dire anche ‘utero’, ‘viscere’ perché la creazione è un’opera in cui Dio si coinvolge, in essa c’è una sorta di visceralità. La parola se letta al contrario (רחמ) vuol dire ‘domani’, nel senso di guardare al futuro, come l’embrione che si forma nell’utero. BeReSHiT è orientato da subito verso il domani, dopo di se. Esso non avrebbe senso se fosse svincolato da quanto lo segue.
Anche in quest’aspetto siamo lontani dall’orizzonte mitologico in cui si parla di storie che non avvennero mai poiché sono sempre. Anche oggi quando non abbiamo altre spiegazioni la mitologia entra come termine dei nostri discorsi, nulla di ciò invece nel BeReSHiT, che non è orientato verso il ‘prima’, ma nel ‘poi’, dopo di esso. “È sempre” significa che sta lì come una verità sospesa, che le letture pongono in essere, poiché un testo non esiste prima della sua lettura.
Secondo Saussure la lingua è un sistema di segni, essa è una forma e non una sostanza ed è fatta di differenze che si oppongono, quando vogliamo studiarla la scomponiamo nelle sue unità, dai livelli superiori fino all’ultimo, in cui gli elementi dell’articolazione della lingua stessa sono privi di significato, i fonemi. Essi sono sempre in un numero limitato e dalla loro composizione deriva il livello superiore che non ha solo opposizioni e differenze ma anche significazioni, i fonemi producono i morfemi. Nella lingua ebraica i morfemi sono semantemi (Guillaume). Le vocali chiudono il ventaglio di significati di un termine costituito solo di consonanti, queste sono dette diffusive mentre le vocali antidiffusive. Per Saussure il segno è arbitrario, immotivato, non c’è nessun legame naturale nella realtà fra parola e significato, ritiene che la lingua non sia mimetica. La lingua ebraica presenta solo parzialmente questo aspetto, per la tradizione il linguaggio è di essenza divina quindi il suo carattere non potrà essere totalmente convenzionale, esso non solo stabilisce un legame con la realtà, ma fonda il nostro rapporto con le cose. La lingua ebraica mira a stabilire rapporti di somiglianza, il linguaggio è mimetico, c’è una
mimesis forte tra lingua e realtà poiché esso è il riflesso del linguaggio creatore di Dio, che gli è analogo. Porta quindi in sé una modalità creatrice performatrice analoga; ad esempio Dio dice: “Che sia la luce”; e luce fu. All’interno della lingua ebraica tutto ha una ragion d’essere, sia le lettere che i fonemi, ad esempio ‘oT/ ‘segno’, ‘lettera’ indica che la forma ed il nome di ogni lettera possono assumere un preciso significato. È una lingua dunque che può essere considerata mimetica, un calco della realtà, una lettura-scrittura delle cose. Ciò vale anche per quelle unità minime che rappresentano il punto di partenza di ogni sistema linguistico, che nell’ebraico sono già significative poiché il significante porta in sé un significato, è un’incarnazione del significato. Secondo Saussure la pronuncia di una parola può avere un suo preciso significato. L’ebraico è una lingua senza vocali ma con oltre cento tipi di accento, la cantilenazione è il sistema con cui viene letta la scrittura, l’ebreo intona la sua lettura secondo il sistema vocalico elaborato dai SoFRiM, ogni accento svolge una funzione ben precisa all’interno del testo poiché la cantilena, il sistema di accentazione, conferisce senso. Ciò non accade così spesso nel nostro linguaggio, secondo Saussure l’immagine acustica non ha questa importanza. In ebraico ‘accento’ si dice TaHaM/ ‘sapore’ e non è solo una convenzione diacritica o linguistica.
L’ebraismo ha molteplici nomi per indicare Dio che furono tradotti in greco con il termine
Teòs, fra questi il tetragramma YHWH/ הךהו, impronunciabile in ebraico, fu vocalizzato dai masoreti nel termine ‘Adonài’. Oppure HaSheM, che tradotto vuol dire ‘il nome’. Se nella Bibbia sostituiamo questo termine al tetragramma tutto ciò che viene detto viene detto da un nome. I maestri fanno distinzione fra parole e nomi: i talmudisti si occupano di parole adoperando un sistema strutturato, i cabalisti invece si occupano di nomi i quali sono situati ai confini della lingua. La differenza è sul piano del senso profondo, la parola è riconducibile sempre ad una strutturazione mentre il nome è sempre per definizione qualcosa che sta dentro e fuori la lingua. La difficoltà del nome sta nella sua classificazione e nel suo ruolo all’interno del sistema lingua, è l’unico elemento che contesta la nozione di struttura, non vuol dire nulla, la sua funzione lo sottrae al sistema delle opposizioni. Il nome proprio di Dio mette in affanno le nostre classificazioni poiché il suo è il nome, è come dire che il nome ha il nome, in un moltiplicarsi che non trova fondo, che è abissale poiché lavorarci sopra significa non riuscire a venirne fuori.
C’è una distinzione fra i 600.000 volti della Toràh e i quattro livelli di lettura poiché è vero che la Scrittura può essere letta in tanti modi diversi in quanto ognuno l’ha ricevuta secondo le sue capacità d’interpretazione. Tuttavia l’infinità delle letture possibili deve scaturire dai quattro livelli base del PaRDeS.
Rabbì in ebraico vuol dire ‘mio maestro’, ma i dotti erano chiamati anche ḥakàm/ ‘saggio’, al plurale ḥakamìn, mentre i loro discepoli erano chiamati talmìd ḥakàm/ ‘allievo del saggio’. Vicino alla Sinagoga si trovavano uno o più locali chiamati bet ha-midràsh/ ‘casa dello studio’ destinati all’istruzione dei fedeli, soprattutto dei più giovani. La discussione sulla Scrittura non avviene soltanto fra maestri ma anche fra essi e i discepoli, questi stanno intorno ai tavoli della casa di studio a discutere ed ogni tanto chiedono consiglio al maestro. Spesso stavano seduti di fronte cosicché uno dei due seguiva la lettura con il testo rovesciato, imparando così a leggere il Talmùd al contrario. Molti maestri non hanno bisogno di leggerlo perché lo conoscono a memoria, in Israele tutt’ora i grandi maestri anziani si sfidano nella conoscenza della Scrittura, prendono un volume e con uno stiletto lo bucano da parte a parte, aprendolo poi, vedono qual è la prima parola ad essere stata bucata e si sfidano ad indovinare tutte le altre.
In ebraico i termini per dire uomo e donna sono ‘Ish e IshHa, possono essere perciò quasi sovrapposti, cosa che non accade nel greco e nel latino. Probabilmente l’ebraico è più aderente alla realtà in quanto entrambi i sessi sono creati da Dio come individui che poi si differenziano per un’aggiunta letterale, come la gravidanza è la prima lettera della parola ‘monte’ He/ה che indica la generazione di qualcosa. Alla donna il compito di generare quindi, ma non solo in senso biologico, anche la generazione nel pensiero. Interpretando la parola di Dio come “Farò contro di lui una compagna” i maestri affermano che la donna è la leva dialettica che permette l’elaborazione, la generazione del pensiero, come un ponte, una spinta, è l’antitesi che permette alla tesi di tornare in se arricchita e migliorata. Ma questo uomo ha un suo nome ed il primo uomo si chiama Adamo ảDaM/ םדא poiché “viene dalla terra” ảDaMH/ הםדא , dove He è la lettera della generazione. Le tre lettere della parola Adamo appartengono anche ad altre parole.
- ả(א)=par/ שא ‘cenere’
- D(ד)=DaM/ םד ‘sangue’
- M(ם)=MaRa/מם ‘bile’ nel senso di moto delle passioni.
L’anagramma del nome Adamo ci offre anche tre possibilità di ordine storico-etico:
- Adam, nome proprio dell’uomo che può essere:
- David, re e quindi l’esercizio un potere,
- Meshiah, ogni uomo può essere messia ed è questa un’ idea complessa della tradizione giudaica che non va intesa nel senso cristiano.
Acquisire la Toràh non significa impadronirsi del testo ma tentare di realizzare il modello dell’umano che propone il testo stesso. Acquisire la Toràh significa cominciare ad elaborare partendo dalla scrittura. Ad Adamo venne dato il compito di nominare le cose e la sua saggezza si mostrò di grande profitto, quando impose un nome agli animali gli fu necessario nominarli uno per volta poiché solo Dio può radunare l’intero e “guardarlo” complessivamente. C’è una differenza fra Adamo, polvere della terra e gli angeli. Si dice che anche a questi ultimi Dio affidò il compito di nominare le specie animali ma non ne furono capaci perché non rientra fra le loro possibilità. Dopo aver nominato se stesso ad Adamo fu chiesto da Dio di dargli un nome ed egli rispose: “Adonai”. Questo nome impronunciabile di Dio in realtà fu pronunciato proprio dal primo uomo poiché esso può essere in qualche modo pronunciato. Il nome viene dato dall’uomo a Dio eppure questo nome Dio stesso se lo era attribuito, possiamo dunque dire che Adamo riesce a leggere. Si dice che la Toràh consegnata a Mosè sul Sinai era stata già consegnata ad Adamo. Essa racconta l’ordine della creazione ed Adamo era presente nella Toràh stessa. Uno dei MiDRaSHiM giudaici più famosi racconta che ogni essere umano quando è ancora embrione conosce tutta la Toràh, nei primi otto giorni dopo la nascita, quindi prima della circoncisione, passa un angelo che colpendo la bocca del bimbo gli fa dimenticare tutta la scrittura. Nel libro di Isaia si dice che questi iniziò a profetizzare grazie ad un angelo che gli mise in bocca “dei carboni ardenti”. Ogni profeta ha un rapporto particolare con la bocca, con i libri, con la parola. Tutto è incentrato sulla parola come segno dell’identità, essa è assolutamente una verità, attraverso essa bisogna ricostruire quanto è accaduto all’origine. Ma cosa è stato rimosso? Anche nel MiDRaSH c’è l’idea di una parola rimossa al bambino che viene al mondo. Nel 1500 alcuni cabalisti di matrice cristiana studiando questi MiDRaSHiM sostennero una loro derivazione platonica poiché gli ambienti in cui vennero elaborati avevano rapporti con il mondo classico. Poiché leggere è un riconoscere sono possibili delle analogie con la reminescenza platonica (anamnesi), la differenza è proprio nella sottolineatura dell’importanza della parola poiché Platone non sembra riconoscerne la centralità così come fecero i maestri. L’idea del possesso della Toràh prima della nascita è presente nel versetto in cui Dio chiede ad Adamo quale sia il suo nome. Il punto di vista di questo discorso è pronunciare il nome impronunciabile, ossia la possibilità di avere un rapporto pieno con le lettere dell’alfabeto, nel senso in cui l’ordine del discorso (alfabeto) è completamente attraversato in tutte le sue combinazioni. Il MiDRaSH arriva a sostenere che Adamo non solo nomina gli animali, ma, ed è ancor più importante, dà il nome a Dio. La Toràh è un’ipotesi di discorso identitario sull’uomo, il quale può nominare Dio. La questione teologica e quella linguistica non sono separabili. L’ebraico ha una lingua parlata ma non la sua scrittura completa, l’originarietà di questa lingua è proiettata altrove poiché essa è per il dialogo, è una lingua che per produrre ha bisogno di qualcun altro. Ciò vuol dire che se l’ebraico è
fatto per il dialogo allora s’invoca la necessità della presenza di qualcun altro. Essendo impossibile che l’ebraico stia solo esso viene dichiarato come qualcosa di altro rispetto a sé, è una lingua capace di svilupparsi da sé ma solo attraverso il dialogo. Non possiamo chiudere nulla, se lo facessimo considereremmo la tradizione come capace di produrre da sola, ma ciò non è possibile perché non ne è capace: ha bisogno dell’altro. Il pensiero ebraico ha una sua precisa identità che consiste sostanzialmente nel non possederla, è un’identità che va rilanciata. In un suo saggio Derridà si chiese se noi europei/occidentali siamo culturalmente ebrei o greci, rispondendo che non siamo né l’uno né l’altro poiché siamo la differenza tra l’ebreo e il greco e il greco e l’ebreo. Non è possibile in senso stretto dire: “io sono ciò e basta”, siamo sia l’uno che l’altro.
Termine usato per indicare il partner di studio del Talmud, che, come è risaputo, viene studiato in una forma dialogante, quindi con un compagno di studio (reale o . . . virtuale). L'importanza di questo "stile" nello studio del Talmud è espresso dal famoso detto talmudico: O chavruta o mituta, o compagno di studio o morte (dello studio, si intende!)
L'anno ebraico
La luna e le sue fasi bizzarre e ricorrenti affascinarono in modo particolare nei tempi antichi gli ebrei, che, appunto basandosi su di queste, determinarono la divisione del tempo. L'anno ebraico è dunque un anno lunare e si basa sulle lunazioni, cioè il periodo in cui la luna passa attraverso tutte le sue varie fasi. Il mese perciò dura 29 o 30 giorni. L'anno ebraico è composto di dodici mesi. Per adeguarsi all'anno solare, usato dai popoli tra cui viviamo, e formato da 365 giorni, circa sette volte in 19 anni, viene aggiunto un tredicesimo mese detto Vaadàr o Adàr Shenì. L'anno di 13 mesi viene chiamato "embolismico" e quello normale peshutà. Il primo giorno del mese e il trentesimo del mese precedente, se c'è, si chiamano Rosh Chòdesh, capo mese, e sono giorni per certi aspetti festivi. Gli anni ebraici partono dalla "creazione del mondo" secondo l'era ebraica.
I mesi del calendario sono:
Tishrì (sett.-ott.) | chiamato il mese dei "giganti", comprende: Rosh Hashanà (1-2), i dieci giorni penitenziali Yamìm Noraìm, il digiuno di Ghedalià (3), Kippùr (10), Sukkòt (15), Sheminì Atzéreth (22), Simchàt Torà (23). |
Cheshvàn (ott.-nov.) | per consolarlo, essendo privo di feste, viene chiamato Mar Cheshvàn, il "signor" Cheshvàn. |
Kislèv (nov.-dic.) | comprende la festa di Chanukkà (dal 25 al 2 o 3 Tevèt). |
Tevèth (dic.-gen.) | si ricorda con un digiuno l'assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi e le vittime-dell'Olocausto della II Guerra Mondiale. |
Shevàt (gen.-feb.) | si festeggia Rosh Hashanà Lailanòt (15). |
Adàr (feb.-mar.) | si festeggia Purìm (14), preceduto dal digiuno di Ester (13); Purìm Shushàn (15). |
Nissàn (mar.-apr.) | digiuno dei primogeniti (14), il 15 inizia Pésach. |
Iyàr (apr.-mag.) | si festeggia Yom Haatzmaùth (5) e Lag Ba'òmer (18). |
Sivàn (mag.-giu.) | festa di Shavu'òth (6). |
Tamùz (giu.-lug.) | si ricorda con un digiuno (17) l'assalto dei Babilonesi a Gerusalemme (586 a E.V.) e la breccia nelle mura di Gerusalemme da parte dei Romani (70 E.V.); Mosè rompe le tavole della Legge, a causa del vitello d'oro. |
Av (lug.-ago.) | si ricorda (9) con un digiuno la distruzione del I° Tempio (586 a E.V.) e del II° Tempio (70 E.V.). |
Elùl (ago.-set.) | si iniziano a recitare le Selichòt (preghiere di perdono). |
Ricorrenze e feste ebraiche
Le ricorrenze ebraiche, o feste maggiori prescritte dalla Torà, si dividono in due gruppi:
1. Yamìm Noraìm (giorni solenni), che comprendono i giorni di Rosh Hashanà e Kippùr e i 10 giorni di penitenza intercorrenti;
2. Shalòsh Regalìm (tre pellegrinaggi), che comprendono: Pésach, Shavu'òth, Sukkòth.
3. Vi sono poi le feste minori, cioè stabilite dall'uomo, che sono: Chanukkà, Tu Bishvàt, Purìm, Yom Haatzmaùth, Lag Ba'òmer.
La lingua ebraica
Ogni lettera dell'Alef-Beit ebraico è un vettore d'energia e di luce divina, che agisce sulla consapevolezza umana in modo triplice: tramite la sua forma, nome, valore numerico. Infatti per la tradizione ebraica le lettere sono cariche di una energia trascendente che lega l'umanità alla ragione stessa del suo divenire escatologico.
Ogni lettera ebraica è un canale tramite il quale vengono riversati nel mondo correnti di purissima energia, che si differenziano a seconda dell'aspetto grafico, del suono, del significato del nome, e del valore numerico della lettera in questione.
Unico tra tutti gli alfabeti del mondo, quello ebraico riunisce in sé una serie di insegnamenti profondi e ineguagliabili, racchiusi nella triade: suono, forma, numero.
Ogni lettera dell'Alef-Beit è un mandala, una forma capace di guidare l'attenzione di chi medita su di essa verso il centro dell'Essere e della Coscienza, verso quello stato di riposo e di silenzio dal quale proviene l'illuminazione spirituale.
Lo studio dell'Alef-Beit ebraico è un esercizio altamente mistico, possibile a chiunque ricerchi con sincerità e umiltà lo sviluppo della sua parte spirituale, per giungere ad una maggior unione con la Sorgente di ogni bene.
La tradizione dice unanime che Dio ha creato il mondo servendosi delle ventidue lettere dell'Alef-Beit.
Tramite il loro studio possiamo ricreare in noi parte di quella novità, freschezza, bellezza e armonia che Dio ha contemplato.
Conoscere i valori delle lettere dell'alfabeto è conoscere l'essenza divina dell'universo fenomenico; e la struttura stesa dell'universo fenomenico ha riscontro puntuale nelle lettere dell'alfabeto, dalle e grazie alle quali si forma, dopotutto, ogni pensiero e quindi ogni consapevolezza umana.
ALCUNE REGOLE
- L'ebraico, come le altre lingue semite, si legge da destra a sinistra.
- Le 22 lettere dell'alfabeto ebraico servono anche da numeri; nell'ebraico non sono state "inventate" le cifre . "la scrittura comprende il computo e il computo comprende il discorso" dice il Libro della formazione
- Le sei lettere munite di un punto (daghèsh) al loro interno hanno suono esplosivo. Nella pronuncia sefardita (attualmente in uso in Israele) la differenza di pronuncia è conservata solo nelle lettere beth, kaf e pe.
- Le cinque lettere in fine di parola modificano la loro forma in
- Le lettere sono gutturali.
- Sono considerate "consonanti deboli", assumono suono vocalico e perciò divengono "quiescenti e sono dette "matres lectionis" le seguenti lettere:
Nella mostra sono esposte le lettere dell'alfabeto ebraico, fatte in terracotta, ognuna di dimensioni 22x24 e del peso ci circa 2 chili.
Accanto ad ogni lettera vi e' una descrizione della lettera, e' scritto come si pronuncia, quale e' il suo valore numerico ("Ghematria") e che cosa hanno detto i maestri su questa lettera nel corso degli anni.
- Per svolgere questo lavoro ci sono stati indispensabili gli appunti delle lezioni tenute dal prof. Silvano Facioni durante il secondo periodo (12-12-2002/24-01-2003) dell’anno accademico 2002/03 del corso di Laurea in Filosofie e Scienze della Comunicazione e della Conoscenza dell’UNICAL.
Un particolare ringraziamento va al collega Ivan Zicarelli per la disponibilità prestataci.
25 febbraio 2008 alle 08:47
il mio vuole essere un discorso più che altro politico che individua, o tenta di individuare, la convenienza della cosiddetta società laica a che la Chiesa Cattolica non abbia in esclusiva la gestione del desiderio di spiritualità presente nell’uomo. Evidentemente ho aggiunto dei “fronzoli” che hanno fatto perdere il succo di quello che intendevo dire.
25 febbraio 2008 alle 09:58
Cordiali saluti.
Danilo Di Mambro
29 febbraio 2008 alle 00:32
Sono entrata nel sito del Circolo Vegetariano e così ho potuto leggere lo scambio di opinioni tra te e il signor Danilo sulla spiritualità laica, trovandolo molto intrigante, come dici tu per l’appunto.
Non ho capito cosa intendesse per Massoneria il signore che ti ha scritto. In questi momenti mi dispiace sentirmi così distante intellettualmente e grammaticalmente da non poter comprendere meglio certi discorsi così sofisticati su degli argomenti che suscitano anche in me un notevole interesse. In genere con l’aiuto del fido vocabolario e delle ricerche su internet, imparo molte parole e concetti nuovi, grazie proprio ai testi più difficili, ma qui dove già i concetti sono forse troppo complessi per riuscire a descriverli con semplicità, faccio doppia fatica.
La tua risposta, per me, era un po’ più semplice da capire, perché il mio percorso di vita mi ha portato a simili percezioni interiori. Mi è piaciuto molto come hai esposto le tue idee. Anche il signor Danilo scrive molto bene ma, nonostante tutto, non ho ben compreso cosa centri la politica e la massoneria con la spiritualità.
Certo che se Dio ci ha dato la facoltà di porci tutte queste domande su di Lui, una valida ragione ci sarà pure.
Sto provando a rileggere più volte ambedue i punti di vista, ma forse sarà meglio chiacchierare di persona, se un giorno avrai la pazienza di ascoltare le mie domande. Magari si aggrega anche il signor Danilo a uno degli incontri organizzati dal Circolo Vegetariano; sarebbe bello e doppiamente intrigante!
Se poi, non dovessi avere più bisogno del vocabolario in quell’occasione, lo userò come sgabello, mi ritornerebbe utile comunque!
Ringrazio ambedue per gli spunti di riflessione trattati in questa circostanza e spero che continuerete a parlarne, in modo da darmi l’opportunità di approfondire l’argomento.
Cordiali saluti.
3 marzo 2008 alle 17:48
Il Libero Pensiero, l’opposto del pensiero fisso che inesorabilmente è ogni volta destinato a finire, si adatta e crea la possibilità di cambiamento, si svolge trasversalmente e scava con energìa irrefrenabile nella coscienza delle persone.
Il Libero Pensiero è “perfettibile” e mai viene considerato “perfetto”, scorre come l’acqua nel fiume senza fermarsi (panta rei) e quando si scontra con qualche ostacolo (dogma o pensiero fisso) cercherà di spostarlo, di scavarlo, di logorarlo, di passarci sotto, dai lati o sopra innalzandosi …, la Massonerìa quindi, basando la propria filosofìa sulla libertà di pensiero, rappresenta una forza spirituale fondamentale per un cambiamento positivo della società come tra l’altro è già avvenuto nella storia italiana dove la forza di pochi, Garibaldi e i suoi Mille, ha reso possibile l’unità del paese.
La stessa Costituzione italiana risponde ai principi di libertà ed uguaglianza ereditati dalla rivoluzione francese. L’avvento delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea, la sconfitta delle dittature naziste, fasciste e comuniste sono senza dubbio frutto del Libero Pensiero, di una spiritualità laica che di continuo subisce il rifiuto e la negazione da parte di chi professa il pensiero fisso per convenienza o perché si illude di avere in tasca la verità.
Il Libero Pensiero è planetario, esiste, magari nascosto, anche nei paesi sotto regimi dittatoriali o fortemente repressivi, il libero pensiero non si può ammazzare, la persona sì, come Giordano Bruno che resistendo alle terribili torture fino alla morte, portò il suo pensiero attraverso i secoli fino a noi.
Certo, anche la Massonerìa è un’etichetta, come lo sono le religioni, i partiti politici, etc., ma è una di quelle poche, pochissime etichette che coltiva appunto una spiritualità libera, è una scuola dalla quale gli apprendisti escono con le loro idee avendo imparato ad agire per un mondo migliore, basato sulla libertà, sull’uguaglianza e la fratellanza.
Un libero pensatore è ben conscio di rimanere sempre un apprendista anche quando ha raggiunto le più alte vette della filosofia, è agnosta, cioè umilmente ammette di non sapere.
Nella Massoneria si formano spiriti liberi, non per guerre, rivoluzioni, rumorose manifestazioni di piazza, ma naturalmente i massoni possono agire come tutti gli altri esseri umani… .
C’è chi non ha bisogno di etichette e che ugualmente vive e propugna i suddetti principi per favorire la libera espressione ed organizzarsi per ottenere una convivenza con diritti civili ed umani uguali per tutti, in questo la Massoneria universale può dare un forte contributo.
Un anziano massone disse un giorno:”Non è necessario che ci si iscriva alla Massoneria, l’importante è essere libero pensatore.”
Peter Boom.
6 marzo 2008 alle 22:36
Haiahai, chi potrà mai sapere la verità?
E’ stata tutta “colpa” dell’ADN-kronos……..
Sì proprio così, avvenne che da quella battuta estemporanea, utile a chiarire l’immagine di un approccio “libero” alla spiritualità naturale dell’uomo (ricordo anche l’altro nome “Spirito senza Frontiere” ma “Spiritualità Laica” è meglio) nacque una nuova onda… da quell’intuizione ironica per descrivere il moto spontaneo “individuale” verso lo Spirito e nello Spirito e dello Spirito. Spiritualità Laica dunque. E qui inserisco un mottetto sul personaggio Paolo D’Arpini, che si atteggia a spiritualista laico.
sempre pronto
ad abbandonare armi e bagagli,
una capra, baldanzosa scudiera,
che piange e ride e
un io-scimmia cavaliere, alquanto saggio,
con una spada di latta
che va bene solo per le sculacciate,
tanto è poco marziale…….