L’anima individuale (jīva) come descritta nelle Upaniṣad



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Le Upaniṣad rappresentano il sunto esplicativo delle antiche scritture sacre indù conosciute come Veda1; per questo motivo sono indicate anche come Vedānta (anta nel senso di scopo, epilogo). Nello specifico la parola Upaniṣad derivando da upa (vicino) e -niṣad (sedere), significa “sedere vicino”, intendendosi al Maestro, per ricevere l’insegnamento. Infatti gli argomenti trattati sono di ordine prettamente metafisico, e riguardano sia gli aspetti ritualistici, che quelli contemplativi, finalizzati alla realizzazione della Realtà Suprema, il Brahman/ātman.
Questi due termini indicano rispettivamente: Principio Universale e Spirito, e si riferiscono a concetti, in seguito codificati nei Veda, che furono originariamente intuiti ed esperenziati dai Ṛṣi per vie distinte e dagli stessi all’unanimità assunti come essenzialmente coincidenti2.

Infatti secondo l’advaitavedānta (Vedānta non duale), dottrina metafisica che trascende la dualità, esiste solo un’unica Realtà senza secondo, espressa attraverso il Brahman (nirgua, ossia ‘privo di attributi’), eterno e immutabile, una sorta di matrice dalla quale, come un’immagine riflessa in uno specchio, scaturisce il Brahman saguna, (con attributi), che permea e sostiene l’intera manifestazione universale visibile e invisibile, qualificata appunto dagli opposti in essa espressi.

Al pari dunque l’ātman, avulso da qualsiasi dualismo, è privo di attributi, incontaminato, “eterno e onnipervadente come l’etere”, ma da esso distinto, corrisponde al Sé, allo Spirito (cfr. Platone), che vitalizza l’ente manifestato, completamente al di fuori del tempo-spazio-causa e in quanto tale coincidente col Brahman (nirgua).

E’scritto: “Come un ragno si pone al centro dei fili della sua tela, come tutti i raggi di una ruota sono infissi nel mozzo e nel cerchio della ruota, cosi stesso da questo ātman provengono tutti gli organi, tutti i mondi, tutti gli dei e tutti gli enti. Il suo nome segreto è verità della verità”.

Completata questa doverosa introduzione riguardante i concetti fondanti della dottrina advaita, si proseguirà ora ad una sistematica rassegna della descrizione dell’anima individuale (o incarnata), il jīva3 o anche ātmā, secondo quanto riportato nelle Upaniṣad, proprio come osservata grazie all’indagine interiore, e descritta dai veggenti immortali; dapprima secondo la sua forma fisica, la quale essendo sottile permea la materia grossolana corporea, assumendo una specifica geometria e dinamismo4, e a seguire nel rapporto con la sua Sorgente, l’ātman/Brahman.

Occorre però mettere in guardia il lettore dal non cadere nel tranello di immaginare il sé, l’anima individuale, come un ente fisico, seppur sottile, che possa avere una sua forma e sede, molti infatti ingannevolmente la considerano dimorante nel corpo, mentre quest’Io è onnipervadente, al pari della Causa Una dalla quale sorge. Come nelle onde radio, che sono descrivibili fisicamente per frequenza, forma, ecc., intuiamo che ben altro è l’ineffabile informazione che esse trasportano; al pari vanno distinti, lo spazio (ākāśa, il fluido eterico, elemento primordiale unifenomenico), dal Brahman/ātman, il Principio Intelligente, che in esso imprime e realizza l’intera Manifestazione.

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La forma del jīva è assimilabile a quella di un toroide imperniato sul cuore spirituale, uno spazio posto nel petto a sinistra specularmente al muscolo cardiaco e quindi da non confondere con esso. Il cuore5, vero centro pulsante dell’energia vitale prāṇa (ossia l’etere, nella forma dell’energia vitale), è descritto come una cavità (dahara); in essa grazie all’ingenerarsi del vero vuoto assoluto si produce una doppia vorticazione del prāṇa, composta da un verso centripeto che lo attrae e uno centrifugo che lo ridistribuisce.
Dal cuore, grande quanto un pollice (o un grano di riso), dipartono le 100 nāḍī, ciascuna si suddivide ramificandosi fino ad arrivare a 72000 (canali energetici), chiamati hitā, sottili come un capello diviso in mille parti e permeate di color bruno rossiccio, giallo, verde, rosso, azzurro, blu e bianco; proprio attraverso queste scorre il flusso pranico, che avanza con una traiettoria elicoidale, componendosi secondo due flussi contrapposti; questi collegano entrambi i mondi: Terra e Sole, a formare il corpo eterico solare.
I flussi dal Sole confluiscono in queste nāḍī e quelli per mezzo di queste si ricongiungono al Sole6. Il prāṇa viene identificato con lo stesso Sole, in quanto entrambi risplendono, e sono fuoco, calore, e si muovono l’uno verso l’altro.

Oltre a questi canali energetici, vengono anche menzionati quelli principali più noti: la nāḍī suṣumṇā posta in posizione centrale, rispetto a īḍā e piṇgalā, la quale diparte dalla sede della kuṇḍalinī7, e va verso l’alto fuoriuscendo dal 7° cakra della testa (sahasrāracackra, associato all’ipofisi); lungo di essa si trovano i sette cakra.

Il prāṇa mediano è quello principale, da esso provengono i prāṇa secondari (l’apāna, il vyāna, l’udāna, il samāna, e l’ana), esso alimenta tutti gli organi rendendoli attivi; se da uno di questi si diparte, quello stesso inaridisce, se uno di questi abbandona un organo, ne cessa la rispettiva funzione, se invece il prāṇa abbandona il corpo, cessa in esso per intero la funzione vitale8.

In verità il corpo sicuramente muore quando è separato dal jīva, ma il jīva non muore; in quanto scaturente dall’ātman non nato.
Il prāṇa reca vita a tutti i corpi del micro e macro cosmo, esso è l’elemento per cui le forme grossolane e/o sottili (di qualunque genere), possono trovare alimento e accrescere, in verità mantiene in vita tutti gli abitanti dell’Universo, qualsiasi cibo9 naturale venga mangiato, questo rilascia l’energia vitale che in esso circola e lo diventa esso stesso.

Quando l’ente si ritira nei piani del sottile, come accade durante le fasi del sonno profondo, i vari soffi vitali ‘rientrano’ nel prāṇa rendendo inattivi gli organi sensoriali, così vale per la parola, la vista, l’udito e la mente. Allora l’essere dimora unicamente nello spazio che è all’interno del cuore, luogo in cui dimora la Pura Coscienza; nel vero ‘stato naturale’. Inoltre essendosi completamente ritirato attraverso quelle nāḍī, resta inattaccabile in quanto puro Spirito; mentre l’ente è assente a se stesso, inconsapevole; in questo stato massimamente avviene la guarigione10 e la crescita corporea.

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E’ scritto inoltre che attraverso alcune nāḍī specifiche, si può entrare ed uscire dal corpo fisico (viaggio astrale, bilocazione), da quello sottile, e ancora da questo procedere verso quello causale.
Quando il jīva abbandona il corpo, il prāṇa lo segue, quindi tutti i prāṇa lo seguono percorrendo le 100 nāḍī che si diramano dal cuore, oltre quelle solo un ennesima, udāna, può procedere verso l’esterno passando per il vertice del capo.

Se il jīva ascende lungo quella (udāna), si è ottenuta l’immortalità. Lo yogi può attuare coscientemente quest’evento di uscita ed entrata dal corpo, transitando dal sommo del capo, avendo acquisito la padronanza di operare sull’elemento ākāśa (spazio o etere), dal quale nascono, aria, fuoco, acqua e terra, quindi la mente, la parola, la vista e l’udito. Invero tutte le facoltà11 dell’essere incarnato provengono dal jīvātman (l’Io cosciente di essere Uno), ossia dall’ātman/Brahman, e non quindi dal fisico denso, mentre sta al jīva predisporsi ad esercitarle. Si ricordi che è appunto lātman a recare all’ente individuato il raggio di consapevolezza (ved. nota 3), rendendolo cosciente di essere.
Operare sull’ākāśa significa quindi produrre effetti sui restanti elementi e sul prāṇa stesso che ha attinenza con i piani esistenziali più sottili12.

Le altre nāḍī che invece vanno in tutte le altre direzioni, riportano alla morte, di fatti solo se il jīva fuoriesce dall’apertura al sommo della testa si unisce alla sua controparte divina che è l’ātman, raggiungendo il brahmaloka, l’Essere principiale; altrimenti percorre la via solare degli Dei che conduce in un mondo divino, il devaloka; oppure imbocca la via degli Avi (o Manu), tramite cui si raggiunge la Luna candraloka (kāmaloka), per la quale, esaurito il frutto delle proprie azioni meritorie, si torna all’incarnazione reinserendosi nel determinismo karmico; in ultima la via verso il mondo infernale.

L’ente, risolvendosi nel Supremo (ātman), quale raggio di luce (jīva) che ritorna alla sua Sorgente, perde ogni distinzione di nome e di forma, ma non avendo estinta qualche sua qualificazione, ritorna sul piano della manifestazione. I jīva, mantenendo le loro peculiarità relative alle azioni compiute e alle tendenze latenti (vāsanā), tornano in quella medesima natura, cioè riemergono ancora dall’Essere. Nonostante possano trascorrere migliaia di cicli di ere, le tendenze latenti che l’essere trasmigrante aveva prima, non si cancellano.

Invero si viene all’esistenza in accordo con la propria consapevolezza; come agisce e come si comporta, così egli diviene, sicché alcuni jīva ritornano ad incarnarsi in un grembo per ricoprirsi di un corpo, altri assumono una condizione inerte secondo il karma e la conoscenza appresa.

Tutte le creature si immergono nell’Essere durante il sonno profondo, dopo la morte o al tempo della dissoluzione universale, ma non avendone la consapevolezza ritornano all’esistenza.

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Segue ora quanto nelle Upaniṣad attiene al rapporto tra il jīva e la sua Sorgente, l’ātman/Brahman.
Il “piccolo spazio” del cuore, ricettacolo che ha la forma di un fiore di loto, è dunque la cittadella del Brahman/Puruṣa, la ‘sede’ dell’ātman13, tutti i mondi dal sensibile all’intellegibile vi sono racchiusi; quello che è al suo interno, si deve ricercare e conoscere. 
La dahara-vidya, è la pratica contemplativa rivolta alla conoscenza del cuore.

Invero come è esteso questo spazio esterno, altrettanto lo è questo spazio all’interno del cuore.

Il jīva che ha la dimensione di un pollice, ha natura identica al Sole, è dotato della determinazione e del senso dell’Io, come anche delle qualità dell’intelletto e della qualità del corpo ed è grande come l’estremità di uno sperone, invero viene percepito come se fosse differente dall’ātman.

Ma colui che conosce il Brahman, nel supremo spazio racchiuso nell’incavo del cuore, costui esaudisce tutti i desideri essendosi identificato con Brahman. Quando questa scintilla (jīva) scopre la sua vera natura, crea l’identità con la sua controparte divina (ātman-Brahman). 

Esperenziare la propria vera natura fa conseguire la liberazione dal divenire fenomenico; proprio come uno specchio sporco di terra risplende pieno di luce quando è ben pulito, l'essere incarnato, soltanto intuendo quella stessa realtà che è l'ātman, diviene unico, perfettamente compiuto e libero dal dolore.

Se in questa cittadella tutto è compreso, quando la vecchiaia si impadronisce di questo corpo, la cittadella non viene deteriorata né uccisa, e l’ātman non resta contaminato da errore, vecchiaia, morte, dolore, fame e sete, questo poiché l’attività non compete all’ātman, in quanto privo di attributi d’azione è immutabile.
Ricorda, Tu sei Quello. (Tat Tvam Asi))

Om śānti, śānti śānti Om! (Che la pace regni su tutto).

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Note

1. I Veda, letteralmente “ciò che è stato visto” spiritualmente, la Conoscenza Suprema realizzata dai saggi veggenti Ṛṣi (rishi), detta Śruti, in quanto ricevuta per audizione diretta del ‘suono’ divino; risultano suddivisi in quattro raccolte: ig, Sāma, Yajur e Atharva. Questi testi nella forma scritta attualmente nota, risalgono circa al 5000 a.C., epoca in cui visse Vyāsa il loro principale estensore, ma la loro formulazione ha origini che si perdono nella notte dei tempi.
2. I Ṛṣi sono giunti nel tempo alla conclusione che la Sorgente (ātman), dalla quale scaturisce l’Io individuale di ognuno, coincide con la Sorgente (Brahman), dalla quale scaturisce tutta la manifestazione fisica e metafisica, realizzando l’esistenza di un’Unica Causa Suprema senza secondo, non duale.
3. L’ente umano presenta la triplice ripartizione: ātman, jīva e ahaṁkāra, (rispettivamente Spirito, anima e io empirico/ego). I primi due sono dotati di consapevolezza, il terzo la riceve, l’ego dunque risulta essere un ente illusorio e temporaneo.
4. Una descrizione più estesa dei corpi sottili si incontra nell’Ayurveda. L’intero corpus āyurvedico (conoscenza, veda; vita, āyus), raccoglie il sapere medico e terapeutico ricavati dall’Atharva Veda. Composto da vari testi (al pari dei Veda), ha origini divine in quanto appreso per rivelazione diretta.
5. Malgrado la vicinanza, il cuore spirituale (Hṛdayam), non va assimilato al cakra del cuore: anahata.
6. E’ palese in quest’ultima descrizione, l’interdipendenza fisica sul piano eterico e quindi energetico (non essendo l’energia altro che l’apparenza dei moti eterici), tra una massa materiale (il sole) e un’altra massa biologica. Tra i due toroidi, che rispettivamente avvolgono e compenetrano il sole e il corpo umano, esiste dunque un collegamento composto di flussi eterici che scorrono contrapposti percorrendo migliaia di nāḍī, esso è proprio quel cordone argenteo più volte descritto da medium e veggenti. Inoltre nella realtà fisica esistono infiniti corpi per ogni individuo, realizzandosi la stessa circolazione per il corpo lunare, mercuriale, ecc. Più estesamente questa descrizione della circolazione eterica riguarda universalmente tutto il manifesto, quindi non solo gli organismi viventi, solo per quest’ultime però i flussi eterici coinvolti recano gli attributi dell’energia vitale (prāṇa); la descrizione del collegamento e della circolazione eterico/energetica è di importanza fondamentale in quanto ci serve su un piatto d’argento la soluzione al ‘mistero’ dell’entanglement, ossia ci descrive la modalità attraverso la quale la Coscienza circola e sostiene la propria manifestazione. La scoperta scientifica, in quanto empiricamente dimostrata, dell’interdipendenza tra enti fisici e metafisici fu oggetto, già 2500 anni fa, dell’intuizione speculativa effettuata da Siddhartha Gautama detto il Buddha.
7. La kuṇḍalinī śakti, la Forza serpentina, in riferimento al suo guizzante moto elicoidale, è l’energia nervosa e psichica individuale, giace alla base della colonna vertebrale nel mūlāndhāracakra (primo cakra), essa si risveglia anche attraverso la pratica dello yoga.
8. Da notare l’analogia, ad esempio, con la vis electrica vitalis (cfr. L. Galvani 1737-1798).
9. Inutile dire che l’energia vitale presente nel cibo è maggiore se consumato crudo e fresco, infatti un frutto appena colto è notevolmente più energizzante, ad esempio un seme conserva nel tempo la sua energia vitale parallelamente alla sua capacità germinativa. Ovvio che questo non può dirsi per il cibo industriale il cui transito nell’organismo genera, invece che un apporto energetico, un consumo di energia necessaria alla sua espulsione.
10. Va fatto notare il paradosso secondo il quale le attività della mente/ego, qualora malamente indirizzati durante lo stato di veglia-sonno, finiscano di fatto per perturbare la continua azione armonizzatrice dello Spirito.
11. Per esse si intendono, l’auto percezione, la consapevolezza, l’intelligenza, la memoria, le facoltà immaginativa e speculativa, ecc., tutte facoltà che positivismo e materialismo con strenua convinzione assegnano alla materia.
12. Questa capacità di agire sul sottile acquisita dallo yogi (o sciamano, o santo, ecc), permette le guarigioni, la magia, l’esercizio della mantica e così via, ma va tenuto presente che l’agente che opera, non fa altro che sfruttare le stesse qualità che l’Assoluto riflette nella Manifestazione.
13. Lo Spirito, l’Inviolato (immutabile), che al contempo tutto genera e tutto trascende, è un Principio esente da qualsiasi attributo e/o fisicità, non a caso viene a figurarsi mentalmente assimilato al vuoto assoluto impresso alla sostanza primordiale etere (o spazio, ākāśa), e presente in tutte le forme: quark, elettroni, alberi, anima incarnata, sole, buco nero, galassia. Questa potente forza aspirante tiene tutto in comunicazione e attraverso di essa, la Coscienza circola e sostiene la Manifestazione.

Giuseppe Moscatello -  pep65@tiscali.it

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Bibliografia
- Glossario Sanscrito, a cura del Gruppo Kevala, Roma 2011.
- I Veda, a cura di Giorgio Cerquetti e Parama Karuna Devi, Bologna 2013.
- Upaniṣad, a cura di Raphael, Milano 2010.
- Śaṅkara, Opere brevi, Roma 2012.