Paolo D’Arpini è il portavoce della Rete Bioregionale Italiana e presidente del Circolo Vegetariano VV.TT.. L’ho conosciuto grazie al suo infaticabile “Giornaletto di Saul” (Vedi:
http://saul-arpino.blogspot.it/), bollettino giornaliero del Circolo Vegetariano ove diffonde notizie e commenti su numerosi argomenti avvalendosi di una rete immensa di collaboratori; gli scrivo ogni tanto anch’io i miei commenti (e mi ha assunto….) ma soprattutto siamo diventati amici. Così ho pensato di intervistarlo e questo è il risultato di uno scambio di email e conversazioni telefoniche. (Olivier Turquet)
Paolo, puoi spiegare un po’ l’idea che sta alla base del bioregionalismo, la storia e le proposte generali portate avanti dalla Rete Bioregionale Italiana?
Il concetto di “Bioregione” (in termini “moderni”) è stato formulato negli anni ’70 nell’ambito di una ricerca, volta all’individuazione di un approccio sostenibile alle risorse naturali, condotta da Peter Berg, esponente delle avanguardie culturali nord-americane, e dall’ecologista statunitense Raymond Dasmann. Il lavoro prodotto da queste due personalità singolari venne pubblicato, nel dicembre del 1977, in un articolo della rivista americana The Ecologist in cui, per la prima volta, vennero impiegati i termini “Bioregione” e “Bioregionalismo”.
Negli stessi anni, Peter Berg fondò il movimento noto come Planet Drum (Il tamburo planetario), allo scopo di diffondere nel mondo il concetto di bioregione come punto di partenza per la sostenibilità, nonché le implicazioni culturali, ideologiche e di vita quotidiana che da esso derivano.
Da allora la teoria bioregionale ha destato l’interesse di scienziati, ecologisti, agronomi ed economisti di tutto il mondo, è stata oggetto di critiche e confutazioni, dovute soprattutto “alla difficoltà di identificare dei criteri univoci per la delimitazione delle bioregioni”, ha ottenuto consensi e pareri favorevoli e, in tutti i casi, ha collezionato innumerevoli pagine nella letteratura specializzata di tutto il mondo.
Ad oggi, è possibile attingere a numerose definizioni di “Bioregione” e “Bioregionalismo”, fornite dalle più varie personalità mondiali e sulla base di approcci eterogenei. Nel complesso, si può affermare che tutti concordano nel sostenere che per “bioregione” si intende “un territorio non delimitato da confini politici o amministrativi ma da confini ‘oggettivi’ (ecosistemi naturali) e ‘soggettivi’ (identità sociali); quindi un’area geografica circoscritta da limiti fisici (bacino fluviale, catena montuosa) e da un’omogeneità ambientale e naturale degli ecosistemi (clima, suolo, flora, fauna) e delle caratteristiche sociali delle comunità locali (costumi, tradizioni, identità collettiva, senso di appartenenza al territorio, amministrazione locale in forma di democrazia diretta, etc)”.
La Rete Bioregionale Italiana, in quanto “rete”, non è un movimento strutturato, esistono varie realtà anche disgiunte che si occupano delle tematiche in oggetto. Noi della Rete Bioregionale ci occupiamo essenzialmente di aspetti pratici e di vivere in prima persona l’esperienza bioregionale e dell’ecologia profonda. La Rete Bioregionale Italiana è stata fondata nella primavera del 1996 nel Parco di Monte Rufeno ad Acquapendente come incontro di varie realtà che si occupavano e si occupano di ecologia profonda e bioregionalismo. La rete consente libertà di azione locale e il perseguimento di fini comuni, collegati e coniugati ai diversi territori e tematiche bioregionali. Da quattro anni la Rete ha leggermente cambiato strutturazione, passando da nodi territoriali a nodi tematici. L’adesione al Movimento/Rete avviene per semplice condivisione dello stile di vita e delle tematiche, lasciando ad ognuno la propria libertà di occuparsi degli argomenti che di volta in volta emergono, per dare risposte necessarie contingenziali ai problemi e per proporre iniziative che possano aiutare le comunità. (Vedi Carta degli Intenti:
http://retebioregionale.ilcannocchiale.it/?r=28856). Annualmente in corrispondenza del solstizio estivo, si tiene un Incontro Collettivo Ecologista che vede insieme gli aderenti della Rete e di altre realtà “limitrofe” (ecovillaggi, comunità solidali, ashram, operatori di agricoltura biologica, etc.) per uno scambio di pareri ed esperienze.
Bioregionalismo e nonviolenza, bioregionalismo e ecologia profonda, come si coniugano queste relazioni?
Una breve premessa occorre farla. Bioregionalismo, ecologia profonda e spiritualità laica sono la trinità della nuova “religione” della natura.
L’ecologia profonda analizza l’organismo, le componenti vitali e geomorfologiche, le loro correlazioni e funzionamento organico ed il bioregionalismo riconosce gli ambiti territoriali (bioregioni) in cui tali processi si manifestano in forma qualificata di “organi” territoriali e culturali. Come terzo elemento componente c’è “l’osservatore”, cioè l’Intelligenza Coscienza che anima il processo conoscitivo, da me definita “spiritualità laica”. Ovvero la capacità e lo stimolo di ricerca e comprensione della vita che analizza se stessa. E soprattutto la sua messa in pratica.
E dal punto di vista della pratica non varrebbe la pena di risalire all’inventore del termine “bioregionalismo” poiché, come in effetti è per l’ecologia e per la spiritualità, è qualcosa che è sempre esistita, in quanto espressione della vita, perciò nelle diverse epoche storiche questi processi hanno ricevuto nomi diversi: panteismo, spiritus loci, animismo, etc. Ed in ogni caso questi tre modi descrittivi sono indivisibili l’uno dall’altro, come è indivisibile l’esistenza. Diceva un grande saggio: “Noi non possiamo essere altro che una parte integrante della manifestazione totale e del totale funzionamento ed in nessuna maniera possiamo esserne separati” (Nisargadatta Maharaj).
Il mondo è un grande laboratorio bioregionale. Forse non abbiamo bisogno di ricorrere alla Storia che con le interpretazioni di chi riporta, narra, commenta, fatti e comportamenti umani, non ci fa vivere o rivivere esperienze aderenti alla realtà dei tempi. Forse ci dobbiamo rivolgere a quel grande laboratorio che è il mondo oggi. Di fatto, in questo momento possiamo entrare nella storia, possiamo guardare a tutte quelle popolazioni presenti oggi nel mondo, che sono rappresentative di realtà che vanno da uno stato che non si discosta molto da quello primordiale a quello che rappresenta lo stato più avanzato della tecnologia. Questo gioco della natura ci consente un’osservazione diretta di sistemi di aggregazione sociale, culturale ed economica, di interpretarli e di cercare di capire che cosa fare per superare le vecchie e le nuove miserie e di essere attori entusiasti nel progetto di costruzione di un mondo equo, solidale, felice, e quindi con un futuro.
La “nonviolenza” quindi è la semplice conseguenza della consapevolezza di partecipare ad un tutto inscindibile in cui l’altro e noi stessi siamo un’unica entità. In questo senso la parola “nonviolenza” assume un significato più profondo, non è semplice astensione dal praticare atti offensivi bensì la comprensione che qualsiasi azione “violenta” è comunque rivolta a se stessi. Quindi l’uso della “violenza” è limitato alle sole azioni propedeutiche alla crescita, mai al soddisfacimento di vantaggi egoistici o di punizione e vendetta gratuita.
Tu sei stato l’iniziatore e il protagonista per anni dell’esperimento di Calcata, un “protoecovillaggio”, come dici tu…
Secondo il mio parere il vivere comunitario non può essere il risutato di considerazioni aprioristiche. Abbiamo visto infatti innumerevoli esempi nella storia di comunità sorte con la funzione di soddisfare intenti collettivi e che per lo più o si frantumavano o perdevano la spinta iniziale. Magari nel tempo cambiando completamente le finalità. Partendo da questo presupposto, la mia “discesa” a Calcata non fu in conseguenza di un atto deliberato o di una propensione idealistica. Semplicemente accadde che cercando un nuovo modo di vita comunitario, sotto la spinta delle mie esigenze spirituali ed ecologiste, capitai in questo paesino in corso di definitivo abbandono da parte della popolazione originaria e che era stato addirittura dichiarato inabitabile per ragioni di (presunta) pericolosità sismica. Ciò avvenne nei primi anni ’70 del secolo scorso da poco tornato dai miei primi viaggi in India. A Calcata trovai uno spazio vuoto dalle immense possibilità per rinnovate azioni culturali, abitato da una “masnada” di vecchietti che volevano morire dove erano nati. Questi vecchietti, custodi di un sapere antico e di un rapporto unico con la natura che circonda Calcata, furono i miei maestri per un nuovo – antico vivere nell’ecologia, nel sociale e nella totale semplicità e mancanza di pretenziosità nelle funzioni svolte. Da ciò nacque una successiva aggregazione di amici e parenti che come me sentivano l’esigenza di un “ritorno alle origini” e che trovarono sull’acrocoro di Calcata una nuova e promettente casa. Nel corso dei primi anni da quel primo gruppo di sperimentatori fu portato avanti un laboratorio assolutamente libero da finalità concrete. Tutto si svolgeva all’insegna del gioco, dell’innovazione fantasiosa, della ricerca culturale in piena libertà espressiva, nella ricerca di nuovi/vecchi mestieri da praticare con le mani oltre che con la mente. Un riconoscere la capacità di convivere con gli altri animali come componenti della stessa comunità umana (ovviamente non parlo di cani e gatti, ma di capre, pecore, asini, maiali, galline, ecc. Ecc.) e del poter vivere fra esseri umani in forme anticonvenziobnali. Questo meraviglioso esperimento nel vecchio borgo si ampliò e progredì e giunse ad un suo climax. Il culmine avvenne allorchè la comunità, inizialmente di pochi elementi, raggiunse il numero di un centinaio di abitanti, mentre il resto della popolazione calcatese, composta da circa 800 persone, si era definitivamente trasferita in un nuovo centro geograficamente separato. A quel punto soese il problema della inabitabilità delle vecchia Calcata. Non essendoci più residenti autoctoni (i vecchietti erano morti tutti), il rischio che il paese potesse subire la demolizione prevista nella legge sulla pericolosità sismica, divenne più tangibile. A quel punto fummo costretti a tentare la via istituzionale per modificare la suddetta legge. A quel tempo le mie amicizie politiche e giornalistiche erano consistenti e solide e non fu difficile far presentare una legge specifica di riqualificazione del vecchio borgo da parte di consiglieri regionali del Lazio. Purtroppo, salvata “istituzionalmente” la rupe e quindi restituito un valore reale agli immobili e quindi riportato il contesto comunitario all’interno di un contesto di economia utilitaristica, il destino di Calcata mutò irreversibilmente. Da libero e giocoso esperimento per un nuovo vivere libero dal limite dell’utile, divenne un “meccanismo” per la sopravvivenza di chi operava in una qualsiasi attività a quel punto divenuta remunerativa. Insomma, da emanatore di luce propria, il paese divenne uno specchietto per le allodole. Da teatro di strada a teatrino. Certo, non tutto è andato perduto: alcuni elementi hanno tenuto fede allo spirito originario continuando nella sperimentazione e nella “resistenza”, pur relegati in una sorta di esilio interno. Io ebbi la fortuna, dopo 35 anni, di poter lasciare Calcata, senza una ragione, ovvero, non per fuga da una situazione che lasciavo, bensì perchè attirato nel vortice di un nuovo inizio, intriso d’amore.
Tu hai studiato molto le città come forma di aggregazione umana; è fatale l’utbanizzazione attuale? Cosa si può recuperare del concetto antico di città come forma di aiuto reciproco tra esseri umani?
In una ottica bioregionale – dovendo analizzare i requisiti antropologici di una città ideale – occorre prima vedere gli aspetti di cosa è una città. Noi usiamo il termine città che deriva da “civitas” ma dobbiamo considerare anche l’altra definizione “urbs”, questi due termini hanno pari valore nella fondazione ed urbanizzazione del luogo abitativo.
Dal punto di vista antropologico sappiamo che una piccola comunità di 1000 persone consente a tutti i suoi membri la conoscenza personale ed inter-relazione reciproca. Ogni cosa prodotta ha come fruitori i membri tutti ed altrettanto dicasi per quanto è scartato. Nelle comunità antiche, nelle tribù che furono la base della vita umana per migliaia di anni, la reciprocità o solidarietà era elemento di sopravvivenza e sviluppo. Quando lentamente si giungeva ad una summa di tribù dello stesso ceppo originario (diciamo cento entità di 1000 componenti) si diceva che era nato un popolo, una società, insomma una “civitas”. Dobbiamo quindi partire da un elemento precostituito e cioè che l’ambito di una “comunità ideale” non dovrebbe superare i centomila abitanti. Ciò vale anche per una metropoli che andrebbe suddivisa in quartieri di tale entità, separati geograficamente da spazi verdi -con centri aggregativi comunitari-e connessioni “atomiche”. Perché? Per un semplice motivo: se tutti i componenti di una comunità “originaria” hanno interrelazioni in allargamento (diaspora) sarà possibile connettersi indirettamente o direttamente con gli appartenenti ai vari gruppi che compartecipano allo stesso luogo. Tutti individui diversi dal gruppo originario ma tutti “elementi effettivi” della stessa collettività.
Ampliando così il ramo di interesse dalla parentela vicina o lontana alla compartecipazione, somiglianza e convivenza nello stesso luogo. A questo punto le varie entità (o gruppi di individui) son paritetiche l’un l’altra, intrecciate in un contesto di relazioni e formano la base della città ideale. Forse i membri della città apparterranno a ceti diversi ma assieme a noi vivono nella città, con essi manteniamo numerosi rapporti personali come fra membri di una più grande tribù ideale. Questa si può definire società ed il processo descritto conduce a forte correlazione e socializzazione e vivifica l’intera comunità. Ma si può dire che centomila abitanti son un limite. Giacché questo è il livello d’interrelazione possibile e la città bioregionale -secondo me- deve comprendere criteri di suddivisione sociale che rispettino questi termini numerici.
Non ho nulla contro la vita umana negli agglomerati umani, ma occorre portare elementi di riequilibio all’insieme degli elementi vitali, materiali od architettonici che siano.
Il primo passo verso la riarmonizzazione delle aree urbane è il riconoscimento che esse si trovano tutte in bioregioni, all’interno delle quali possono divenire protagoniste ed ecosostenibili. La peculiarità dei suoli, bacini fluviali, piante e animali nativi, clima, variazione stagionale e altre caratteristiche che sono presenti in un luogo-vita bioregionale (ecosistema), costituiscono il contesto base per l’approvvigionamento delle risorse quali: cibo, energia e materiali vari. Affinché questo avvenga in modo sostenibile, le città devono identificarsi e porsi in reciproco equilibrio con i sistemi naturali.
Non solo devono reperire localmente le risorse per soddisfare i bisogni dei propri abitanti ma devono altresì adattare i propri bisogni alle condizioni locali. Questo significa mantenere le caratteristiche naturali che ancora rimangono intatte e/o ripristinarne quante più possibili. Per esempio risanando baie inquinate, laghi e fiumi affinché possano ridiventare sorgenti di approvviggionaento idrico e habitat salubri per la vita acquatica, contribuendo in tal modo all’autosufficienza delle aree urbane. Le condizioni che contraddistinguono le aree geografiche dipendono dalle loro peculiari caratteristiche naturali: una ragione in più per adottare i principi base del bioregionalismo, appropriati e specifici per ogni luogo e -soprattutto- utilizzabili per orientare al meglio le politiche municipali.
Le linee guida di questo mutamento possono essere prese da alcuni principi base che governano gli ecosistemi:
1) Interdipendenza. Accrescere la consapevolezza dell’interscambio fra produzione e consumo, affinché l’approvvigionamento, il riuso, il riciclaggio e il ripristino possano diventare integrabili.
2) Diversità. Sostenere la diversità di opinione così da soddisfare i bisogni vitali oltreché una molteplicità di espressioni culturali, sociali e politiche. Resistere a soluzioni che privilegino i singoli interessi e la monocultura.
3) Autoregolamento. Incoraggiare le attività decentralizzate promosse da gruppi di quartiere-distretti. Rimpiazzare la burocrazia verticistica con assemblee di gruppi locali.
4) Sostenibilità economica. Scopo della politica è quello di operare con interessi lungimiranti, minimizzando rimedi fittizi ed incentivando un processo di riconversione ecologica a lungo termine.
Un altro tema comune che ci sta a cuore: spiritualità laica: tu ne dai una definizione estremamente semplice….
Con la parola “spiritualità laica”. Si cerca di dare una connotazione “libera” alla spiritualità comunemente intesa come espressione della religione. La spiritualità è l’intelligenza coscienza che pervade la vita, è il suo profumo, e non è assolutamente un risultato della religione, anzi spesso la religione tende a tarpare ed a nascondere questa “naturale” spiritualità presente in tutte le cose. Spiritualità Laica è chiaramente un’immagine, un concetto, in cui inserire tutte quelle forme naturali di “spiritualità” sperimentate dall’uomo. Siamo consapevoli di muoverci all’interno della concettualizzazione dobbiamo perciò far riferimento all’agente primo evocato con l’idea di spiritualità. Se partiamo dalla comprensione di ciò che viene osservato -esterno od interno- non possiamo far a meno di riscontrare che ogni “percezione” avviene per tramite dei sensi e della mente.
La mente non può esser definita fisica, anche se utilizza la struttura psicosomatica come base esperenziale, la natura della mente è sottile, è lo stesso pensiero, ed ogni pensiero ha la sua radice nell’io. Quindi l’unica realtà soggettiva ed oggettiva attraverso la quale possiamo dire di essere presenti è questo io. Chiamarlo “spirito” è un modo per distinguerlo dalla tendenza identificativa con il corpo, ed è un modo per ricordarci che la “coscienza” è la nostra vera natura. Quell’io – o spirito- che è la sola certezza che abbiamo, è l’unica cosa che vale la pena di conoscere e realizzare. Malgrado la tendenza proiettiva della mente, capace di dividersi in varie forme, mai può “scindersi” quell’io radice, quello spirito. L’io è assoluto in ognuno.
Allora la spiritualità è il perseguire coscientemente la propria natura, il proprio io. Spiritualità laica è il riconoscere questo processo in qualsiasi forma si manifesti. C’è equanimità e distacco, non proselitismo sul metodo praticato (appendice marginale della ricerca). Questa visione laica ha in sé una capacità sincretica ma anche la consapevolezza dell’insignificanza della specificità della forma in cui l’indagine si manifesta. Si comprende che ogni “modo” è solo un’espressione dello stesso processo in fasi diverse.
Infine, in quest’epoca di catastrofisti tu cosa prevedi o ti aspetti per il futuro dell’Umanità?
Lo scrittore ecologista Guido Dalla Casa una volta al proposito di quel che possiamo aspettarci dall’esistenza mi ha scritto: “Nella fisica quantistica non esistono più il “vuoto” e il “pieno”: anche questo dualismo è scomparso, c’è solo un vuoto-pieno eternamente pulsante, il vuoto quantistico, o la sunyata buddhista, una danza di energie (psicofisiche) che continuamente nascono nell’Essere e svaniscono nel Nulla. In “grande”: siamo sul terzo pianeta di una stella di media grandezza, lanciata nel braccio esterno di una galassia qualunque. Non c’è nessun centro, di alcun tipo. “In altre parole: Non esiste alcun “mattone fondamentale della materia”: Esiste solo una meravigliosa danza di energie che continuamente nascono nell’Essere e svaniscono nel Nulla…”
Di fronte a questa verità cosa potrei “aspettarmi”? Tutto avviene da sé!
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