Cosmogonie ed "Avere. Essere. Storia" - Saggio di Lorenzo Merlo


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Genitori della perfezione. L’idea della perfezione, allusione all’equilibrio, si può riconoscere in tutte le cosmogonie.

È anche vero che Platone, Aristotele, Socratici e presocratici avevano dedicato il loro tempo al tema della perfezione. Ma, insieme alla questione dell’ordine, fu da parte loro trattata in termini prettamente filosofici e ontologici, vuoti di strumentalizzazione diretta verso alcuna ideologia. La loro indagine non ebbe ricadute politico-sociali paragonabili a quanto poi avvenne con l’illuminismo e il cristianesimo.


Fatti salvi questi i profondi legami filosofici relativi al binomio uomo-perfezione, per noi comuni moderni e postmoderni, può valere che, l’idea della perfezione derivi dall’Illuminismo, dalla sua capacità d’aver colto che il dominio della ragione avrebbe risolto molti dei problemi che avevano assillato la storia fino a quel momento. Un ordine si affacciava all’orizzonte. E sarebbe stata luce.


Ma, se l’epoca dei lumi ha generato il talento della ragione, il seme della paternità dell’idea di perfezione è da far risalire ad una precedente idea dell’ordine compiuto, quella cristiana. È quindi nella triade della compiutezza divina il gene di quella razionalista.


Se l’evocazione cristiano-metafisica concede a se stessa di sussistere, quella fisica, fatta di storia, esclusiva dell’intento illuminista, ha in sé il fallimentare virus dell’improprietà: cosa di più inadeguato all’uomo della perfezione? Come ridurre l’infinito umano entro lo stretto campo del razionalismo?


Lo sciamare da corpo a corpo di identici sentimenti ci rende individui-burattini. Appesi ai loro fili scambiati per realtà, il tirare e rilasciare non è mai del tutto nostro, almeno fino all’emancipazione nei confronti della loro tirannide.

Il movimento è invece relativo a come viviamo le relazioni. In queste, frugano le emozioni, incontrollabili detonatori o estintori di azioni, scelte, comportamenti, sentimenti. Veri e propri interruttori che aprono o interrompono il flusso di energia vitale.


Come detto, è un evento che accade indipendentemente dalla nostra volontà finché la serie di consapevolezze opportune non permetta l’osservazione del meccanismo del dominio e della dipendenza da emozioni e sentimenti e conduca alla liberazione.


Anche se abbiamo a che fare con due perfezioni, una della ragione, l’altra divina, una storica e una universale, il loro orizzonte immaginativo è il medesimo: per entrambe sussiste una possibilità evolutiva.


Luogo comune

La ribadita (come salvifica per chi la pronuncia) voce del Sommo: Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, è una formula che vale per ambo gli ideali di uomo perfetto.

Germina da un humus cristiano; nasce nel momento di un cambio di passo epocale (apertura al volgo); si afferma come comandamento morale e intellettuale. Autoreferenzia il portatore.

Contiene l’intero arco spettrale per riconoscere come la suggestione evolutiva possa farci indurre a credere di poterci separare o elevare dalla storia, dal suo fango, dal suo sangue.


Virtù come definitivamente acquisibili e conoscenza come se il sapere intellettuale, coincidesse con il bene, con il giusto e con il dovere santo. Non solo, come se esso fosse disponibile e acquisibile da chiunque.


Senza contare infine che la perfezione razionalista non ha più un’opzione aperta all’equilibrio. Nella sua tronfia corsa, perde per strada l’uomo. Essa si esaurisce infatti nel

superamento tecnologico permanente e nell’accumulo ad infinitum.


Astrazioni dal conosciuto

Sebbene non secondo la via della ratione e dei saperi cognitivi, nella storia delle culture del mondo, ci avevano provato anche altri – e ci erano pure riusciti – ad affermare uno stato umano perfetto in quanto in equilibrio e nel benessere, definitivamente alieno alle forme caduche della mondanità, libero dai dogmi delle ideologie e dai tanto facili, quanto inutili moralismi, stregua di fuorvianti superstizioni.

Erano, sono stati i tentativi tradizionali uniti dal comune svincolamento dall’incantesimo dell’io, quale autentico sarcofago che ci segreta a noi stessi.


Si può infatti vivere nutrendosi di prana; si può liberarsi dal conosciuto e rientrare nell’Uno; si può denudarsi di se stessi fino a recuperare la condizione energetica della materia e muoversi con i suoi flussi; si può perdonare e accettare e recuperare la felicità, vivere nella gratitudine.

Tutto si può una volta svincolati dalla rete a strascico dell’illusione scambiata per realtà.


Entro questa dimensione starebbe anche il cattolicesimo, purché nella sua lettura esoterica. Quella della vulgata è solo uno strumento politico-economico che nulla ha a che vedere con l’evoluzione personale che porta anche a camminare sulle acque.


Così in alto come in basso

Nonostante la lezione alchemica sia disponibile a tutti, nonostante essa abbia avuto sostenitori non certo considerati occultisti e quindi ciarlatani, essa pare scivolare anche sopra il più ruvido campo razionalista.

“Solve et coagula” – “Per orientarti nell’infinito, distinguer devi e poscia unire”. Goethe


Ma, tra la perfezione Razionalista e quella delle Tradizioni, sussiste una differenza fondamentale. La si può rappresentare graficamente adottando il piano cartesiano.

Per quella razionalista, troviamo disegnato un segmento diagonale che si allunga all’infinito. La luce è sempre accesa.

Per l’altra, un ingarbuglio di sali-scendi-avanti-indietro.

Una non ammette ricadute, la sua crescita è per sua natura permanente; l’altra sa che proprio nelle indefesse ricadute, trova il necessario al suo scopo. Nel buio la sua luce.


Avere

La prima via alla perfezione, quella razionalista, ha un carattere meccanico. La seconda, euristico e serendipidico.

Una esaurisce se stessa nel sapere cognitivo, l’altra è in grado produrre conoscenza attraverso molteplici doti genericamente estetiche.

Una, per essere, separa. L’altra vede l’insieme.

Una si libra nel futuro superando ogni ostacolo, dopo aver creduto di cacciare via gli umori umani come scorie svuotate di sostanza dall’intelligenza superiore che afferma. E anche, accompagnata e sostenuta dalla certezza che le acquisizioni intellettuali sono necessarie allo scafandro iperboreo, a sua volta indispensabile per sentirsi definitivamente superiori a coloro che non adottano il medesimo protocollo di perfezione.


La loro inconsapevole bandiera tecnologica, in cui si nasconde un ché di feticistico, è autosuggellata più che mai dalle potenzialità digitali. È vero, mostruose rispetto a quelle analogiche, ma anche mostruosamente superficiali sempre rispetto a quelle estetiche.

Sembra sventoli un preciso motto: oltre all’ego non c’è verità.


Ma c’è una controindicazione.


«Una delle conseguenze dell'era tecnologica è l'incidenza diretta che questa ha avuto sulla sfera del sentimento, colpendo anzitutto la percezione che l'uomo ha di se stesso. Questo perché, per la prima volta nella storia, nasce un nuovo tipo di vergogna: non più quella tra uomo e uomo ma quella tra uomo e macchina, tra l'uomo ed il suo prodotto, verso il quale viene avvertito un senso d'inferiorità. Il problema fondamentale dell'inadeguatezza dell'uomo, nell'incapacità di tenere il passo con il mondo dei suoi stessi prodotti, viene utilizzato da Anders per introdurre la vergogna prometeica. All'interno di un mondo altamente tecnologizzato l'uomo è chiamato al confronto con un'infinità di prodotti perfetti, una fabbricazione calcolata nei minimi dettagli che va a contrastare con il «processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita»1.2


Essere

L’altra modalità di perfezione umana, cristiana non caccia via nulla, semmai utilizza tutte le pochezze umane quali strumenti per accedere ai luoghi oscuri di noi stessi; per specchiarsi e riconoscersi nel prossimo, in particolare quello prima denigrato. Sa che le sue acquisizioni non sono definitive, non sono sue, non separano. Sa che possono essere perdute, sache il precipizio nella follia dell’identificazione con l’io è sempre a un passo. Una qualunque orgogliosa distrazione può farci precipitare negli abissi delle supreme superstizioni della scienza e dei suoi ideologici derivati.

Non ritiene che studiando e conoscendo cognitivamente si possano compiere passi avanti, semmai è consapevole che ogni dato di quel genere, se aggiunto come verità, rischia di appesantire, di opacizzare, se non annientare la nostra creatività o libertà di essere noi stessi.


«[…] perché devo infatti affermare che la verità è solo quello ciò che io posso affermare come vero? Chi ci dice che la verità non ci sorpassa o che la nostra mente (mens) è la misura di ogni cosa invece che lo specchio (la riflessione) della “misurabililità” dell’essere? E perché, poi, dovrei accettare solo ciò che mi si presenta in modo chiaro e distinto? Forse che la mia mente è sensibile solo all’evidenza razionale? Io devo– naturalmente – accettare come chiaro e distinto ciò che io vedo come chiaramente e distintamente; né d’altronde sono tenuto ad accettare come evidente ciò che non mi appare come tale; ma perché dopo tutto dovrei rifiutare ciò che ascolto, o ciò che vedo con minore evidenza? Non lo accetterò come “chiaro”, ma potrò sempre accettarlo nel modo in cui mi viene offerto. E non può darsi il caso che precisamente le cose “supreme” e le più importanti siano aldilà del campo visivo proprio al mio occhio nudo e limitato? Se io identifico la verità con ciò che vedo chiaramente come vero, io escludo con questo atto tutto quanto sta al di sopra o al di sotto o al di là di un elemento particolarissimo della mia facoltà conoscitiva, della mia ragione».3


Entrambe le prospettive, quella razionalista e quella cristiana, sono promesse di evoluzione.

Una con passaggi di accumulo di dati come gradini progressivi a garanzia. Misurabile.

L’altra con dolore, dedizione permanente e nessun titolo sancitorio di alcunché.

Una esogena, l’altra endogena; vanitosa e virtuosa; ufficiale e ufficiosa; riconosciuta, segreta; diretta e circolare; curricolare, senza valore per il Pil.


«Un momento irripetibile, uno sguardo, un sorriso, un’intuizione un sospetto, hanno un valore che non si lascia imprigionare dalla ripetibilità. Vale a dire che se riduciamo la conoscenza a ciò che può essere ripetuto, a ciò che può essere formulato con leggi, impoveriamo la conoscenza».4


Storia

Entro l’ambito di questi argomenti non si può omettere una terza concezione del mondo. È quella dell’Islam sunnita, il più diffuso.

In essa non v’è che la storia. Alcuna evoluzione umana è concepita. I sufi, prevalentemente sciiti, sono tollerati in quanto sorta di altra fede. Nel mondo sunnita hanno vita assai più dura. È la loro interpretazione spirituale del Corano a renderli negletti dai loro stessi fratelli musulmani.


Nell’Islam esiste dunque solo la storia. L’aldilà, la janna, di pascoli rigogliosi, freschi boschi di montagna, ruscelli effervescenti e 42 huri, vergini cadauno – purché non divorziati –, sono una promessa strumentale alla politica. Ma forse più rispettabile rispetto a quella cristiana in quanto si riferisce, nuovamente alla sola ma assoluta dimensione storica.

(Per le donne è promesso il ritorno all’età della giovinezza inteso come condizione di sposa, che implica anche la soddisfazione sessuale. Gli omosessuali non hanno accesso al Giardino del Paradiso).


L’umma, il popolo dei musulmani, rammenta che se il rapporto con Dio è individuale, non c’è alcuna distinzione tra i fedeli, qualunque sia la loro condizione individuale nella società. Non c’è neppure alcuna forma di clero. Il rapporto col Supremo non è mediato, né mediabile. L’imam, guida, conduce la preghiera a mo’ di funzionario competente, non è tramite di niente.


Anarchia compiuta

Ogni uomo, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, è tenuto a comportarsi secondo la shaaria, la legge divina che regolamenta ogni aspetto sociale. Il massimo possibile è semplicemente essere un buon musulmano, cioè assoggettarsi ai cinque precetti dell’Islam: la testimonianza di fede, Shahaada (Ašhadu an lā ilāha illā Allāh - wa ašhadu anna Muḥammadan Rasūl Allāh, Non vi è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta), la preghiera, Salaat (cinque volte al giorno), l’aiuto ai bisognosi, Zakat (dare ai poveri per permettersi di godere quanto guadagnato), il digiuno, Ramadan (per gli adulti, un mese all’anno, cibo e bevande sono al bando durante le ore di luce solare), il pellegrinaggio a La Mecca, Haji (almeno una volta nella vita, corredato ad altri rituali).


Fatto questo null’altro è chiesto al musulmano per entrare nel regno dei cieli. La sua condizione non prevede alcuna evoluzione verso una condizione ultrastorica. Il perdono cristiano, e non solo, è sostituito con la legge del taglione, a sua volta di copyright non islamico. Ed è forse in questo punto – simbolicamente inteso – che si apre il bivio in cui le strade della cristianità e dell’Islam si separano da quella magistrale tracciata dall’Ebraismo. Sufficiente a sostenere le due visioni o le due psicologie. Quella cristiana orientata al cielo, quella islamica orientata alla terra.


Forze telluriche

Per l’islam, la storia si ripeterà in eterno perché gli uomini saranno sempre identici a se stessi. Così come hanno fatto in passato, faranno in futuro. Il loro dovere è dunque uno soltanto, non è scisso tra religioso e laico. La loro società è integrale, non a caso nelle moschee non si va soltanto a pregare, sono edifici sociali.


L’islam ha un centro esclusivamente terreno, in esso c’è il nucleo della sua forza. Un centro che altrove si è disciolto tra gli umori liquidi e arroganti del narciso individualismo dell’ultimo uomo nietzscheano.


Nessuna escatologia metafisica lo può far dubitare di se stesso o anche solo criticare. Nessun razionalismo o logica aristotelica, né bieco positivismo può nuocere l’ontologia dell’islam.


Anche in una loro espressione si trova la presenza dell’esigenza di perfezione. Così come la rappresentazione umana a mezzo di pitture, sculture, eccetera corrisponde ad un oltraggio nei confronti di Allah, la ricerca architettonica, artigianale e decorativa – nota nel mondo per la sua particolare estetica e precisione formale – rappresenta tanto la totalizzante devozione a Dio, quanto la massima tenzone che gli uomini possono compiere per innalzarsi al medesimo.


Tre perfezioni

Le tre perfezioni, quella razionalista, quella delle tradizioni e quella storicistica dell’islam hanno in sé tre diversi epiloghi o destini per l’uomo.


I

Per la prima, quella della positivistica tirannia della ragione, si può prevedere il crollo, l’implosione. Come infatti tifare – consapevoli della finitezza della storia – ad una crescita infinita se non ipotizzanto una permanente obsolescenza di ciò di cui si dispone? Come non valorizzare il crescente impoverimento umano generato dalla sottrazione di uno scopo esistenziale, sostituito da merci e da valori ad esse soggetti? Come non tenere in considerazione il crescente numero di disturbi psicologici, di incapacità di gestire se stessi.

Ma anche, come considerare accettabile la sua riduzione dell’uomo a cosa o carne da mercato? È proprio del liberismo ridurre la realtà – politica inclusa – al solo paradigma del mercato, celebrare l’individuo e disgrerare le comunità.

Esso è consapevole che l’infinito presente in noi non è comprimibile, che eccedere nella pressione ha forti controindicazioni. Provvede al problema con la soporiferizzazione attraverso la comunicazione, ormai anche elaborata attraverso il furto dei dati che le servono per soddisfarci.

La realtà dello spettacolo non è più un monito situazionista, non c’è più bisogno di scomodare Orwell, The Truman Show, Quarto Potere, Matrix, Huxley, Nietzsche, basta affacciarsi alla finestra.


Viviamo addormentati dentro la logica della Torre di Babele. Scambiamo il sogno per realtà ultima nei confronti della quale l’Intelligencija che si crede tale, i titolati, gli specialisti, i curriculati, non sanno fare altro che assecondare il sogno.


La perfezione razionalista, supportata dalla fisica meccanica classica ritiene di produrre conoscenza seguitando a scomporre l’unità. Forse la fisica quantistica, apparentemente la salverà, di fatto la ridimensionerà, obbligandola ad abdicare al trono supremo sul quale ha per qualche secolo dominato le menti. Finalmente potrà occuparsi di amministrazione delle quantità e lasciare che delle qualità e dell’invisibile si occupi chi è in grado di interpretare il mondo nelle relazione, in modo volumetrico, scorgendo cioè il flusso energetico degli intenti particolari e generali che vi fanno campo.

Un compito che la fisica quantica è in grado svolgere sebbene non supportata da nessun grande network del mondo affinché la nuova concezione della realtà si diffonda.

Il suo potere è inoltre sincretico. Tende a riconoscere – se già non si possa dire l’abbia già fatto – l’attendibilità della ricerca espressa dalle tradizioni storiche. Ecco dunque, la sola sopravvivenza del vecchio reame razionalista rimarrà soltanto nel settore amministrativo della realtà.


II

La seconda, quella della ricerca evolutiva, comunemente intesa come spirituale, è in realtà una via in cui si arriva ad avere a che fare con se stessi. Si arriva cioè a prendere coscienza che fino a prima si aveva a che fare con l’idea di se stessi, con l’io.

Sebbene anch’essa, come il cristianesimo, la scienza e ogni profondità umana, sia soggetta ad una dimensione degradata a vulgata, definita da luoghi comuni che nulla hanno a che spartire con la nuce dei principi originari – solo poi esoterici –, in essa si può cogliere la disponibilità di un equilibrio possibile, per quanto da non considerare definitivo.

Il connotato essenziale della vulgata è circoscrivibile a un’impropria interpretazione dei concetti in questione. Improprietà che deriva dall’inconsapevole impiego di strumenti logico-positivisti applicati a formule che si rivelano nella loro natura soltanto se ricreate attraverso l’ascolto e ad una sorta di nolontà, una libertà dal conosciuto e quindi dalle pretese dell’io.

Ma c’è un secondo livello di degrado che è opportuno riconoscere: la comprensione intellettuale, l’acquisizione concettuale scambiata per l’ultimo gradino da superare per accedere ai segreti. Un equivoco assai sconveniente per il ricercatore e di non facile isolamento. Tuttavia, quando subentra una presa di coscienza opportuna, compare la cima dell’incarnazione. A quel punto, l’anticima della comprensione cognitiva dimostra la sua distanza dalla vetta. Dunque non si tratta di riconoscere la vetta ma di esserla. Cessare di riflettere luce e divenirla.


Resta vero che si tratta di una evoluzione che sebbene sulla carta possa interessare tutti, di fatto l’attuale realtà dello spettacolo certo non invita ad avviare attenzioni in profondità, così come l’individualismo edonistico non favorisce la dedizione permanente necessaria a questo percorso. Rimane perciò una ricerca ristretta a coloro che, avendone l’esigenza, come l’acqua che trova il passaggio più carsico, in autonomia trovano come perseguirla.

Il destino della ricerca di sé implica la tendenza alla forza e alla stabilità dell’essere umano. Al momento appare ancora utopica per la maggioranza, ma molti segni dispersi negli oceani delle forme, fanno sospettare che l’accelerazione possa stringere i tempi. L’eventuale o la prevista implosione del paradigma egoico, potrebbe essere un elemento scatenante la cultura della natura, o psicologea come ho sentito dire.


III

La terza, o islamica, ha il forte argomento che tende ad essere soddisfacente per tutti i generi e le categorie d’uomo, fatto salvo le nature più sottili; tende a tenere uniti ciò che altre forze della vita hanno separato. Se il dramma esistenziale è sintomatico di un corpo che si concepisce come una macchina, nell’islam, il rischio di psicopatologia tende a non sussistere.

L’uomo è quello che è, indipendentemente dalla condizione sociale che riveste. Se il suo compito è rispettare la parola di Allah, come sospettare possa disperdere la sua intelligenza tra i rigagnoli di una realtà mercificata e opulente?


È anche in questo punto che l’invasività della cultura occidentale ha premuto eccessivamente fino a provocare il risentimento nei confronti dei musulmani – secondo gli islamisti – permissivi, degli sciiti e dei cristiani.


Diventa allora facile, intendere strumentale a certo pensiero uniformato, riconoscere il carattere fondante della jihad, la guerra al kafir, all’infedele in quanto corruttore di una stabilità e di una forza dell’uomo che appare doverosamente invidiabile dai molli castelli del nostro assistenzialismo, dai nostri corridoi di ospedali, di scuole, di parlamenti.

Purché non si creda che gli strumenti razioni si possano aprire gli scrigni di queste verità, diventa facile comprendere l’intento della shariaa, la sua offerta di serenità. La grande diffusione della Poesia che si dispiega nel mondo musulmano forse ne è una conseguenza.


«L’islam nasce in posizione di protesta contro un ordine sociale religioso, quello tribale pagano che lo precedeva in Arabia nel secolo VII, ma non in posizione di critica o di negazione del mondo terreno in quanto tale.

Fin dall' inizio l’islam si presenta come un movimento che intende rivendicare a sé l’intero ciclo dell’esperienza, del sapere, della volontà, della vita umana individuale e sociale, per portare a compimento nel mondo i disegni di Allah. Dunque niente posizione ambigua rispetto alle realtà mondane: non c’è bisogno di far capriole metafisiche per accettare insieme i ricchi e certe parabole sulla cruna degli aghi, la guerra e l’amore universale, lo stato e la chiesa, la carne e lo spirito, per superare tutti quegli innumerevoli dualismi che minano l’endocosmo cristiano e la civiltà occidentale»5.


«[…] la parola religione - se intesa in senso cristiano - è intraducibile in termini dell’islam ortodosso sunnita. Siamo di fronte a due endocosmi strutturalmente diversi»6.


«Il termine stesso di islam (abbandono alla volontà divina) non esprime tanto, come si suol credere, l’accettazione passiva del fato, quanto la coscienza della signoria totale ad Allah»7.


«[…] una fede che investe tutta la vita attuale, reale, immediata, terrena, soda, succosa, integrale, con la sua politica e le sue guerre, i suoi affari ed i suoi amori, senza innalzare divisioni tra sacro e profano, tra chiesa e stato, tra sacerdozio e laicato. Questo, non v’è dubbio, è un formidabile elemento di forza, è la famosa «democrazia musulmana», che spiega in qualche modo la costante vitalità dell’islam e il suo fascino per tanti popoli lungo i secoli».


Lorenzo Merlo 



1 Gunther Anders, L'uomo è antiquato. I. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati-Boringhieri, Torino, 2003, p. 32.

https://mondodomani.org/dialegesthai/vru01.htm#

3 Paolo Calabrò, Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne, Reggio Emilia, Diabasis, 2011, pp. 64-65.

4 Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, Milano, 2005, p 217

5 Fosco Maraini – Paropàmiso – Leonardo da Vinci, Bari, 1963

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Intervista con Paolo D'Arpini di Lorenzo Merlo su bioregionalismo, ecologia profonda, spiritualità laica



LM: Paolo, come sei definito dalle persone?

P D’A: Sderenato. Anzi mezzo sderenato, perché sono anche una persona abbastanza equilibrata e anche un po' impegnata.

Ma mezzo sderenato penso sia una tua definizione di te stesso, le persone, come ti definiscono?

Se potessero conoscere il significato del termine mezzo sderenato credo che lo userebbero volentieri perché mi rappresenta.

Ma non conoscendolo?

Non conoscendolo forse potranno dire che sono un tipo particolare molto strano, un po’ mezzo sciroccato in sostanza, anche perché il mio modo espressivo si manifesta in questa forma.

In occasione della tua presentazione a una mia pubblicazione, ho scritto di te: "Uno dei referenti della ricerca umanistica, per non dire spiritualistica italiana". In che termini ti calza? O non ti calza?

Ci sta perché nella ricerca spirituale non è importante ricoprire una carica autorevole anzi, è esattamente il contrario. Se noi andiamo a vedere la funzione che svolsero gli insegnanti, o santi, o maestri che furono, erano sempre sotto traccia. Poi dopo, successivamente magari, venivano portati in auge e descritti come chissà che, ma nel momento in cui vivevano la loro normale esistenza terrena, erano persone normalissime, probabilmente anche abbastanza emarginate. È un aspetto da tenere in considerazione.


C’è una sorta di piccola vanità – senza accezione negativa – nel ricordare questa similitudine?

Certo, senza accezione negativa. Perché effettivamente non ci si può vantare di essere un maestro. E se non c’ è il vanto, non c’è neanche l’esposizione di se stessi nel mondo; ne è una conseguenza. O perché si è magari incapaci di esprimere sentimenti, pensieri o, scusa la parola, insegnamenti. Non si può fare come se fosse un insegnamento cattedratico dove uno si erge a maestro. Il compito o la missione deve essere, o può essere fatto soltanto in una forma del tutto semplice e conviviale.

Quanto hai appena detto, ha dei legami con la tua educazione, la tua famiglia, la tua biografia diciamo giovanile?

Può darsi. Nel senso che devi sapere che la mia famiglia (dal lato paterno) era di origine ebraica. Durante il periodo fascista, per evitare i problemi che tutti possiamo immaginare, mio nonno decise di cambiare il cognome e di convertirsi al cristianesimo e così evitò di essere perseguito. In seguito a ciò, non è che la nostra famiglia fosse diventata cristiana, però era diventata laica. Nel senso che non seguiva più nessuna forma religiosa. Questo imprinting in qualche modo mi è rimasto, nonostante a quel tempo non è che fossi particolarmente consapevole di ciò che era avvenuto. In seguito ne venni a conoscenza e compresi il motivo per cui non c’erano particolari convenzioni religiose nella mia famiglia e ci si limitava nel perseguimento di un’etica umana. Tutto ciò è stato importante per me, perché non sono stato impregnato di una particolare religione. In seguito alla morte di mia madre fui invece mandato in collegio dai salesiani e lì cominciai ad apprendere anche qualcosa della religione cattolica. La novità mi prese però per breve tempo, nel senso che appena capii che il cattolicesimo non era altro che una sequela di dogmi e favole, capii che tutto sommato non faceva per me e quindi proseguii sulla strada della laicità. Nella prima parte della vita tutti i bambini vivono in una dimensione dove ciò che sognano si realizza, perciò se sognano di cavalcare nel cielo, prendono una scopa e la cosa si compie. E non possono che riferire di aver cavalcato nel cielo.


Quell’incanto quando si è interrotto per te? Ti ricordi il momento, o la circostanza o l’episodio che ha provocato l’infrazione?

L’interruzione avvenne per un fatto fortuito che improvvisamente mi rese consapevole della vacuità di ciò che appare. Avvenne tantissimi anni fa quando i miei si erano trasferiti a Trieste a causa di mio padre che lavorava nelle ferrovie. Ero un bambino piccolissimo, avrò avuto forse tre anni, o qualcosa di più. Una sera, voci sotto casa annunciavano lo spettacolo di un circo. La promessa dei miei genitori, che mi avrebbero portato a vedere lo spettacolo, accese – come sarebbe accaduto ad ogni bimbo – la mia eccitazione.
Mi ero piazzato sotto al tavolo e mi agitavo come fa un bambino che cerca di attirare la attenzione. Improvvisamente, alzandomi in piedi sbattei la testa e persi i sensi. O forse no, perché ricordo che ero perfettamente consapevole di ciò che stava accadendo. Tuttavia caddi a terra senza più riuscire a muovermi. Intanto però vedevo che i miei genitori mi prendevano, mi portavano a letto, cercavano di rianimarmi. Ero completamente cosciente e allo stesso tempo non compivo alcun gesto, alcun movimento.
Fu da quell’esperienza che mi resi conto, che ciò che consideriamo reale, non è la realtà come se fosse un oggetto, ma è soltanto uno stato interiore della consapevolezza. Quello stato permaneva nonostante l’apparente o effettivo svenimento. Quando riaprii gli occhi mi ritrovai in mezzo al mondo con questa consapevolezza. Per la prima nella mia vita mi accorsi di non essere nel mondo pur essendo del mondo, almeno in qualche forma.



Lungo il tuo percorso ti sei avvicinato alla dimensione altra, alla dimensione che la cultura non ci passa, chiamiamola genericamente spirituale. Pur condividendo la tua critica al concetto di insegnamento, hai avuto un maestro?

Da un punto di vista formale intendi?

Volevo arrivare a chiederti, da cosa è scaturita la tua ricerca spirituale?

È scaturita soltanto da esperienze vissute, non da trasmissioni consapevoli, di conoscenza se così vogliamo chiamarla. A parte l’apprendimento attraverso libri in cui magari venivo a conoscenza di una certa forma di spiritualità “altra” basata sull’autoconsapevolezza e sulla ricerca di sé. Ma quello era un accrescimento se vogliamo intellettuale. Dal punto di vista invece spirituale vero e proprio, quella conoscenza non può essere trasmessa sul piano intellettuale. Può essere invece assorbita soltanto attraverso una trasmissione diretta, attraverso un riconoscimento diretto. Potremmo chiamarlo energetico, vibratorio o estetico. Ed è esattamente il tipo di rapporto che ebbi in primis con il mio maestro spirituale. Con il quale scambiai pochissime parole, ma tutto quanto passò attraverso una trasmissione energetica, diretta, immediata. Non c’era assolutamente bisogno di spiegazioni perché la consapevolezza avveniva da sé. Usare il termine telepatia è limitante. Avveniva perché c’era un’osmosi totale, una totale condivisione. E quindi quello che passava era semplicemente ciò che veniva risvegliato. Non poteva proprio essere definito un insegnamento.


Da allora, dalla giovinezza ad oggi, sono passati diversi decenni. Puoi puntualizzare i passaggi della tua evoluzione, della tua ricerca?

Corrispondono alle fasi della vita. Nei periodi in cui la giovinezza ci rende più baldi, più fieri e più dediti all’agire, le forme di esperienza si manifestavano anche in modi concreti come attraverso ad esempio dei viaggi. Intrapresi infatti un lungo viaggio in Africa con mezzi di fortuna, spesso a piedi. Tutta l’Africa nera mi insegnò il ritorno alla presenza nella natura, mi sentii vicinissimo agli animali. Incontrai anche animali che consideriamo pericolosi come leoni, elefanti, scimmie soprattutto. Sono una forma di riconoscimento della nostra origine che ci fa capire quanto siamo loro affini.

Il momento in cui sei inserito ora, sul quale sei concentrato, si chiama spiritualità laica, ecologia profonda e bioregionalismo?

In questa fase è come quando si va avanti con l’età. A un certo punto si fa una sintesi di tutto quello che si è vissuto e che si è appreso attraverso l’esperienza. In qualche modo si chiama elaborazione e rielaborazione, memoria, visione all’interno e proiezione. Accade anche in forma di dialogo, come stiamo facendo in questo momento.
Magari, come negli anni trascorsi, quando non ero così propenso a un dialogo di questo tipo, che in qualche modo comporta anche una concettualizzazione se vogliamo così chiamarla, avevo uno spirito più poetico, scrivevo poesie o raccontini. Adesso invece per poter condividere non disdegno l’uso anche di terminologie che forse potrebbero essere definite intellettualismi, perché comunque è un modo per precisare il significato.
Mi viene in mente un amico, Massimo Angelini. Un giornalista anche lui, che ha scritto (e che abbiamo presentato qui a Treia) un libro dal titolo Ecologia della parola. In cui, attraverso il percorso etimologico, si scoprono i cambiamenti dei significati. Si da un valore alla parola attraverso la sua vera accezione. È uno studio sui significati reali che le parole hanno assunto nel tempo, senza mai trascurare l’accezione originale. Quindi, quando si parla di spiritualità laica – un tema sul quale scrivo da diversi anni per la rivista NonCredo – Il primato laico del dubbio, tengo presente che il primo punto della spiritualità laica è quello di non identificarsi con qualsiasi credo, con qualsiasi fede religiosa, perché la spiritualità laica non è soltanto una forma di laicità o di laicismo, è la spiritualità naturale dell’uomo. Quella che in forma di ecologia profonda possiamo definire l’intelligenza-coscienza, che ci consente di poter testimoniare la vita.
Tuttavia, nella spiritualità laica c’è una predilezione della relazione con la natura o addirittura un annullamento della relazione con la natura, a causa di un’identificazione di noi stessi come parte della natura.



Questo non è in qualche modo legato al paganesimo o all’animismo e perciò con un contenuto di fede?

Ci sono delle affinità. La differenza sostanziale è che nel paganesimo si faceva riferimento ad enti, ad entità reali rappresentative della natura. Quindi Genius Loci o, Spiritus Loci. Mentre invece nella spiritualità laica si tiene conto della valenza di tutti gli elementi viventi, o anche non viventi che però rappresentano una sostanzialità nella natura, ma non come forme di dignità altre, sono solo espressioni diverse della totale manifestazione naturalistica. Allora potremmo definire l’ecologia profonda una forma di naturalismo, ma nell’accezione in cui tutto è, non nell’accezione di una parcellizzazione delle forme.
Questa differenza delle forme è chiaro che esiste come esiste la differenza tra tutti gli esseri umani o fra tutto ciò che è vivente. Non c’è una foglia dello stesso albero che sia uguale all’altra. Non c’è un granello di sabbia su migliaia e migliaia di granelli che sia uguale all’altro. Ciò non toglie che tutti rappresentino la medesima sostanza, origine, madre. Questo è importante.
Per cui la spiritualità laica, è laica perfino nei confronti della spiritualità laica.


Proviamo a descrivere la natura o l’identità del Bioregionalismo e dell’Ecologia profonda.

Inizialmente il bioregionalismo aveva un carattere prevalentemente geografico. Adottava gli habitat naturali per suddividere le regioni della natura. Dava all’area considerata il titolo di entità organica. In quanto i suoi differenti abitatori, minerali, vegetali e animali si erano aggregati a mo’ di organismo unico.
Peter Berg è stato colui che s’è inventato la parola. Di lui ricordiamo Alza la posta. Saggi storici sul bioregionalismo. La sua scia è stata seguita da altri, tra cui Gary Snyder con La pratica del selvatico. Buono, selvatico, sacro e altri titoli.
Nel frattempo – la questione era iniziata negli anni ’60 del secolo scorso, negli Stati Uniti, connessa alla Cultura Beat – il bioregionalismo ha evoluto il suo contenuto andando praticamente a condividere il principio base dell’Ecologia Profonda, ovvero che c’è una sola vita, che tutto è sua espressione.
Ma il tuo stesso libro Sul fondo del Barile - Crisi sociale e recupero del sé o quello di Guido della Casa, Ecologia Profonda, sebbene, appunto, in chiave di ecologia profonda fanno riferimento alle espressioni della natura come differenze formali, tutte interdipendenti, di una sola vita. Come è per i vari organi di un organismo vivente. Solo successivamente interviene la descrizione degli organi specifici, ma sempre tenendo presente che esso, come tutti gli altri sono terminali della stessa natura. Una montagna, un fiume, un deserto, una pianura, cioè ogni cosa, ha la sua specificità, in cui la vita si manifesta in un certo modo, con forme differenti e con aggregazioni funzionali. Un’eventuale pan-ingegneria sarebbe disastrosa.


Siamo espressioni di un grande corpo dunque?

Questo grande corpo non è soltanto la terra. Di solito nell’ecologia profonda ci occupiamo del pianeta Terra, Gaia, come una forma vivente in se stessa no? Allo stesso tempo l’ecologia profonda compie un passo verso quello che potremmo definire anche panteismo, secondo la visione di Giordano Bruno, dove tutto quanto ciò che è Uno si manifesta in ciò che è in tutte le forme.


Rispetto a questi tre temi Spiritualità Laica, Ecologia Profonda e Bioregionalismo, e coniugando la tua ricerca e contemporaneamente la conduzione di un blog e di diversi siti dedicati a questi argomenti, pensi di avere il polso della diffusione di questi concetti e della cultura che implicano? Oppure, qual è la maggiore difficoltà o il più frequente equivoco in cui le persone rischiano di incappare nei confronti di questi temi che interessano lo Spirito e il Tutto? Il Tutto in che cosa viene colto, in che cosa viene equivocato?


L’equivoco si manifesta a tutti i livelli, ad esempio nell’ambito bioregionale, ricordo che tanti anni fa partimmo con La Rete Bioregionale Italiana (ufficialmente nata ad Acquapendente nella primavera del 1996) e con l’idea di diffondere il bioregionalismo. Se ne appropriò la Lega Nord per definire le bioregioni come ambiti etnici, dove la vita delle persone era praticamente condizionata dalla cultura locale e quindi dall’etnia che viveva in quel luogo. Questo è stato un fraintendimento, perché tutti noi bioregionalisti ci riconosciamo nel luogo in cui siamo nati o viviamo.
Quindi bioregionalista può essere anche una persona che non è nata nel luogo, ma che vivendolo lo riconosce come un’espressione di sé. A quel punto si integra completamente nel luogo. Ma non solo nel luogo, anche nella comunità con cui vive. E non solo quella umana, ma di tutti gli esseri viventi che vi partecipano. Per questo chiunque può essere bioregionalista in qualsiasi luogo, perché è soltanto un’apertura verso la presenza nel luogo. Questo è stato il primo fraintendimento.
Il secondo fraintendimento riguarda l’ecologia profonda. Come dicevi prima si fa quasi menzione a una sorta di New-age, dove tutto quanto è legato alla natura e i riti Wicca e questo e quell’altro.
Anche noi bioregionalisti organizziamo le celebrazioni dei vari equinozi e solstizi… ci sono determinati momenti dell’anno che vanno riconosciuti come importanti. Però non gli diamo un’importanza assoluta in quanto riconoscimento di una qualche divinità naturalistica. È soltanto un percorso da celebrare per essere felici di poter vivere nel momento in cui siamo. Un modo per riconoscere che altri, più belli o più brutti, hanno un loro significato e valore.
La maggior parte della gente, soprattutto quelli che fanno riti un po', diciamo così, pagani, magari preferisce festeggiare il solstizio d’estate, ricordare i Celti, Stone Ange e tutte le cose di quel genere, per contemplare la bellezza del sole nella sua pienezza. Ma altrettanto importante, chiaramente, è il solstizio invernale perché dopo la vita che si è richiusa ad approfondire le radici, risorge e pian piano ritorna ad esprimersi. Oppure l’equinozio di primavera, dove la vita ci riporta ad una bellezza. O quello d’autunno, come in questa occasione, dove condividiamo la consapevolezza che questa bellezza ha un grande valore.
Se in primavera di questo valore non ce ne rendiamo conto perché tutto quanto fiorisce, in autunno le cose che cominciano pian piano a scemare, hanno un significato più forte. Non a caso si dice che proprio l’autunno è il momento per la raccolta dei frutti migliori dell’uomo, per l’uomo. Come ad esempio la vite e l’ulivo. L’ulivo è simbolo di vita in assoluto, non soltanto in termini cristiani. La vite perché è quello spirito, il senso dello spirito e non a caso anche nella religione cristiana viene utilizzato il vino per la comunione.

Il mio pensiero è che il messaggio di Cristo abbia un grande valore, che i contenuti del cristianesimo abbiano un grande valore, mi riferisco per esempio non solo all’amore ma al perdono, soprattutto rispetto a quanto succede in altre religioni, dove il perdono è sostituito dalla legge del taglione. Il vero messaggio cristico più che cristiano, nella vulgata è andato perduto e sono rimasti quelli i dogmi, gli schemi, le gerarchie. Sei d’accordo con questa lettura? Sei d’accordo con il fatto che il cristianesimo abbia un grande annuncio da fare e l’ha fatto a suo tempo, del tutto frainteso, del tutto dimenticato?

Certamente sono d’accordo per quanto riguarda l’insegnamento del Cristo di cui noi abbiamo ricevuto soltanto briciole e anche travisate e manipolate. Sarebbe bella una ricerca, soprattutto per quanto riguarda dei messaggi più genuini di quelli che sono chiamati i Vangeli Apocrifi e anche dei famosi Rotoli di Qumran, dove c’è l’insegnamento esseno che corrisponde a quello cristico ma a lui antecedente. Comunque possiamo riscontrare che questa filosofia, continuiamo a chiamarla cristica, è sicuramente un messaggio innovativo all’interno di tutta una serie di impostazioni religiose che in quel periodo erano dominanti nel Medio Oriente mediterraneo.
Il senso del perdono che non è come viene inteso, un calcolo per sottrarci alle nostre responsabilità, come molti fanno nei confronti della confessione. Come stavo leggendo in un testo scritto da Franco Berrino, Daniel Lumera, David Mariani – Ventuno giorni per rinascere – Mondadori, dove il perdono è un reggente della guarigione se autentico amore.
Poi c’è il perdono razionale che calcola, che si considera valido per cancellare dalla nostra mente la tendenza alla recriminazione. E poi c’è quello emozionale, che è invece rivolto ad un perdono verso se stessi e quindi alla cancellazione anche del senso dell’offesa, perché si rivede nella trasposizione della posizione come: “è successo” e basta. E quindi non c’è neanche più bisogno del perdono.


Il perdono perciò corrisponde o è sovrapponibile a quello che la tradizione orientale ci tramanda come accettazione?

Io direi che è molto simile al concetto della compassione buddista. In quel caso la compassione equivale al perdono.

Quindi il perdono, la compassione, hanno un valore terapeutico nei confronti dell’individuo che riesce ad arrivare a quel livello per non ritenersi più offeso nell’orgoglio?

Certo non solo quello, ma è anche la porta di ingresso per poter accedere all’autoconoscenza. Perché poi essendo in grado di poterci identificare nell’altro attraverso il perdono, automaticamente siamo anche più propensi ad accettare noi stessi per quel che siamo e quindi siamo in grado di poterci vedere sempre più in profondità, fino a superare quel velo dell’illusione che ci fa identificare con un nome e una forma. Quel vedersi sempre più in profondità è ulteriormente terapeutico. Beh a quel punto direi che la terapia scompare. Fino ad un certo punto ci può essere, fino alla psicologia transpersonale noi possiamo intuire che c’è un percorso attraverso l’approfondimento, ma poi c’è una fase successiva che non può essere più razionalmente analizzata e quindi non ci può essere più neanche una terapia. Se vogliamo intraprendere un percorso in cui piano piano ci liberiamo della zavorra e dalle sovrastrutture è comunque corretto interpretarlo come perdono-terapia. Le vie spirituali, se sono sincere ed oneste tutto sommato danno questo indirizzo. Nel Taoismo, c’è l’abbandono. Pian piano impariamo a rilasciare ciò che ci aveva fatto assumere una posizione, che ci faceva considerare particolarmente benedetti, fino al punto di pensare di essere in grado di poter decidere, per la natura, per la vita, per gli altri esseri senzienti. Quindi fino a farci credere nel nostro egoismo.

Intervista rilasciata a Treia il 21 settembre 2019



Fonte: 


Abstract dal libro:

"Vivere, parlare pensare senza dire io" (di Lorenzo Merlo)

http://www.primicerieditore.it/prodotto/vivere-parlare-pensare-senza-dire-io-lorenzo-merlo/







Oriente ed occidente sono solo nella mente


Risultato immagini per Oriente ed occidente sono solo nella mente
La specie umana non può essere suddivisa in razze e ciò vale anche dal punto di vista culturale e spirituale. Se l'uomo si è fisicamente differenziato, nel colore epidermico e nelle fattezze somatiche, ciò è dovuto semplicemente all'adattamento al luogo, alla latitudine in cui si è insediato. Che egli  appartenga ad un'unica specie lo dimostra inequivocabilmente la sua capacità di fertilizzarsi e riprodursi unendosi a qualsiasi altro essere umano di qualsiasi etnia.    
Prima della grande diaspora  l'uomo ha sviluppato comuni modi espressivi, anche dal punto di vista del pensiero, e come esistette una lingua originaria, il così detto "nostratico", parimenti  si sviluppò un sentire emozionale condiviso, che possiamo definire spiritualità naturale. I modi espressivi di questa spiritualità mutarono attraverso i millenni in base alle differenziazioni sociali ed ambientali, oltre che genetiche,  che vennero a crearsi nei diversi gruppi stanziatisi nel cosiddetto Oriente ed Occidente. 
Ma oriente rispetto a cosa? Occidente rispetto a cosa? Il pianeta è una palla che gira ed il trovarsi in oriente o in occidente è solo una considerazione utilitaristica.  Ogni religione è stata “creata” per confondere, mentre per fare chiarezza occorre distinguere, rinunciando a posizioni ideologiche precostituite. 
“Solve et coagula” – “Per orientarti nell’infinito, distinguer devi e poscia unire” (Goethe). Ma attenzione un conto è il giudizio ed un altro la discriminazione…
Malgrado  la ammissione di incongruenza descrittiva tra quella cultura che noi definiamo occidentale (meglio chiamarla mediterranea con sue diramazioni in America ed in Australia ed in parte anche in Africa) e quella che si è sviluppata  ed affermata in Asia (soprattutto in Cina, India, Giappone, Mongolia,  etc.) di fatto   si è venuta a creare nei secoli una radicale differenziazione.
La differenza sostanziale sta nel fatto che in oriente  si contempla  l’esistenza di un “Dio” assoluto ed onnipervadente, trascendente e immanente  che, essendo la sola presenza reale, comprende in sé ogni aspetto del manifesto e dell’immanifesto. Tutto esiste nell'Uno "non essendovi altro all'infuori di Quello". 
Mentre il Dio, meglio definito “arconte”, delle religioni monolatriche che prevalgono in occidente (giudaismo, cristianesimo ed islam) è frutto di una  assunzione e proiezione mentale dualistica. Un Dio diverso dalle sue creature e dalla sua creazione  di cui egli  è giudice ed osservatore esterno.  
La “religione” occidentale  dovrebbe in effetti essere definita "separazione"  e questo suo  dividere ha l'evidente funzione di sostenere i suoi  sacerdoti, papi, rabbini e mullah che utilizzano per fini speculativi il moto naturale, presente in ogni essere umano, del “ritorno” all'Uno! Essi hanno compiuto il più grande imbroglio, verso se stessi ed il loro prossimo, essi hanno  svolto la funzione ingannatrice separando ciò che è inseparabile per poi pretendere di volerlo”ri-unire” attraverso il perseguimento di un dettame religioso e la promessa di una “salvezza” riservata ai “credenti”.
In verità non v’è alcun obbligo a restare impantanati in un “credo” (il momento che ne abbiamo capito le conseguenze). Solo colui che insiste nel voler credere è compartecipe e succube di quel credo. Come chi vuole dividere l'umanità in razze elette e razze inferiori non è in grado di comprendere od accettare l'unitarietà della specie.
Eppure, non è il credere un semplice pensiero, una opinione? Quindi perché restare avvinghiati ad un qualcosa che è mera illusione, un emblema della separazione? Ed in questo caso viene persino oscurata quella naturale spiritualità di cui parlavamo all'inizio,  sostituendo  lo “spirito universale”  con la caparbietà e l’illusione egoica  di ritenersi separati.
Durante i vari appuntamenti che seguiranno  in questa rubrica cercherò comunque  di non entrare nel merito della  veridicità o falsità  delle religioni. Dal punto di vista della laicità di pensiero il credere è una libera scelta personale, quindi: “de gustibus non est disputandum!”. Cercherò comunque di aprire una fessura discriminativa, analizzando i vari modi espressivi delle religioni o delle filosofie che si sono affermate e conservate in Oriente ed in Occidente.  
La prima differenza sostanziale verte nel metodo di ricerca spirituale.  In occidente si predilige il credere, mentre in oriente prevale l’esperimentare. Il credere è statico ed è il risultato della memoria e dell’accettazione cieca, l’esperimentare è  dinamico ed è il risultato di una azione e di una discriminazione selettiva.
L’unica verità incontrovertibile è quella corroborata dalla propria esperienza… ma a meno che non si abbia una rivelazione diretta interiore affermare di credere in una religione è un esercizio mentale di volontà ed è privo di ogni sostanzialità. Cosa diversa nel caso di esperienza diretta o “realizzazione”. Siccome la “realizzazione” avviene nel Sé, e non è conseguenza di una ipotetica "salvazione" esterna,  possiamo tranquillamente affermare che  la “verità intrinseca” è l’unica reale verità, tutto il resto essendo semplice proiezione mentale.
Taluni, i  professionisti della religione, che prevalgono nelle fedi monolatriche,  ritengono che la pratica spirituale sia una sorta di “occupazione” come quella di uno studente o di un lavoratore che deve espletare specifici compiti per “ottenere” la salvazione. Questo atteggiamento “volontaristico” crea spesso aspettative e dal punto di vista spirituale addirittura allontana dalla vera conoscenza, poiché ci si fissa sul mezzo senza guardare il soggetto che vuole raggiungere la conoscenza.
Il vero  soggetto è il nostro stesso Sé ma noi lo ignoriamo e lo rendiamo un “oggetto” da perseguire. E  questo è il gioco dell'ego che si traveste da poliziotto per cercare il ladro che egli stesso è.
A proposito di questo “gioco” ricordo la frase pronunciata dal re Janaka di Videha *  che, dopo aver ascoltato e compreso l’insegnamento nondualistico impartitogli dal suo guru Vasishta, esclamò: “Ora ho compreso chi è il ladro e lo sistemerò immediatamente” (riferendosi alla tendenza a identificarsi con il corpo-mente che ritiene di compiere l’azione).
Insomma la foga nello svolgere il cosiddetto “dovere” religioso e la compulsione a praticare per ottenere risultati attraverso la volontà e la penitenza, può procurare forme di dipendenza e di illusione “spirituale” ed è una devianza rispetto alla sincera ricerca interiore.
Questo avviene quando ci si lega ad una setta, quando si aderisce ad una specifica religione e ci si affida alle indicazioni di un ipotetico “salvatore” o pontefice. Sembra che alcune persone abbiano bisogno di sentirsi “radicate” e affratellate in un gruppo compatto (spesso succede con i cristiani ed i maomettani, e simili fedi), soprattutto se stanno vivendo momenti di vuoto affettivo o di altro genere (preoccupazioni mondane, senso di mancanza o inadeguatezza, etc.).
Però mettersi contro apertamente o denigrare le scelte compiute da tali persone non le aiuta a comprendere la causa del loro bisogno di riempire un buco, che risiede nella loro incapacità di accettare se stessi per quel che sono senza pensare di voler forzatamente modificare lo stato di cose o la propria natura in funzione di un ipotetico ottenimento “altro”.
L’accettarsi soltanto può interrompere il meccanismo del desiderio e della paura, perché accettando si comprende la situazione vissuta nella sua interezza e la risposta confacente sorge spontanea. Ma l’accettazione talvolta è anche dolorosa. Questo riguarda ognuno di noi che vive nel mondo. Ma vivendo consapevolmente nel mondo si può comprendere la natura del mondo e della coscienza.
Comunque non si può definire od impartire una “cura” universale per le diverse anomalie di interpretazione della propria realtà, dicendo “fai questo o fai quello”. A volte abbiamo anche bisogno di perderci per poi ritrovarci. Ognuno deve poter crescere a modo suo.
Per sviluppare la chiarezza interiore ci vuole discriminazione e distacco. L’auto-indagine è la via più diretta per individuare il “ladro” che ci deruba della Consapevolezza (trascinandoci nel mondo della dissociazione e della speculazione).
L'auto-indagine non richiede altri aiuti se non la rimembranza e l’attenzione rivolta al Sé. in questo abbandono ed in questo arrendersi al proprio Sé sorge l’amore, e la comprensione di ciò che realmente noi siamo, aldilà della forma e del pensiero.
E di questo parleremo in seguito...
Paolo D’Arpini  
Risultato immagini per paolo d'arpini
*) il Re Janaka fu un regnante illuminato vissuto circa 5000 anni prima di Cristo, all’epoca in cui è ambientato il Ramayana. Janaka era il re dell’attuale Janakpur e il padre di Sita che divenne la moglie di  Sri Rama (Avatar  di Vishnu).