Sappiamo che il Buddha lasciò la gabbia dorata che il padre gli aveva costruito intorno per impedirgli ogni contatto con le cose spiacevoli della vita: la malattia, la vecchiaia e la morte. Ha lasciato, per la ricerca della verità, anche la moglie e il figlio. E' possibile che il Buddha abbia fatto questo a cuor leggero, senza valutare compiutamente le conseguenze della sua azione? Sarebbe facile rispondere che la ricerca dell'Assoluto, della Vera Realtà erano così forti in lui da convincerlo ad affrontare la dura vita dell'Asceta errante: che non ha più legami di nessun tipo con la Società umana convenzionale. Questo perché il convenzionale poggia su una realtà naturale, la vita, che si riproduce indefinitamente obbedendo al solo istinto codificato e conservato come un valore.
Ecco, con il suo primo gesto da uomo libero il Buddha ha messo in discussione proprio la verità e il valore della vita, così come comunemente intesa dagli uomini. Di fronte alla domanda: perché ci siamo? diventa secondaria l'altra domanda: come ci siamo? Ma dal punto di vista di un uomo libero anche questa domanda diventa primaria perché è quella che dà svolgimento alla nostra realtà di uomini liberi.
La rivoluzione del Buddha e stata quella di aver rifiutato la vita mondana, con tutte le conseguenze che questo comporta: niente padre, niente madre, niente moglie, niente figli: rifiuto cioè della realtà sociale umana in quanto tale. Questo significa aver riconosciuto come origine della vita la mancanza di una vera conoscenza, cioè l’Avidyà. L’ingenuo sguardo che vede la bellezza e la piacevolezza della vita è solo mancanza di vera conoscenza: il lasciarsi abbagliare dalla fantasmagoria delle cose che vi sono in questo mondo.
C'è un non fatto, un non nato, un non divenuto: ecco perché c'è rimedio al fatto, al nato, al divenuto. Risalire fino alla sorgente di tutto è il rimedio al tutto cosi come è. Allora è possibile che in questo tutto nasca una nuova comunità con altre motivazioni, ma che principalmente rifiuti il tutto. Questo proclama il Dharma del Buddha, questo professa la sua comunità, il Sangha. Questo significa la dottrina, il Dharma del non-sé: rifiutare se-stesso, uomo o donna che sia: non accettare più la propria condizione umana. Non giocare più i giochi che giocano gli esseri umani e cioè, uccidere, rubare, mentire, ecc. Ma anche copulare, fare figli e crescerli. Comprare e vendere. Lavorare ed edificare una società sbagliata perchè fondata sull'errore.
Caste e differenze sociali e culturali non hanno più senso nel Sangha. Non più il privilegio della ricchezza, della nascita, dell’erudizione. Tutto viene lasciato cadere: anche la vita biologica con le sue leggi di produzione e ripro-duzione. Perché mettere al mondo figli? Solo per saperli votati ad una vita di sofferenza? Noi che ormai ci siamo, lungi dal godere di questo mondo, sapendo che è il frutto di un errore, ci votiamo alla compassione, alla gentilezza e alla conoscenza per tutti.
Questo significa risvegliarsi: capire fino nell'intimo delle nostre fibre interiori che è tutto sbagliato. Non rimanere estasiati di fronte alla potenza del mondo: il sole che illumina e riscalda ha solo un'apparenza di bellezza, la pioggia che bagna e fertilizza la terra ha soltanto un'apparenza di bellezza, le grandi catastrofi dei terremoti e dei vulcani hanno soltanto un' apparenza di terrore e di orrido.
Il nostro amore e il nostro odio, hanno solo un'apparenza di felicità e di dolore. Un gesto gentile o scostante hanno soltanto un apparente valore. Vera gentilezza è solamente quella vòlta alla liberazione da questo mondo. Liberazione dal Samsara; mondo della rinascita e del dolore, in cui regna la legge del Karma, o legge di causa-effetto, e non la libertà della vera conoscenza, Vidyà.
di Gino Taddei (*)
(*) Gino Taddei, ricercatore spirituale, da molti anni interessato alle filosofie religiose, sia Orientali che Occidentali, negli ultimi tempi sembra aver trovato la sua collocazione devozionale nella Via Buddhista del Chan dei Patriarchi Cinesi. Frequenta abitualmente da parecchi anni il Centro Nirvana ed è stato a volte a fianco dell’insegnante Aliberth nel difficile compito di iniziare i principianti alla dura pratica della meditazione di autoconsapevolezza Chan.
Parlando un giorno a Treia con Caterina Regazzi, mia compagna di vita, delle capacità comunicative sensoriali e telepatiche mi sono ritrovato a spiegare come i 5 elementi ci aiutano a comunicare attraverso le loro energie, in forma sicuramente "ecologica" e naturale.
Ognuno dei 5 elementi tradizionalmente riconosciuti (sia in Cina che in India) rappresenta uno dei 5 sensi e noi sappiamo che i cinque sensi sono diversi canali e modi comunicativi fra la mente interna e quella esterna. Ma esistono anche cinque elementi più "spirituali" o psichici che superano la comunicazione fisica dello stato di veglia, questi 5 elementi definiti in sanscrito Tanmatra - 5 potenzialità sensoriali o elementi sottili - precedono i cinque Indrya, o sensi, ad essi subordinati.
Vediamo così che è possibile che le emozioni, i pensieri astratti, le sensazioni inconsce, possono essere trasmesse e percepite negli strati profondi della mente in forma di pulsazioni psichiche o telepatiche. Ma sulla base degli elementi di nascita che noi manifestiamo in forma congenita (sono diversi per ognuno) possiamo diversamente percepire e trasmettere queste pulsazioni psichiche o telepatiche.
A volte confondiamo tali pulsazioni con i messaggi psicosomatici e comportamentali e riteniamo perciò che la telepatia vera e propria non esista, trattandosi di una semplice capacità interpretativa della mente che osserva i movimenti, le parvenze, i piccoli particolari ed i vezzi facciali e degli occhi delle persone che noi stiamo ascoltando o osservando...
No, la trasmissione telepatica è possibile anche ad occhi chiusi o in silenzio, lontano dal "trasmettitore" o "ricevente" ed anche a posteriori od in anticipo rispetto agli eventi correlati... in tal caso si chiama preveggenza o divinazione. Ma questa qualità della mente non può essere volutamente utilizzata, come una tecnica di ascolto, al contrario funziona proprio in assenza di modificazioni mentali e supposizioni. Per questo si dice nello yoga che solo con la mente "vuota" è possibile collegarsi con il tutto che ci circonda, l'Aura mentale della specie umana (inconscio collettivo) e la Mente universale.
Durante i vari incontri per parlare della spontanea capacità "percettiva e divinatoria" (mi riferisco alle "letture" sull'I Ching e sistema elementale indiano) ho affermato che i diversi aspetti psichici da noi incarnati e le energie degli elementi che ci contraddistinguono formano una specie di “griglia” attraverso la quale noi riusciamo a percepire il mondo esterno e le situazioni sulla base della sintonia (od opposizione) incontrata. Ove questa “griglia”, il nostro modo percettivo, non aderisce con le situazioni e le emozionalità diverse che ci giungono dagli altri automaticamente sentiamo una forma di repulsione. La nostra empatia ed antipatia ed il genere dei rapporti che possono essere instaurati con le persone con le quali veniamo in contatto dipende solo dalla configurazione del filtro interiore delle predisposizioni innate. Ma, allo stesso tempo, la comprensione che ogni aspetto della psiche o dei colori delle energie (elementi) dipende dal movimento nel caleidoscopio della mente di un "qualcosa" di indifferenziato che è alla radice della mente stessa, è importantissimo per riconoscere la comune matrice.
I diversi aspetti nascono in seguito alla separazione primordiale, Yin e Yang, e dai movimenti consequenziali delle propensioni e dal raggruppamento in cantoni di accettazione e repulsione (sulla base dello specifico aspetto da noi incarnato in cui ci riconosciamo).
Le opposizioni sono però aspetti complementari della stessa energia archetipale, per cui le incomprensioni e comprensioni sono solo un “modus operandi” della mente ed un modo di riconoscere le affinità o le differenze, il fine della coscienza evoluta è comunque quello di riportare tutto all’unità.
Su questo stesso argomento, riporto le riflessioni della cara amica Antonella Pedicelli, docente di filosofia e referente della Rete Bioregionale Italiana per l'educazione ecologica, la quale afferma: Sperimentare la vita in un corpo materiale, rappresenta, per un essere umano, una continua possibilità di “apprendimento” e di evoluzione.
La scelta delle esperienze, ovviamente, non è casuale: ci muoviamo ed agiamo spinti da “forze e pulsioni” che, nella loro complessa varietà di nomi e appellativi, non fanno altro che determinare il “movimento” nella nostra quotidianità. Il movimento rappresenta, sul piano dell’esistenza pura, l’incipit di ogni creazione, il “bisogno” fondamentale del principio ideatore stesso.
Colui che è, in quanto tale, manifesta il suo essere nel movimento e nel conseguente continuo “fluire”, che, a sua volta, genera cambiamenti non immediatamente percepibili dal nostro umano sentire. Nei rapporti di vaio genere che tendiamo a “creare” in questo spazio-tempo scelto per l’esistenza nella quale trova dimora lo spirito che ci anima, spesso siamo soliti usare termini nei quali appare evidente il sentimento del “contrasto”, o per meglio dire, della “in-comprensione”. Io penso in un modo, lui o lei la pensano in tutt’altra maniera.
Questo è un fenomeno semplice, molto semplice e complesso insieme. Viaggiamo su “frequenze vibrazionali” che non sempre si trovano in sintonia, una specie di “carrello” che, per alcuni è dotato di freni, per altri no!
La direzione del carrello è la stessa, ma non la velocità e neanche l’energia impressa nelle ruote. La nostra singola percezione ci permette di intuire questo “meccanismo”, ma i “termini razionali” impressi nella nostra mente, creano la situazione del disagio, del pericolo e quindi assumono posizione di “difesa”, a volte con l’attacco,diretto verso chi la “pensa diversamente da noi”! In verità, invece, è solo una condizione come tante, uno “status” che sta “percorrendo la sua strada” al di fuori di ogni giudizio e di ogni “etichetta”.
Riconoscere la “diversità” è un passaggio importante nella crescita personale, sul piano dell’apertura universale e della fiducia verso noi stessi; accogliere la nostra “percezione” è un atto d’umiltà che rende speciale la visione della Vita.
Paolo D'Arpini
Rapito - Un mio alter ego felino