Il popolo di Diego Armando Maradona... oltre lo sport

 


La morte genera la vita: la scomparsa di Diego Armando Maradona ha generato una nazione composta di individui che altrimenti mai si sarebbero trovati insieme a piangerlo, a sentirne il vuoto, ad eleggerne il mito.


C’è un popolo che non sapeva di essere una nazione finché Diego Maradona non ha lasciato il corpo, la terra, la storia. È bastato un istante per radunare quelle genti eterogenee che mai avrebbero sospettato di potersi unire in un abbraccio necessario, sentito e voluto. Un gesto di concreta congiunzione, richiesto da quell’insorto senso di solitudine in cui Diego li aveva inattesamente lasciati. Quel popolo si è istantaneamente radunato in pianto, si è fermato, si è ritrovato in commossa preghiera. Quel popolo stava dimostrando la realtà immateriale dello spirito. Un istante dopo l’intimo cedimento, tutti i suoi individui si sono avvertiti corpo unico nella risonante celebrazione, nella simbolica santificazione, nell’elezione a suffragio universale, di uno come noi, a mito. Ed è accaduto senza diffusa, sconsiderata idolatria. Come se tutti fossero emancipati nei confronti del culto della personalità. Come se sapessero pienamente che non era Diego l’artefice di quanto li aveva ammaliati. Ma che, semplicemente, in lui si erano raccolte in un solo punto di forza tutte le invisibili linee della sorte necessarie all’eureka del genio del campo, mentre erano andate disperdendosi, più disodinatamente che in altri, quelle che le consuetudini sociali apprezzano ed ammirano.

Fa più notizia l’addio a un uomo poco apprezzabile piuttosto che l’addio a tante donne violentate”. Frase evitabile? «La Pausini forse non sa che Maradona è stato molto di più del miglior calciatore della storia. Diego è un fatto sociale, è il riscatto dei poveri e degli ultimi. Se un’artista non se ne rende conto forse non capisce nemmeno dove vive».

Ci racconta il “suo” Maradona? «Ho avuto la fortuna di giocarci contro e di conoscerlo fuori dal campo. A me non frega niente del privato delle persone. Mi ha stregato da giocatore e mi ha emozionato come uomo. Diego trattava tutti allo stesso modo: presidenti, compagni di squadra, magazzinieri, massaggiatori, dirigenti, tifosi. Era unico». Da: https://www.corrieredellosport.it/news/calcio/serie-a/roma/2020/11/29-76903403/nela_maradona_uomo_del_popolo_roma_da_vertice_


Quella moltitudine eterogenea che lo spirito di Maradona ha coagulato in organismo comune non è composta solo dai compagni di squadra, da chi gli ha giocato contro, né da chi ha lo ha preso a modello ancora al tempo dei respiri e dei tacchetti. Vi si trova anche il giudice che lo ha condannato per frode fiscale e così i suoi colleghi di toga che, per altre colpe storiche commesse dal caro estinto, piangono, insieme ai mafiosi coi quali faceva spensierata baldoria, come il resto del suo – lo si può dire – popolo. Si avverte il senso caldo nel magistrato e nel picciotto, per averlo conosciuto, per averci parlato. Loro, stroncatori di vite per mestiere, compiono insieme il salto della storia per abbeverare il proprio spirito da una fonte pura. Quantomeno, non così corrotta da quelle comuni.

Il 25 novembre 2020, insieme al corpo sono svaniti i suoi eccessi accettabili e quelli deprecabili, (per andarci leggeri). Tuttavia, per una catarsi intellettualmente prevedibile ma comunque carnalmente sorprendente, non se ne è andato il suo sentimento. O meglio, per una trasmutazione magica come le sue giocate, è vivido in quegli uomini e in quelle donne per i quali Diego – contestualmente alla notizia della sua morte – ha rappresentato una sorta di purezza elevatrice dalle pesantezze della vita di tutti e a maggior ragione dei semplici. E lo ha fatto senza elevarsi su scranni e balconi, lo ha fatto vivendo senza il peccato della debolezza e della meschinità. Senza nascondersi, senza viltà. Con coraggio. Cioè con una modalità che affascina quel popolo così grande da comprendere tutti.

Quel giorno, passando l’ultima soglia, lo spazio lo licenziava dalla vita materiale e, contemporaneamente, il tempo lo accoglieva in quella mitica. Vive ora, possibilmente più di prima, nel regno mondato dalle debolezze, ovvero dalle premesse del cosiddetto lato peggiore dell’essere umano. La purificazione è stata istantanea. Già prima, c’era nei suoi confronti un’indulgenza piuttosto rara. Una diffusa disponibilità a chiudere un occhio sull’uomo affinché l’altro, fissato sul genio del calcio, non si perdesse una sola occasione per toccare la bellezza. La condiscendenza, un privilegio riservato a chi è una dimostrazione di se stesso più che ai bacchettoni che dimostrano saperi e morali. Un beneficio che non gli ha mai fatto credere d’essere superiore agli altri, che non gli ha dato diritto di arroganze e pretese. Che lo ha fatto comportare come un capitano altro dai suoi compagni. Senza lamento e senza vittimismo, ha pagato tutto e se non è tutto, tutto avrebbe pagato se qualcuno gli avesse presentato i conti ancora in sospeso. A volte, è sembrato che certe vicende amare siano state per lui un’endovena di intrugli guerrieri. La sua indipendenza non è mai venuta meno e così la sua spontaneità. Così, per amore e orgoglio ha messo la faccia e con essa, il suo inconsapevole peso politico, in vicende che normalmente intimano ai deboli di stare lontani. Come la vicenda delle Malvine e il diritto all’impiego della mano de dios per umiliare a sua volta, quasi lui da solo, gli inglesi e con loro i britannici; come l’abbraccio a Fidel Castro che era contemporaneamente un dissenso alle politiche estere degli Stati Uniti. O più semplicemente, a carriera giocata esaurita, partecipando sempre alle partite internazionali di beneficienza.

Portava la maglietta del Che e ora altri portano quella con il suo volto. Spesso è modificato affinché qualcuno ci veda il Che e altri vedano l’astro del calcio. Ma non è per inganno. È una celebrazione disegnata, simbolica, in nome della sua solidarietà con gli ultimi, quelli per cui Fidel e il Che hanno fatto del loro meglio. Che dalle t-shirt escano gli sguardi di Ernesto Guevara o di Diego Armando, una volta osservati e socchiusi gli occhi, entrambi ci mostrano il senso della libertà e la ragione per la quale possono sovrapporsi, mimetizzarsi dentro un solo volto. E per conoscere quella sensazione, forte come una scossa, leggera come una speranza, non serve studiare. Basta il nostro sentimento per giustificare che di verità si tratta, per giurare che sappiamo di cosa stiamo parlando. Di cosa serve all’uomo.

In tutti noi la dimensione razionale si afferma nell’infanzia. A volte si rinforza così tanto che, come un’aliena mano di Giger rinchiude l’infinito che siamo in poche norme socio-morali. Ci prende allora una patologia che ci estranea dalle doti profonde e potenti che abbiamo. Da creatori, ci riduciamo a esecutori. Ci riduciamo a credere che la realtà esista davvero al pari di un luogo dalle strade già tracciate. Un territorio mentale, in cui il solo obbligo e impegno per vantare autostima è seguirle. Per altri e per Diego emancipati nei confronti del canale amministrativo della vita, per quelli che si sono difesi da quella mano avvolgente, la vita è un campo dove ricamare arte. Forse è in questo il magnete al quale quel popolo si rivolge come segatura di ferro. Un punto di ammirazione per noi comuni e di non semplice gestione per chi lo rappresenta. Il degrado cocainico e il colonnello Kurz (Apocalypse Now) ce lo dicono.

[Prima che la ragione avvenga a dominare l’eros e la vis siamo nel pieno dell’attuazione della potenza. Senza rischio di scoraggiamento realizziamo forse la cosa più complessa dell’esistenza, imparare a camminare. In quel periodo nessun ostacolo costituisce un impedimento. Così accadrà ancora per qualche tempo, in cui una scopa è davvero un cavallo e una fiaba la formula magica per volare. Quell’età, in ambiente motorio e psicologico viene definita condizione psicomotoria. È un periodo della vita in cui nessuna mediazione interviene tra intenzione e azione, nessuna separazione tra pensiero e realtà. Psicomotorio è quel comportamento che rivela sempre la nostra intima condizione sentimentale. È una caratteristica delle emozioni che, anche negli adulti, si rivelano sempre attraverso le espressioni del corpo. È quell’abbraccio che saltando sul posto non esiti a rivolgere allo sconosciuto vicino di gradinata quando la tua squadra segna.] Superata l’infanzia si inizia a calcolare cosa fare e dire, si avviano le doti strategiche per ottenere lo scopo per le quali vengono messe in campo. È quello il bimbo che abbiamo visto in Diego più di quanto non si veda nella media delle persone. È lì che abbiamo sentito il fascino e il richiamo subliminale, che ci ha permesso di identificarci con lui nella spuma della vita, quella che così tanto la cultura ha castrato. Un meccanismo di identificazione che nulla ha di diverso da quello che accade al cospetto di certe pubblicità dove le caratteristiche del prodotto neppure appaiono nei titoli di coda, dove tutto è organizzato con un solo unico fine: emozionare. Infatti, alla faccia dei razionalisti, è sugli eterei ponti quantici delle emozioni che passano le comunicazioni. Non certo su quelli strutturati e presuntuosamente ritenuti perfetti e solidi della razionalità e della logica. Questi servono solo la superficie di noi stessi, quella dove si depositano i saperi cognitivi. In profondità, nel regno di ciò che è collettivo, sussistono altri ordini, assai più utili per comprendere gli uomini.

[Tutti noi, con sede neurale nella corteccia cerebrale, organizziamo il controllo neuromotorio, indispensabile coordinazione per tutti i gesti quotidiani e non solo. Tutti noi siamo soggetti ad automatismi neuro-motori che ci permettono di compiere gesti che, se pensati o scomposti in segmenti non saremmo capaci di creare o replicare a creazione avvenuta. Dunque, per l’apprendista pensare come eseguire per esempio una curva con gli sci o un palleggio con i piedi frena invece che accelerare la ri-creazione del gesto desiderato. Riducendolo alla sua struttura ritmica, per poi seguirla durante l’esecuzione del gesto in questione – come si fa ballando – si avvia l’affermazione di quei processi neuromotori chiamati automatismi sottocorticali. Circuiti privi di uno scheletro razionale, che permettono esecuzioni, personalizzazioni, prestazioni altrimenti impossibili. Chi più è estraneo a relazionarsi al mondo con atteggiamento di controllo e distanza, più si allontana dalla propria creatività naturale e da se stesso. Cioè dalla linea genetica del suo successo nella vita.]

Ma l’ego di Diego è una formuletta facile e anche rappresentativa, ma sostanzialmente fuorviante. Per riconoscere il quid che ha fatto esclamare come un solo intonato canto di vuoto la sua nazione, è necessario non vedere cosa ha fatto in campo ma come ha potuto farlo.

Diego Armando Maradona era un esponente di quello che si intende per destrutturato. Una modalità di espressione che pone il suo punto di attenzione non sui particolari ma sull’insieme. Una modalità tutt’altro che razionale, spesso definita magica in quanto in grado di relazionarsi al tutto, in grado di sentire le energie del campo, di vederne le forze, quindi di essere preveggente. Come altrimenti interpretare molte sue giocate dove gli avversari sembrano recitare una parte della scena, piuttosto che apparire determinati ad impedire l’azione del 10 argentino.

Contrariamente all’idea lombrosiana, la sua struttura brevilinea celava un’intelligenza motoria immacolata. Una sorta di monolite puro totalmente adatto ad avvertire la realtà del campo di calcio in forma energetica, vibratoria. La sua azione poteva essere rappresentata da una sua relazione con il tutto nel quale si muoveva. Ragionamenti e idee, intenzioni e pretese erano per lui impedimenti alla percezione fine del mondo. Così coglieva il tempo per allungare la palla, coglieva su che piede poggiava il peso del difensore per scegliere la parte dalla quale superarlo, sentiva lo spazio libero e l’accorsa dei terzini. Vedeva la porta e aveva un pibe de oro.

La sua missione si compiva e la sua vita vibrante si è compiuta. Ne resta un fatto magico per molti, inspiegabile ma palpabile. È questo che vive e pulserà nel corpo della nazione di Diego.

Quel popolo non inseguiva l’ego di Diego ma lo spirito di libertà che lo ha attraversato.

Lorenzo Merlo





La filosofia della scienza di Joules-Henri Poincarè

 


Il grande matematico e fisico francese Joules-Henri Poincarè (1824-1912), professore di fisica matematica e calcolo probabilistico e accademico di Francia, fu uno studioso versatile i cui interessi riguardarono vari campi(1)(2)(3)(4). Un primo settore fu quello dell’algebra e delle equazioni differenziali, equazioni molto adatte ad interpretare fenomeni fisici ed usate già dai tempi di Newton. In questo settore mise a punto – sulla scia di Abel ed Hermite e delle funzioni ellittiche (v. N. 86) - un tipo di funzioni dette “automorfe” atte a risolvere equazioni differenziali di tipo molto generale. Sotto l’influenza dell’opera di Michel Chasles – la Geometria Superiore” – non trascurò nemmeno gli studi di geometria in cui adottava sia il metodo analitico (analisi matematica e metodi algebrici), sia quello grafico basato sull’immaginazione spaziale, lasciando alla logica il compito della dimostrazione. Divenne, così, uno dei più importanti esperti di Topologia (la scienza che studia la continuità e le proprietà delle forme geometriche e le loro trasformazioni) di cui già si erano interessati Riemann e Felix Klein (N. 86) con cui fu in proficuo contatto epistolare. Ben nota è la sua “congettura” (cioè affermazione non dimostrata) del 1904 secondo cui qualsiasi superficie finita a “n” dimensioni che non abbia “buchi e bordi” può essere trasformato in una sfera. Questa congettura è stata dimostrata solo negli anni 2000 da un geniale ed originale matematico russo – Perelman – che ha rifiutato il premio di un milione di dollari offerto dal milionario Clay per la sua risoluzione.

Poincarè aveva raggiunto una grande fama già nel 1889 quando aveva risolto il noto Problema dei tre Corpi, vincendo il primo premio in un concorso sull’argomento messo in palio dal Re di Svezia Oscar II. Il problema era già stato affrontato da Laplace, ma con eccessive semplificazioni che ne mettevano in dubbio il risultato finale. La soluzione aveva una grande importanza per verificare la stabilità del Sistema Solare, in quanto riguardava le traiettorie di tre astri i cui moti si influenzino a vicenda a causa delle forze gravitazionali. Poincarè dedusse che non vi era pericolo imminente di instabilità anche se le traiettorie potevano oscillare erraticamente intorno ad un punto di equilibrio (situazione definita di “caos deterministico”) con possibilità di instabilità in un futuro lontano.

Nel campo della fisica, ed in particolare dell’elettrodinamica, Poincarè si impose come uno dei fondatori della Teoria della Relatività Ristretta (o “Speciale”) insieme allo stesso Einstein ed al grande fisico olandese Hendrik Lorentz (1853-1928). In un precedente articolo abbiamo visto come il grande fisico olandese già nel 1892 aveva elaborato delle equazioni definite poi dallo stesso Poincarè “Trasformazioni di Lorentz” che correggevano le precedenti analoghe “Trasformazioni di Galileo”. Poincarè, tra il 1905 ed il 1906, in particolare con lo scritto “Sulla Dinamica dell’Elettrone”, rielaborò ed ampliò la equazioni di Lorentz, ma già nel 1902, nell’opera “Scienza ed Ipotesi“, aveva criticato i concetti di spazio e tempo assoluti (cioè non relativi) e quello di simultaneità temporale in sistemi diversi, anticipando temi relativistici. La teoria della Relatività Ristretta è stata poi - giustamente – attribuita ad Einstein perché il grande fisico tedesco, in particolare nello scritto “Sulla Dinamica dei Corpi in Movimento” del 1905, seppe trasformare le equazioni di Lorentz e Poincarè in una teoria fisica coerente, come meglio vedremo in seguito.

Poincarè fu anche un valente epistemologo, cioè un filosofo della scienza. Le sue posizioni realiste, che lo caratterizzarono come fiero avversario della deriva spiritualista ed irrazionalista dilagante nella Francia di fine ‘800, lo portarono ad affermare che “l’esperienza è l’unica fonte della verità: solo essa può insegnarci qualcosa di nuovo, solo essa può darci certezza”. Affermava che il fatto bruto è il fenomeno osservato, la scienza è la sua interpretazione. Il linguaggio scientifico è solo più preciso, ma non puramente convenzionale. Fu anche un determinista coerente: diceva che parlare di “caso” è solo la misura della nostra ignoranza. In matematica fu un sostenitore del “convenzionalismo”. Sosteneva – cioè – che la matematica era basata su assiomi iniziali arbitrari, ma fu anche sempre molto critico verso gli eccessi del “logicismo” e del “formalismo” tipici di Hilbert, Frege o Russell, valorizzando anche l’intuizione ed apprezzando il linguaggio matematico in quanto il più adatto a descrivere i fenomeni fisici. Ammetteva che alla base della geometria vi era una grande libertà creativa e contribuì a sviluppare le geometrie non euclidee; ma riteneva che certi sistemi – come quello euclideo – si erano affermati nei secoli perché adatti ad interpretare la realtà, essendo basati su assiomi suggeriti dall’esperienza. Nel caso della matematica numerica era comunque imprescindibile adottare un principio (o assioma) generale non deduttivo, quello di induzione completa secondo cui una proprietà, se può passare da un numero naturale al successivo, e se vale per il numero “1” (o “0”), vale per tutti i numeri.

Su posizioni molto diverse si pose David Hilbert (1862-1943), a lungo professore nella prestigiosa Università di Gottinga, cuore della matematica tedesca insieme a Berlino(1)(2)(3)(5). Hilbert, grande estimatore e sostenitore di Cantor (N. 92), riteneva che la matematica fosse una costruzione logico-formale di tipo deduttivo creata dalla mente umana sulla base di “assiomi” arbitrari e simboli astratti che nulla avevano a che fare con la realtà. Gli assiomi, per essere “veri”, dovevano essere “coerenti”, cioè bastava che non portassero a contraddizioni nei successivi sviluppi logico-deduttivi. Altre caratteristiche degli assiomi dovevano essere la loro reciproca “indipendenza” e la “completezza”, cioè la capacità di poter dimostrare, partendo da essi, qualsiasi teorema matematico. Il suo pensiero si distingueva da quello di altri “logicisti” come Frege e Dedekind (N. 92) che invece ritenevano – in un’ottica di tipo “platonico” - che gli assiomi dovevano essere “veri” di per sé in quanto verità evidenti ed assolute desunte dalla realtà (come già per Euclide, Kant ed Aristotele).

All’inizio Hilbert – dopo aver raggiunto la fama nel 1888 per aver risolto il “problema di Gordan” sulle entità “invarianti” nelle trasformazioni di un polinomio - si interessò degli assiomi della geometria (ridotta a puri simboli privi di significato e di intuizione spaziale) con l’opera “Fondamenti della Geometria” del 1899. Nel 1900 fu il principale relatore del Congresso matematico di Parigi, dove espose i famosi 23 problemi la cui risoluzione avrebbe interessato i matematici del ‘900. Pose al primo posto l’ipotesi della continuità di Cantor, che risulta ancora indimostrata (nel 1938 il logico ceco Gödel – di cui ci interesseremo anche in prossimi numeri – dimostrò che non se ne poteva dimostrare la falsità; ma nel 1963 il matematico statunitense Paul Cohen – 1934/2007 - dimostrò che non se ne poteva nemmeno dimostrare la veridicità). Altro importante problema era la coerenza degli assiomi dell’aritmetica (tuttora irrisolto). Erano presenti anche altre congetture, come quella di Goldbach (N. 58), e l’Ipotesi di Riemann (N. 86), tuttora indimostrate. Nei 20 anni successivi il grande matematico tedesco si interessò di problemi di matematica applicata alla fisica (che cercò di “assiomatizzare” rendendola un sistema logico-deduttivo, a partire da assiomi iniziali), disputando nel 1915 ad Einstein la paternità delle equazioni della Teoria della Relatività Generale. Queste furono attribuite giustamente ad Einstein, che - pur se più scarso in matematica e preso in giro da Hilbert (“anche un ragazzino di strada di Gottinga capirebbe meglio di Einstein le equazioni dello spazio quadridimensionale”, spazio usato nella teoria della relatività) - aveva però una visione più profonda della realtà fisica. In questo periodo Hilbert - partendo dallo studio delle equazioni “integrali” (che sono le equazioni che contengono l’incognita sotto il segno di integrale) - sviluppò anche la cosiddetta “analisi funzionale” (che si interessa delle funzioni la cui variabile è un’altra funzione, ed è connesso all’antico “calcolo delle variazioni”: vedi NN. 58 e 66). Paradossalmente questa sua attività più tradizionale fu quella che si dimostrò più utile in futuro. Il suo allievo Von Neumann (di cui ci interesseremo in prossimi numeri) se ne servì per definire il cosiddetto “spazio di Hilbert”, un sistema matematico comprendente più funzioni, che riuscì – come vedremo - a riunificare due celebri prodotti della Fisica Quantistica: le matrici di Heisemberg con l’equazione di Schrödinger.

Dopo il 1920 Hilbert si dedicò invece completamente alla costruzione del suo astratto sistema assiomatico, tenendo presente anche i risultati del cosiddetto sistema ZF sviluppato da Ernst Zermelo (1871-1953) nel 1919, ed integrato da Abraham Fraenckel (1891-1965), che aveva lo scopo di neutralizzare le contraddizioni sorte nei sistemi di Frege e di Russell-Whitehead (N. 92). Il suo decennale ed intenso lavoro, contenuto nelle opere “Fondamenti matematici di Logica Teoretica” del 1928 – scritto insieme a Wilhelm Ackermann - e “Fondamenti della Matematica del 1934scritto insieme all’allievo Paul Bernays - si infranse nel corso del Congresso di Königsberg del 1930, quando – dopo che Hilbert aveva orgogliosamente dichiarato: “dobbiamo sapere, e sapremo” (motto iscritto anche sulla sua tomba) – un giovane logico ceco ancora sconosciuto (ma poi divenuto famoso), Kurt Gödel (1906-1978), dimostrò che il sistema di Hilbert era “incompleto” (cioè conteneva necessariamente affermazioni indimostrabili). Successivamente Gödel dimostrò (con il suo “secondo teorema”) che non era nemmeno possibile dimostrarne la “coerenza”. Lo stesso Zermelo aveva affermato che l’aritmetica conteneva necessariamente elementi di arbitrarietà (cosiddetto “Problema della Scelta”), mentre anche il matematico polacco Alfred Tarski (1902-1989) aveva dimostrato che una teoria aritmetica coerente del “primo ordine” non poteva esprimere il vero. Questo fallimento ci indica – come abbiamo più volte sottolineato – che la logica esasperata, avulsa dalla realtà, spesso è sterile e contraddittoria. Vale la sarcastica battuta pronunciata da Poincarè qualche anno prima: “la logica non è sterile: produce contraddizioni”. Poincarè riteneva Hilbert un “impostore” perché, nascosta sotto il suo sistema assiomatico astratto, rispuntava in realtà – secondo lui - la vecchia geometria di Euclide.

Vincenzo Brandi


  1. L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti

  2. C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Scientifico”, Einaudi

  3. Adorno, “Storia della Filosofia”

  4. RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Poincarè”

  5. RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Hilbert”

Quando un saggio esprime la verità, con i fatti. Il caso di Nisargadatta Maharaj

 


"Gautama Buddha? Io l’ho conosciuto…."  Che effetto fa sentirsi dire oggi una frase del genere? Certo adesso fa un effetto sconvolgente. Ma se la stessa affermazione fosse stata fatta mentre Sakyamuni era in vita, da poco iniziata la sua missione su questa terra, non avrebbe sconvolto più di tanto l’ascoltatore, forse qualcuno avrebbe arricciato il naso, qualcuno avrebbe fatto spallucce -come per dire “quel mezzo pazzo,  che vuoi che sia”. Solo pochi avrebbero esclamato “Oh tu fortunato che grande benedizione hai avuto!”

E non sarebbe andata così anche per Gesù Cristo…? Magari proprio quel giorno dopo le palme di Gerusalemme… chi avrebbe osato riconoscere i meriti di Gesù se persino il suo principale discepolo lo rinnegò? E che dire di Francesco d’Assisi, il quale a parte la sua piccola banda di mezzo-sderenati che lo seguivano, era visto più come uno scellerato perdigiorno che come santo? La verità è che è molto difficile per un saggio essere riconosciuto nel tempo in cui vive, ed è già un miracolo se viene apprezzato negli ultimi anni della sua vita, quando ormai è quasi certo che sta per lasciare questo mondo….

Ebbene, io ho avuto la fortuna di incontrare un tale saggio,   
Nisargadatta Maharaj,  un po’ prima della sua morte ed un po’ prima della sua deificazione finale.   Lo conobbi quando la sua saggezza non poteva più essere celata e già c’era una piccola cerchia di discepoli attorno a lui ed allo stesso tempo egli viveva del tutto semplicemente come era sempre vissuto. Un piccolo commerciante indiano di sigarette artigianali, sposato e con figli, abitante in una casupola periferica di Bombay, ed addirittura malato di cancro (come poteva succedere a chiunque altro avesse fumato beedies per tutta la vita). Un santo quasi banale, un santo qualsiasi, anzi -come lo definii a quel tempo- un “sant’uomo”.

Ora la sua fama di grande saggio ha fatto il giro del mondo, i suoi testi sull’Advaita (non-dualismo) e sulla conoscenza di Sé vengono studiati nelle università, gli psicologi e gli studiosi della mente lo considerano “l’eccelsa vetta della conoscenza”.

Che strano! Io l’ho incontrato senza alcuna pretesa  ed ho scambiato delle parole con lui, ho persino fatto lo strafottente ed il furbo per metterlo alla prova, insomma mi sono rapportato con lui come fosse stato un giocattolo da studiare per vedere come funziona. Ma mentre pensavo di essere io a smontarlo, per osservarne i meccanismi interni, in realtà era lui che mi scioglieva le mani ed i piedi, il viso ed torace, la testa e le gambe, la mente ed il cuore. Non posso dire di “ricordarlo” se non perché “Io sono Lui” come egli stesso affermava: “I am That”. 

Ecco, così avvenne che nella primavera del 1981 lo incontrassi, pochi mesi prima della sua "dipartita".  Alcune notizie fuori scena?.. Ce ne sarebbero ma in parte sono anche descritte, in forma di sensazioni, nella scena...

La cosa più rilevante che percepii col vecchio Nisargadatta  fu la sua capacità d'intuizione,  la sua abilità nel trovare la giusta risposta basandosi su un semplice sguardo.  E  la corresponsione fu particolarmente significativa. Alla fine uscii soddisfatto per  aver avuto le risposte nei miei termini, con fatti concreti e non con chiacchiere. 

I fatti li potete leggere nella storia del mio incontro con lui descritti nel libro "Compagni di viaggio" Om Edizioni (https://riciclaggiodellamemoria.blogspot.com/2020/02/compagni-di-viaggio-di-paolo-darpini.html)   

Mi fu di grande ausilio osservare l'indifferenza con la quale esponeva il suo male, un cancro alla gola in fase terminale,  una bocca sbavante come fosse un fiore...

Per comprendere appieno il senso di quell'incontro ho dovuto però aspettare qualche anno,  avvenne nel silenzio della campagna (costal) in Andra Pradesh, nella mia capanna nel villaggio rurale di Jillellamudi, alla presenza della mia madre spirituale, Anasuya Devi.  Un viaggiatore mi mise in mano "Io sono Quello", che lessi pezzo a pezzo in  tre mesi, e così appresi anche l'insegnamento "formale" di Nisargadatta e compresi meglio tutti i significati dei gesti e delle poche parole. e degli sguardi e...

"...La Verità è una terra priva di sentieri... non può essere portata al nostro livello, piuttosto noi dobbiamo salire al suo... non si può portare la cima della montagna in una valle... allo stesso modo non è possibile organizzare un credo, una fede... sono aspetti intimi, non si possono, né si devono organizzare... se lo fate muoiono, si cristallizzano, diventano convinzioni sistematiche, sette... o religioni da imporre forzatamente agli altri... quando create organizzazioni con questi propositi, divengono puntelli, menomazioni, catene, che vi ostacoleranno sino a mutilarvi, vi impediranno di riconoscere la vostra unicità... il vostro unico ed esclusivo modo di procedere verso la Verità... nel preciso istante in cui iniziate a seguire qualcuno cessate di seguire la Verità... intendo determinare un cambiamento specifico nel mondo, e realizzerò questo mio proposito con imperturbabile concentrazione... intendo liberare l'uomo da tutte le gabbie, da tutte le paure... voglio impedire che si creino nuove dottrine o filosofie, e che si fondino nuove religioni o nuove sette..."  (Jiddu Krishnamurti)  

Paolo D'Arpini