"Conoscenza, scienza e filosofia. Profili di scienziati e filosofi della scienza da Talete alla fisica contemporanea" - Vorrei cercare di spiegare perché scrivere un libro su questi argomenti che possono essere considerati noiosi, troppo specialistici ed apparentemente lontani dalla vita reale di tutti i giorni.
Vincenzo Brandi: "Conoscenza, scienza e filosofia. Profili di scienziati e filosofi della scienza da Talete alla fisica contemporanea" - Presentazione del libro
TUBI A VUOTO E RAGGI CATODICI, LA SCOPERTA DELL’ELETTRONE ED IL PRIMO MODELLO ATOMICO
(1) Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 e seg.
(2) RBA, “Le grandi Idee della Scienza – Rutherford”
La creazione del mondo nella descrizione di Ramana Maharshi
Sri Ramana Maharshi adottò tre diversi punti di vista quando parlò della natura del mondo fisico. Egli li patrocinò tutti in momenti differenti, ma dai commenti che in genere esprimeva sull’argomento è chiaro che considerava vere o utili solo le prime due teorie qui descritte:
1. AJATA VADA
(Teoria della non causalità). Questa è un’antica dottrina advaita che afferma che la creazione del mondo non avvenne mai. E’ un completo diniego di tutta la causalità del mondo fisico. Sri Ramana appoggiò quest’opinione dicendo che secondo l’esperienza del ‘jnani’ nulla viene mai in esistenza o cessa di essere perché solo il Sé esiste come la sola e immutabile realtà. Un corollario di questa storia è che il tempo, lo spazio, la causa e l’effetto, i componenti essenziali di tutte le teorie della creazione, esistono soltanto nelle menti degli ‘ajnani’ e che l’esperienza del Sé rivela la loro non esistenza.
Questa teoria non è un diniego della realtà del mondo, ma solo del processo creativo che lo portò in esistenza. Parlando della sua stessa esperienza, Sri Ramana disse che il jnani è consapevole che il mondo è reale, non come una riunione di materia ed energie interagenti, ma come un’apparizione senza motivo nel Sé. Egli sviluppò questo dicendo che siccome la natura reale o il substrato di questa apparizione è identica all’esistenza del Sé, necessariamente partecipa alla sua realtà.
Ciò significa che il mondo non è reale per il jnani semplicemente perché appare, ma solo perché la natura reale dell’apparizione è inseparabile dal Sé.
L’ajnani d’altra parte è totalmente inconsapevole della natura unitaria e della sorgente del mondo e, come conseguenza, la sua mente costruisce un mondo illusorio di oggetti separati interagenti, fraintendendo continuamente le impressioni sensoriali che riceve. Sri Ramana indicò che questa visione del mondo non ha maggiore realtà di un sogno poiché sovrappone una creazione della mente alla realtà del Sé. Egli riassunse la differenza fra il punto di vista del jnani e dell’ajnani dicendo che il mondo è irreale se viene percepito dalla mente come un insieme di oggetti distinti ed è reale quando viene sperimentato direttamente come un’apparizione del Sé.
2. DRISHTI-SRISHTI VADA
Se i suoi interlocutori trovavano impossibile da assimilare l’idea di ‘ajata’ o non causalità, egli insegnava loro che il mondo veniva in esistenza simultaneamente con l’apparizione del pensiero “io” e che cessa di esistere quando il pensiero “io” è assente. Questa teoria è nota come ‘drishti-srishti’, o creazione simultanea e in effetti afferma che il mondo che appare a un ajani è il prodotto della mente che lo percepisce e che in mancanza di quella mente cessa di esistere.
La teoria è vera quando la mente crea un mondo immaginario per se stessa, ma dal punto di vista del Sé, un “io” immaginario che crea un mondo immaginario non è affatto una creazione, così la dottrina di ajata non è sovvertita.
Sebbene Sri Ramana a volte abbia detto che drishti-srishti non era la verità ultima sulla creazione, incoraggiò i suoi seguaci ad accettarla come un’ipotesi di lavoro. Giustificò quest’approccio dicendo che se si può considerare il mondo coerentemente come una creazione irreale della mente, allora esso perde la sua attrazione e diventa più facile mantenere senza distrazioni la consapevolezza del pensiero “io”.
3. SRISHTI-DRISHTI VADA
(Creazione graduale). Questa è l’opinione del senso comune che afferma che il mondo è una realtà oggettiva governata dalle leggi di causa ed effetto che possono essere fatte risalire a un singolo atto di creazione. Essa include virtualmente tutte le idee occidentali sull’argomento, dalla teoria del “big bang” al resoconto biblico della Genesi. Sri Ramana si appellò a teorie di questa natura solo quando stava parlando con interlocutori che erano restii ad accettare le implicazioni delle teorie ‘ajata’ e ‘drishti-srishti’. Anche allora, solitamente indicava che tali teorie non dovrebbero essere prese troppo seriamente poiché erano promulgate solo per soddisfare la curiosità intellettuale.
Letteralmente, ‘drishti-srishti’ significa che il mondo esiste solo quando è percepito, mentre ‘srishti-drishti’ significa che il mondo esisteva prima della percezione di chiunque. Sebbene la prima teoria sembri viziosa, Sri Ramana sostenne che i veri ricercatori dovevano esserne soddisfatti, sia perché è un’approssimazione vicina alla verità, sia perché è l’attitudine più benefica da adottare se si è seriamente interessati a realizzare il Sé.
Il limite della tolleranza...
Quante volte abbiamo sentito il fastidio per le espressioni altrui? Quante volte le abbiamo giudicate con definitivi aggettivi dispregiativi? Quante volte non abbiamo esitato a sentirci dalla parte giusta? E quante volte invece abbiamo accettato, dando pari dignità a quella che chiediamo per noi stessi, prospettive che mai avevamo sospettato esistessero? Quante volte ci siamo comportati secondo le leggi egoiche e quante volte ne abbiamo dimostrato l’emancipazione?
La Cultura della tolleranza
La cultura della tolleranza trova il suo fondamento nel concetto di Carità cristiana. Porgi l’altra guancia ne è emblema. Ma una certa disponibilità nei confronti del prossimo è presente anche in altre culture. Sebbene tra i cinque precetti dell’Islam non ve ne sia uno dedicato specificamente alla tolleranza, si trova la zakāt (dono, elemosina, devoluzione), che riguarda l’obbligo di aiuto ai bisognosi. In certe culture rurali e tradizionali come in il Pashtunwali afghano, nel Kanun del nord Albania, nel Codice barbaricino della Barbagia sarda, nel Bushido dei Samurai giapponesi, l’assistenza ai viandanti, con alloggio, cibo e cura, è un momento sostanziale di concreto rispetto delle norme sociali. Per quanto l’applicazione di queste premesse sia personalizzata, vi si può riconoscere l’origine della cultura della tolleranza e della reciproca assistenza.
Man mano che la condizione sociale da comunitaria è divenuta materialista e individualista, l’obbligo di attenzione e tolleranza è andato perdendosi nella prassi, è andato calcificandosi nella politica. La tolleranza, da pratica sociale è involuta in concetto intellettuale. Da carnale e sentimentale a principio morale, da essenza a feticcio, spesso ben travestito da buonismo come dogmatica pillola quotidiana per sentirsi bene.
Si è perso nell’abitudine al rispetto del canovaccio delle formalità. Un buco del mondo dell’apparenza nel quale siamo precipitati, dove a mezzo del sistema della rana bollita*, non c’è ragione per interrogarsi in merito alla Tolleranza, in merito alla sua vera natura. Diamo così per scontato di possederne a sufficienza, di poterla applicare con le pennellate dei nostri gesti e delle nostre parole, di essere in diritto di colpevolizzazione di chi non dimostra pari indice specifico. Ma tutto ciò accade dentro quell’edulcorato buco, senza avvederci degli imperativi che ci impone, che è solo teoria e del tutto corrispondente all’immagine ideale di noi stessi. Quella che cerchiamo di farci riconoscere dal prossimo, nella quale amiamo riconoscerci. Che è poca cosa nel computo delle potenzialità umane.
Nel buco ci si dimena nel groviglio delle dinamiche che riguardano il dominio dell’io su noi stessi. Ovvero di una volontà emessa dalla vanità, dall’orgoglio, dall’importanza personale. L’io è anche l’utero della generazione dell’altro, come entità separata da noi; della cosiddetta oggettività; e più in generale del dualismo e della sua sussistenza, nonché inconsapevole celebrazione.
Il dominio dell’io genera e sostiene i suoi motti di avidità. Non a caso la cultura della competizione, celebrata come naturale, tramandata come insostituibile o anche solo riducibile da valore assoluto a relativo, ne è sufficiente dimostrazione. Sotto il giogo egoico produciamo le ragioni della legittimazione dell’accumulo, quindi quelle dell’avere come minimo comune multiplo della vita.
Verità condizionata
Avviluppati dalla suggestione dell’io, il meglio che possiamo esprimere riguarda la moralità. Questa è tanto più consistente e rappresentativa di noi quanto siamo in grado di argomentarla dialetticamente. Un processo che implica il Giudizio, il quale castiga o elegge in funzione di quanto sappiamo cognitivamente mettere in campo. Per quanto la questione riguardi e si esaurisca nella dimensione intellettuale, ovvero la più superficiale, la meno incisiva e necessaria alla nostra evoluzione, ne andiamo fieri come i mostruosi Generali di Enrico Baj. Il mondo delle apparenze è soddisfatto. Il buco egoico è saturo, tutto il resto gli è superfluo.
In questo ambito, nel nostro ambito culturale, dire tolleranza è richiamare un valore e riferire di ciò che abbiamo capito, di ciò che vorremmo. Sebbene appaia che più di così non si può, non è che il culmine cultural-intellettualistico. Da quelle altezze crediamo si possa guardare in basso con diritto di superiorità. Inebriati di merito, inconsapevoli del processo autopoieutico e quindi autoreferenziale, ci riteniamo in diritto di autocelebrazione. Ci da diritto di vita e di morte non solo simbolica, allegorica e metaforica, nei confronti dell’altro. È questa la tolleranza che vantiamo, con la quale preferiamo non fare i conti.
Il sistema egocentrico di realtà può realizzare solo il succedaneo della Tolleranza. Un prodotto desiderato, considerato acquisito, ma che nasconde in sé il necessario per riconoscere quanto è stato sopravvalutato, quanto è limitato. Ha in sé tutto per essere contraddetto alla prima circostanza utile, alla prima occasione in cui l’importanza personale istintivamente si sveglia e alza la cresta.
Il dominio occulto dell’io ci impone identificazioni varie: a ideologie, morali, sentimenti, ruoli, cose. Ce li fa credere nostri. Segreta riduzione del nostro infinito, alla quale rispondiamo convinti e ubbidienti, con la difesa di quanto è nostro e perciò sacro. Il dominio dell’io sugli esseri umani è indispensabile alla loro storia di guerra.
Ma tutto ciò significa che il nostro gradiente di tolleranza dipende dal punto in cui ci consideriamo autorizzati ad intervenire per difendere qualcosa di noi, qualcosa che coincide con noi, qualcosa che siamo noi.
Dalla trincea di quel punto, nel buco dell’apparenza, combattiamo secondo leggi che, a parole, non avremmo accettato, e che nei fatti avremmo condannato senza se e senza ma, se da altri rispettate.
In nome dell’autodifesa la tolleranza diviene neve al sole.
La Tolleranza
Emancipati dalla rete dell’io e dal mondo che ci mostra, il registro cambia. Non c’è più nulla da difendere. Tutto è temporale e transitorio. Tutti siamo identici. Le suggestioni delle identificazioni ci sono ora evidenti ed identiche per tutti. Tutti reagiamo o non reagiamo in funzione della dominanza o emancipazione da forze apparentemente esterne, ma che invece generiamo. Non essere più identificati a nulla è non avere più nulla da difendere, è non avere più ragioni per sopraffare il prossimo. È un processo che tende all’invulnerabilità e dunque alla Tolleranza incarnata, realizzata. Quel genere d’essere che viene detto amore incondizionato.
Epilogo egoico
Dedicarsi a girare intorno al commento che allora la Tolleranza non è possibile per restarsene nel cantuccio protetto e caldo in cui vivere la nostra rannicchiata vita, significa non trarre materia per evolvere. Per interrompere il tran-tran, per contaminarci con forze che ne rimescolino lo status quo. L’epilogo egoico usa le categorie e le classificazioni separatorie e analitiche che le sono proprie, nelle quali ritiene di poter collocare le parti di realtà che vede. Singole monadi tra loro separate o collegate secondo strumentale necessità. In tali arbitrarie intitolazioni ripone ciò che chiama Conoscenza. Nel nostro caso, come farebbe con un ansiolitico, prenderà dall’opportuna cassettiera in cui ha riposto il vero, il concetto di utopia. Come per l’ansia, modalità utile per risolvere il problema della falsa tolleranza o della tolleranza secondo comodità.
Epilogo evolutivo
Intravedere le forze che agiscono su noi, cogliere quanto e quando siamo capaci di sentirle o meno, prendere le distanze dal nostro giudizio, permette un’esplorazione di sé altrimenti impedita. Permette di arrivare a ricreare l’amore disinteressato di cui alcuni ciarlatani vaneggiano. Intravedere dimensioni sulle quali la cultura non ci ha permesso di soffermarci, è intravedere anche il mondo che contengono. Un mondo dove l’io c’è ma non si burla più di noi.
Lorenzo Merlo