Cronistoria parziale sulle nefandezze della "santa inquisizione" cattolica


Risultato immagini per santa inquisizione"
L’Inquisizione possedeva un vero e proprio apparato di informazione con un grande numero di agenti, che godevano di privilegi fiscali e dell’eccezionale permesso di girare armati.
L’8 marzo 2000, papa Wojtila pronunciava la “richiesta di perdono” per i
mali inferti dalla chiesa nei secoli a tutta l’umanità. In particolare,
Giovanni Paolo II recitava il “mea culpa” pensando alle vittime della Santa
Inquisizione. Il processo che metteva sotto esame il tribunale medievale
accanitosi nei secoli contro coloro che venivano definiti eretici, si
concludeva con le pubbliche scuse del papa, dopo essersi aperto 6 anni
prima. Nel 1994, con la lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente
datata 10 novembre, Giovanni Paolo II avviava la preparazione del Giubileo
chiedendo ai cristiani di “pentirsi” soprattutto per Giovanna d’Arco alla
testa del suo esercito “l’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli,
a metodi di intolleranza e perfino di violenza nel servizio della verità.”
La lettera papale aprì la strada a due incontri che si tennero, il primo nel
‘98 dedicato alla “Shoah”, sulla quale si invitava a riflettere, mentre il
secondo, che più ci interessa, aveva come tema centrale l’”Inquisizione” e
si svolse tra il 29 e il 31 ottobre 1999 in Vaticano. Il Simposio
internazionale fu presieduto dal Cardinale Roger Etchegaray e dalla
Commissione teologico-storica del Comitato centrale del Grande Giubileo,
sovrintendente del quale era il domenicano padre Georges Cottier. Dando
inizio ai lavori, quest’ultimo ha specificato che “la considerazione delle
circostanze attenuanti [quelle storiche riguardanti la società dei tempi e
la sua grettezza] non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi
profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato
il volto”.
Queste “debolezze”, per usare il termine di Cottier, provocarono decine di
migliaia di morti che formano un filo nero ininterrotto capace di dare alla
storia della Chiesa di quei secoli che fanno l’età medievale e moderna, un
unico e macabro denominatore.

Il grande pubblico identifica la storia delle persecuzioni religiose con
uomini importanti come Galileo Galilei e Giordano Bruno o più in generale
con i roghi delle streghe. Ciò che si scopre studiando la storia della Santa
Inquisizione è qualcosa che, per noi figli del XX secolo ha
dell’incredibile. I Pensieri e i fatti che hanno generato tale meccanismo di
morte ci appaiono così distanti, eppure anche gli ultimi decenni non sono
stati privi di quelle distorsioni ideologiche che più appaiono come il
sostrato di scempiaggini catastrofiche come quella esemplare generata dalla
mente malata di Adolf Hitler. L’accostamento può sembrare azzardato
soprattutto perché poche sono le coincidenze, nei tempi e nei fatti, tra
l’odio nazista per gli ebrei e lo stesso sentimento mostrato dalla Chiesa
cattolica nei confronti degli eretici.
Ciò che comunque appare confrontabile è la perdita di ogni senso della
realtà in nome di un’idea delirante che genera morte.
Oltremodo, la lotta della Chiesa contro i suoi nemici solletica un vasto
interesse nel pubblico, dovuto in parte al fascino morboso che aleggia
intorno ai metodi inquisitori. L’Inquisizione, che si affermò alla fine del
XII secolo, quando in Occidente si diffondevano movimenti eretici come il
manicheismo, il valdismo e poi il catarismo, trae il suo nome dalla
inquisitio, una procedura del diritto romano sconosciuta e basata sulla
formulazione di un’accusa da parte dell’autorità giudiziaria pur in assenza
di denunce sostenute da testimoni attendibili. Tale procedura trova con il
decreto Ad abolendam, emanato da papa Lucio III nel 1184, quando cioè si
cominciò a infliggere ai peccatori la pena del rogo, la sua codificazione.
Alcuni anni dopo venne autorizzata la confisca dei beni degli eretici e
l’impiego della tortura in questioni di fede, mentre si stabilivano
particolari disposizioni che garantissero la segretezza delle procedure,
l’anonimato dei testimoni e l’applicazione delle sentenze. Con il papato di
Gregorio IX (1227-1241) la procedura inquisitoria si trasforma in una nuova
istituzione che avrà in principio larga diffusione nella Francia meridionale
e che verrà ufficializzata nei suoi compiti con il nome di Sacra
Inquisizione. Tra i tanti manuali scritti all’epoca per riassumere la
procedura sulla base della quale lavorava il tribunale è rimasta celebre la
Practica Inquisitionis hereticae pravitatis (ca.1320).
Il successore di Gregorio IX, Innocenzo IV, non trascurò di proseguire
nell’opera iniziata dal suo predecessore. Nel 1252, infatti, con la bolla Ad
extirpanda ribadiva l’importanza della ricerca dei peccatori che si
nascondevano nella società minandone non solo le basi religiose ma anche
quelle politiche, e rafforzava il significato della punizione corporale
indicando la tortura come mezzo per “portare alla luce la verità”.
Durante il XIII e il XIV secolo, l’Inquisizione, parallelamente alla
crescita di alcuni dei più importanti movimenti considerati eretici,
accrebbe le proprie zone d’influenza e le proprie competenze. All’inizio del
‘300, in buona parte dell’Europa erano attivi dei tribunali inquisitori
competenti a livello territoriale che avevano l’ordine di indagare anche su
reati quali la blasfemia, la bigamia e la stregoneria, e gli utopisti della
politica e della religione.
(vedi la storia di FRA DOLCINO:
http://www.cronologia.it/storia/biografie/fradolci.htm)
La stregoneria, della quale parleremo diffusamente più avanti, nasce dalla
trasformazione in reato di tutti quei riti pagani, bagaglio di una forte
tradizione popolare ancora parte irrinunciabile della vita di molte zone
dell’Europa. Attraverso i secoli bui, la Santa Inquisizione, come abbiamo
visto, seppur brevemente, accresce la sua importanza, ma soprattutto la sua
ingerenza nella vita sociale. Di fondamentale importanza in questo processo
di penetrazione sarà il ruolo svolto dai re cattolici Isabella di Castiglia
e Ferdinando d’Aragona. Unendo le loro corone in un grande e potente regno i
due monarchi trasformarono il tribunale dell’Inquisizione in uno strumento
di controllo del loro potere. Esercitarono pressioni sul pontefice affinché
istituisse una nuova Inquisizione nel regno di Castiglia che ancora non ne
aveva conosciuto le opere.
Fu così che con la bolla papale, Exigit sinceras devotionis affectus, del 1°
novembre 1478 Sisto IV concesse ai sovrani spagnoli la potestà di nominare
due o tre inquisitori nelle città e nelle diocesi dei loro regni. Da quel
momento si aprì una contesa tra la concezione ecclesiastica della Santa
Inquisizione e quella temporale dei due re Cattolici, che vedevano nel
tribunale antiereticale un valido collaboratore attraverso il quale
mantenere e rafforzare il proprio potere. Il braccio di ferro si protrasse
fino all’ottobre 1483 quando con la nomina del frate Tomás de Torquemada….
… a inquisitore generale dei regni di Castiglia e di Aragona, nasceva
l’Inquisizione moderna. Il papa Sisto IV, al quale ormai la situazione era
sfuggita di mano non aveva potuto far altro che riconoscere l’estensione
delle competenze giuridiche anche al regno di Aragona, per il quale
inizialmente il pontefice aveva negato la concessione.
A questo punto la chiesa di Roma si trovava ad aver ceduto, passo dopo
passo, al regno governato da Isabella e Ferdinando, il controllo sui
tribunali della Santa Inquisizione in Spagna.
Sostanzialmente, il potere di nominare il Grande Inquisitore demandava nei
fatti alla Corona la gestione di tutta la macchina costruita in difesa della
verità dei dogmi, pur rimanendo il papa il depositario dell’autentica
legittimità dell’istituzione.
Tra le figure più importanti dell’Inquisizione spagnola, spicca per la sua
spietatezza verso gli ebrei il già ricordato Tomás de Torquemada. Al momento
dell’investitura, gli inquisitori spagnoli recitavano davanti al Grande
Inquisitore, una formula che rimase invariata fino al 1820:
“Noi, per misericordia divina inquisitore generale, fidando nelle vostre
cognizioni e nella vostra retta coscienza, vi nominiamo, costituiamo,
creiamo e deputiamo inquisitori apostolici contro la depravazione eretica e
l’apostasia nell’inquisizione di [qui veniva inserito di volta in volta il
nome del luogo dove l'inquisitore veniva mandato] e vi diamo potere e
facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o
presente, di qualsiasi stato e condizione che risultasse colpevole, sospetta
o accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori,
difensori e favoreggiatori delle medesime”.
Negli altri paesi europei si ebbero situazioni anche molto diverse tra loro.
La Francia non conobbe l’Inquisizione nella sua forma moderna. I Parlamenti
continuarono ad occuparsi dei processi agli eretici senza che per questi
reati venisse aggiornata la versione medievale dell’istituto.
Il Portogallo vide nascere il tribunale dell’Inquisizione solo nel 1547,
mentre in Italia apparvero solo verso la fine del XVI secolo, qualche
decennio più tardi della nascita di un’Inquisizione tutta speciale che il
papa aveva creato appositamente per “se” nel 1542. Ad oggi, quella papale è
l’unica Inquisizione sopravvissuta con il nome di Congregazione per la
Dottrina della Fede.
Il funzionamento del Santo Uffizio era garantito in primo luogo dal lavoro
dell’inquisitore generale che si appoggiava al Consiglio della Suprema, e in
secondo luogo dalla presenza capillare sul territorio dei tribunali di
distretto. Nella carica di inquisitore generale si è già visto che il più
tragicamente illustre fu il frate Tomás de Torquemada. Sulla sua figura sono
stati dati pareri contrastanti: lo storico Juan Antonio Llorente ne parla
come di “…una persona dai tratti raccapriccianti responsabile della morte
sul rogo di 10.280 persone, e della punizione con infamia e confisca dei
beni di altre 27.321″. Al contrario lo storico inglese Walsh dice che
Torquemada “era un pacifico dotto che abbandonò il chiostro per espletare un
incarico sgradevole ma necessario, cosa che fece con spirito di giustizia
temperato da pietà e sempre con grande abilità e prudenza.[…] Fu l’uomo che
più efficacemente contribuì alla grandezza della Spagna dell’epoca del siglo
de oro.”
È abbastanza evidente che il giudizio dello storico ha in entrambi i casi
influenzato il racconto della vita di un uomo che comunque al di là di
queste critiche senza appello fu un grigio ed efficiente funzionario che
servì i re cattolici con esemplare lealtà, pur tributata a idee sbagliate,
fornendo il modello essenzialmente politico a cui si sarebbero ispirati gli
inquisitori generali per un lunghissimo arco di tempo.
A partire da questa che era la carica più importante, l’inquisizione era
organizzata in base ad una struttura fortemente gerarchizzata che prevedeva
il Consiglio della Suprema e Generale Inquisizione che si riuniva tutte le
mattine dei giorni non festivi per discutere le questioni di fede, mentre
nelle sedute pomeridiane del martedì, giovedì e sabato si tenevano i
processi pubblici e si parlava dei casi si sodomia, bigamia, stregoneria e
superstizione.
Da questo organo dipendevano i tribunali distrettuali in ognuno dei quali
operavano due inquisitori. Quasi sempre erano un teologo e un giurista così
da poter avere una competenza che coprisse tutti gli aspetti della
problematica inquisitoria. Nel XVI secolo si accentuò, fra gli inquisitori,
il predominio del clero secolare nei confronti di quello regolare (i membri
degli ordini religiosi). La maggior parte degli inquisitori, comunque,
proveniva dalla piccola nobiltà e aveva frequentato l’Università.
Tra le altre cariche previste dal Santo Uffizio per il suo funzionamento va
sicuramente ricordata quella importantissima dei famigli (familiares),
ovvero di quei servitori laici che collaboravano con i funzionari
dell’Inquisizione, partecipavano alle ricerche e agli arresti e costituivano
un vero e proprio apparato di informazione e spionaggio. Il loro numero
crebbe smisuratamente nei tempi. Fare parte di quella che con termini
attuali potremmo chiamare la “polizia segreta” della Santa Inquisizione
comportava numerosi vantaggi: i famigli godevano di un privilegio
giurisdizionale secondo il quale potevano essere giudicati solo dalla stessa
Inquisizione, inoltre avevano privilegi fiscali e il permesso di girare
armati. poiché si poté presto intuire il rischio che questa casta
privilegiata diventasse molto potente, ogni distretto adottò un regolamento
che innanzitutto fissava il numero massimo dei famigli. L’estrazione sociale
di questi ultimi era assai eterogenea.
A Valencia nel XVI secolo oltre i tre quarti erano di origine popolare, ma
il rapporto si sarebbe presto ribaltato a favore delle classi medie. In
Andalusia i famigli vennero invece reclutati tra la piccola nobiltà
all’interno della quale alcune dinastie finirono per imporre un vero e
proprio monopolio servendosi della mansione per esercitare un’assoluta
autorità locale sintomo di corruzione e di nepotismo.
Gli apparati inquisitori vennero messi sotto inchiesta raramente, nonostante
la loro condotta riprovevole e spesso macchiata dalla scorrettezza fosse
sotto gli occhi di tutti. Il lavoro svolto dai famigli era il punto di
partenza della fase istruttoria dei processi che proseguiva con la denuncia
e l’immediato arresto della persona oggetto della denuncia stessa. Seguivano
poi tre udienze durante le quali veniva presentata l’accusa ed era prevista
una discolpa dell’imputato.
Il verdetto era pronunciato collegialmente dagli inquisitori e dal vescovo.
Al termine del processo, ogni sentenza prevedeva tre categorie di pene:
spirituali, corporali e finanziarie. Momento culminante di ogni processo era
l’autodafé, “atto di fede”, cerimonia solenne con messa, sermone e lettura
delle sentenze che nel tempo si trasformò in una specie di evento teatrale
che nella sostanza doveva attirare quanta più gente possibile per mostrare
il potere della Santa Inquisizione nel riportare le anime smarrite sulla
strada della verità.
Di solito l’autodafé si celebrava una volta l’anno. La condanna a morte era
comminata ai recidivi o rei convinti che rifiutavano di ammettere la falsità
delle loro credenze. La sanzione più comune per chi decideva di collaborare
era l’abiura alla quale erano connesse diversi tipi di penitenza: obbligo di
indossare il sambenito (termine derivante da saco bendito “sacco
benedetto”), ovvero una mantellina gialla, con una o due croci disegnate
diagonalmente, che i penitenti erano obbligati a portare in segno di
indegnità per un periodo che poteva essere lungo pochi mesi ma anche tutta
la vita; c’erano poi le pene corporali come le frustate, con un numero che
poteva variare da 100 a 200; lavoro forzato sulle galere e confisca dei
beni.
Una delle abiure più importanti che la storia ricorda è senza dubbio quella
di Galileo.
Davanti al tribunale che lo inquisiva di eresia, l’autore del Dialogo dei
massimi sistemi pronunciò il 22 giugno 1633 queste parole: “… avendo
davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie
mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio
crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la Santa
Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Offizio, per aver io,
dopo essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che
omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del
mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si
muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia
modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi
notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e
dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e
apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna
soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver
tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra
non sia centro e che si muova.
Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel
Cristiano queste veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor
sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e
eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta
contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne
asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me
simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia
lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o ordinario del
luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d’adempiere e osservare intieramente tutte le
penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Offizio imposte […] Io
Galileo soddetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obbligato come
sopra […] In Roma nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.”
(vedi altre pagine in GALILEO GALILEI:
http://www.cronologia.it/storia/biografie/galilei.htm)
Spesso durante i processi lo strumento più utilizzato per portare il
peccatore alla confessione dell’errore era la tortura. Rigorose norme ne
fissavano durata, modalità e frequenza. Le dichiarazioni rese sotto tortura
erano considerate nulle se non venivano confermate 24 ore dopo. I metodi più
usati erano la garrocha, la toca e il potro . Nel primo caso la vittima
veniva appesa per i polsi a una corda pendente dal soffitto che serviva per
issare il corpo poi fatto ricadere di colpo. La Toca era invece più
complicata: la vittima veniva immobilizzata su un telaio inclinato,
costretta a spalancare la bocca nella quale veniva introdotto un panno che
costringeva il torturato a inghiottire tutta l’acqua che veniva versata
lentamente. Infine c’era il potro, il sistema più utilizzato a partire dal
XVI secolo che consisteva nel legare il peccatore a un cavalletto con canapi
che si avvolgevano intorno al corpo e alle estremità. Accorciando la
lunghezza delle corde il carnefice le faceva penetrare nel corpo del
torturato.
Le migliaia di persone, si parla di 150.000, che furono chiamate a rendere
conto in molti casi di una vita “normale” inquisita a volte perché i
funzionari potessero dimostrare zelo e attaccamento al lavoro senza però che
ce ne fosse neanche il pretesto, appartenevano al movimento dei catari, a
quello valdese, oppure erano ebrei, musulmani, marranos, cioè ebrei e
mussulmani convertiti, o ancora protestanti e templari. Se non rientravano
in nessuno di questi gruppi potevano essere streghe o semplicemente
individui dalle “strane” convinzioni non coincidenti con quelle
ecclesiastiche, come Giordano Bruno
(http://www.cronologia.it/storia/biografie/bruno.htm), filosofo arso sul
rogo a Roma nell’anno 1600, Gioachino da Fiore teologo e filosofo le cui
idee vennero condannate dal Concilio lateranense nel 1215, Arnaldo da
Brescia canonico e riformatore religioso impiccato e arso come eretico a
Roma nel 1155, Copernico che sostenendo che la terra gira intorno al sole
vide la sua opera messa all’indice nel 1616, il già ricordato Galileo
Galilei accusato di avere sostenuto le tesi copernicane e costretto ad
abiurare, e poi ancora Giovanna D’Arco
(http://www.cronologia.it/storia/biografie/arco.htm) messa al rogo nel 1431
con l’accusa di essere eretica recidiva, apostata e idolatra.
In modo del tutto indicativo e assolutamente casuale nella scelta degli
esempi, questa breve lista dà però un’idea di quanto profondamente
l’Inquisizione seppe condizionare la crescita del pensiero impedendo quella
libertà d’espressione fonte del progresso della società civile.
Le vicende di questi uomini e donne vittime della Santa Inquisizione non
sembra poter acquisire un senso preciso. Pur invocando un vago rispetto del
dogma cristiano si rimane senza risposte di fronte ad un così diffuso uso
della violenza, ad una così spietata quanto gratuita umiliazione del
pensiero umano.
Dopo la decadenza della Santa Inquisizione iniziata nel XVIII secolo ed in
conseguenza all’apertura degli archivi del tribunale avvenuta negli anni ‘20
dell’800 sono comparsi una messe di studi che hanno fatto chiarezza sulle
vicende oscure legate all’organismo nato nel medioevo e sono riuscite a
spiegare motivandole, alcune delle condanne e delle azioni più eclatanti.
La parte che sembra ancora avvolta dal mistero, ma che forse non potrà mai
trovare un suo perché, data la stessa assurdità che la caratterizza, è
l’inquisizione delle streghe. Tra i tanti episodi che fanno parte di questa
storia si è scelto di raccontarne uno in particolare che per la quantità di
documenti ritrovati si presta ad una ricostruzione precisa. Ha poi
particolare senso, quando si parla di persecuzione delle streghe, fare
riferimento a casi particolari evitando di abbandonarsi così ad una
caratterizzazione generica che toglierebbe all’argomento il sapore intenso
dei suoi particolari.
La caccia alle streghe attuata, con spietata intensità, soprattutto tra i
secoli XVI e XVII è stata letta dalla storiografia come uno scontro
culturale tra il mondo colto rappresentato dalla chiesa e il mondo popolare
identificato nelle pratiche magico-tradizionali. Spinta da un rinnovato
spirito di evangelizzazione, la chiesa mosse sistematicamente guerra, dal
‘500 in avanti, a superstizioni, vecchie credenze, riti post-pagani facenti
parte della cultura folklorica e pratiche magiche.
Gli storici che hanno tentato di fare una stima numerica delle vittime delle
accuse di stregoneria si sono sempre fermati di fronte alla mancanza delle
fonti cioè alla mancanza dei verbali dei processi. Nei rari casi in cui si
può disporre di queste carte si rimane sconvolti dalla loro durezza e
drammaticità e dalla capacità in essi insita di trasmettere un vivido
spaccato del mondo delle streghe e della sua persecuzione.
È quanto accade con il Corpus di carte riguardanti i processi eseguiti nella
valle di Poschiavo, una valle della Svizzera italiana. L’insieme di questi
documenti unici per quantità e coerenza interna permette di studiare,
attraverso l’analisi dei rescritti di 65 processi, le caratteristiche di una
caccia alle streghe che in questo luogo assume caratteristiche diverse da
tutti gli altri episodi che fanno parte della stessa vicenda.
Non emerge infatti, in questo caso particolare, quella cesura tra mondo
colto degli inquisitori e mondo popolare degli inquisiti che invece sotto
forma di scontro aperto è la base di ogni processo di stregoneria. In questa
valle delle Alpi Retiche non si riscontra un nucleo di credenze pagane o
precristiane conviventi con quelle della religione ufficiale. Solo alcune
imputate ammettevano di usare scongiuri o antiche parole magiche che pareva
potessero aiutarle a fronteggiare una vita sempre al limite della
sussistenza.
Nella maggioranza dei casi però le imputate erano povere donne, come povera
era la buona parte della popolazione, accusate più che per pratiche o
comportamenti sospetti, per futili motivi che possono essere ricondotti alla
difficoltà di un vivere sociale nel quale rancori, battibecchi, invidie e
liti, che spesso animavano i rapporti di vicinato, diventavano le reali
cause che portavano all’accusa.
Oltretutto, in quegli stessi anni la Valtellina era stata pesantemente
colpita dalla peste che aveva reso, se possibile, ancora più fragile
l’economia della zona. Considerando tutte le varianti endogene, nell’accusa
di stregoneria si possono vedere riflesse tutte quelle paure e quelle
angosce da sempre caratteri del mondo contadino, “che da se rivelavano i
punti deboli di quella economia, creando un rapporto di causa-effetto tra le
presunte streghe con le loro pratiche che “agivano” e le disgrazie della
vita che diventavano il risultato del loro agire; dall’altra, l’accusa
sconvolgeva i rapporti sociali e familiari di chi era accusato […]
incrinando equilibri e generando reazioni a catena”.
Motivo cardine della persecuzione delle streghe erano i loro ritrovi
notturni: i sabba, come venivano chiamati. Secondo i persecutori, durante
queste adunanze presiedute dal diavolo, si svolgevano riti che parodiavano
in modo blasfemo la liturgia cristiana, cui si aggiungevano unioni bestiali,
orge collettive, balli, banchetti e sacrifici umani. Anche le presunte
streghe di Poschiavo avevano le loro riunioni sataniche. A questi incontri,
che si svolgevano quasi sempre di giovedì, mancava però, quella ritualità
blasfema tipica di queste riunioni. Le donne della valle si incontravano per
ballare e divertirsi non compivano riti di nessun genere, anche se dalle
testimonianze rese durante i processi sembra che il diavolo fosse presente,
pur con sembianze del tutto normali e non mostruose.
Le donne interrogate dicevano che satana aveva le sembianze di un uomo di
mezza età o di un giovane ragazzo. Più raramente veniva descritto come un
animale, anche se non è da escludere che le sue repellenti malformazioni
fossero più il frutto delle fantasie morbose degli inquisitori che non delle
imputate, come si rileva dal processo a Orsola Lardo, durante il quale la
descrizione si delinea, a poco a poco, sotto l’insinuante interrogatorio dei
giudici che le chiedono (le parole dell’imputata vengono lasciate nel
dialetto del luogo): “Era come un homo?”
e l’imputata risponde:
“Al pareva alli vestimenti, ma l’era il demonio”
e ancora:
“Come era in faccia?”
“Al’era un brut lavor [= cosa], era negro in facia”.
“haveva barba, et capelli in testa?”.
“L’aveva una brutta barbascia, et in testa l’era come motto [= calvo]“.
“Haveva corni in testa?”.
“Signor no ma l’haveva come dei cap [= corna]“.
“Haveva mani come homo?”.
“Signor no che l’haveva come due griffe [= artigli]“.
“E li piedi come li haveva?”.
“Li haveva come quelli di un bosc [= caprone]“.
“Et nella vitta come era, et come lo cognoscevate?”.
“Mi nol sei l’era un soz lavor”.
Altre donne raccontano anche di avere avuto con il diavolo rapporti
sessuali…
… ma il tutto si limita a qualche descrizione che comunque sia non muta il
carattere modesto di questi incontri che di satanico non avevano granché.
Durante il loro svolgimento non vi erano riti parodistici del culto
cristiano, né un uso blasfemo degli oggetti sacri, né riti sacrificali di
nessun genere. In conclusione i ritrovi di Poschiavo sembrano essere state
semplici e allegre feste che dato il clima di censura morale venivano
volutamente visti come la realizzazione di riti satanici.
Tutt’al più, gli incontri di queste donne, peraltro quasi tutte provenienti
dalle stesse famiglie e dalle stesse contrade, il che indica una limitata
pubblicizzazione dei ritrovi stessi, potevano essere visti come una
compensazione delle privazioni materiali a cui erano sottoposte ogni giorno.
La conoscenza delle erbe, che in alcuni casi potevano provocare lievi
allucinazioni, le aiutava così a straniarsi da una realtà spesso troppo
dura.
Questi innocui tentativi di evasione venivano invece scambiati per pratiche
di magia nera che facevano paura soprattutto per il loro impatto sulla
società e non per la sfida religiosa che essi ponevano. Ciò di cui ci si
preoccupava maggiormente era la loro capacità di recare danno a tutta la
società attraverso la distruzione dei raccolti che poteva essere ottenuta
facendo grandinare, piovere, tempestare, facendo franare il terreno. Era
così che queste donne venivano ritenute capaci di sovvertire e distruggere
un’esistenza quotidiana difficile, dalla quale esse cercavano di sottrarsi
con metodi del tutto innocui, ma capaci di rendere insicuri e sospettosi
uomini e donne attaccati alla consuetudine, prime che alla religione, e
spaventati dalla loro stessa ignoranza.
Ilaria Tremolada
BIBLIOGRAFIA
Il martirio delle streghe, di Tiziana mazzali, Xenia edizioni, Milano, 1988
Il giudice e l’eretico, di John Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano, 1997
L’inquisizione, di Ricardo Garcia Cárcel, Fenice 2000, Milano, 1994
Domenico Scandella detto Menocchio, a cura di Andrea Del Col, Edizioni
biblioteca dell’immagine, Pordenone, 1990
Il manuale dell’inquisitore, a cura di Louis Sala-Molins, Fanucci, Roma,
2000
Storia generale dell’Inquisizione corredata da rarissimi documenti, di
Pietro Tamburini, Bastogi, Foggia, 1998
Giordano Bruno: tra magia e avventure, tra lotte e sortilegi la storia
appassionata di un uomo che, ritenuto mago dai contemporanei, fu condannato
per eresie dall’Inquisizione e arso vivo sul rogo, di Gabriele La Porta,
Newton Compton, Roma, 1988
L’Avvocato delle streghe: stregoneria basca e Inquisizione spagnola, di
Gustav Henningsen, garzanti, Milano, 1990
Ringrazio per l’articolo concesso gratuitamente il direttore di: http://www.storiain.net/index.htm
(VEDI QUI UN DOCUMENTO DEL 1559:
http://www.cronologia.it/biogra2/inquisiz.htm)
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Se la vita non muore mai! (... a proposito di eutanasia)


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Da anni il problema dell’eutanasia continua a suscitare dibattiti e riflessioni spesso molto sofferti. Di certo, per potersi avvicinare in modo costruttivo al problema dell’eutanasia occorre innanzitutto affrontare, consapevolmente e concretamente, lo scopo per cui la vita esiste.
Il genoma umano contiene in sé un progetto che dovrebbe realizzarsi nell’arco di circa 100 anni: tutto il percorso è già predisposto geneticamente ed è definito dalla scienza “ontogenesi biologica”. La morte, come logica conclusione del processo ontogenetico, in nessun caso nega la vita, poiché un processo così intelligentemente programmato ha lo scopo di far nascere in coscienza un individuo che prima non esisteva. Quindi la nascita della coscienza è lo scopo per cui l’ontogenesi biologica esiste. Parallelamente all’ontogenesi biologica va dunque considerata l’ontogenesi psicologica, ovvero la realizzazione del progetto potenziale del genoma umano.
A poco serve nascere biologicamente se l’individuo non sviluppa un Io che deve sfruttare il tempo e lo spazio per sperimentarsi, arricchirsi e gestire creativamente il proprio cervello ed il proprio corpo al fine di realizzare una coscienza capace di sopravvivere alla morte stessa. L’energia non si crea né si distrugge ma si trasforma e, nelle sue varie forme, trasdotta dagli organi di senso, viene dinamicamente integrata in una forma di conoscenza che dà vita alla coscienza.
La fisiologia può spiegare le ragioni per cui nel processo ontogenetico si verificano quelle patologie che producono il dolore, la sofferenza e la degenerazione del meraviglioso progetto che ogni essere umano rappresenta nell’arco della propria esistenza, e allo stesso tempo può mettere in evidenza gli elementi di prevenzione in grado di eliminare quelle sofferenze che nascono soprattutto dalla grande ignoranza che impera sulla conoscenza della vita. Non è la vita che soffre, ma un corpo devastato da migliaia di inquinamenti sia biologici che psicologici, e le interpretazioni che se ne danno sono spesso arbitrarie e consentono decisioni pseudo-terapeutiche non motivate dalla fisiologia stessa. Più gravi sono i danni che si provocano al processo fisiologico della vita di un essere umano, più gravi sono le conseguenze di tali danni.
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La morte, come abbiamo visto, è la logica conseguenza dell’ontogenesi biologica che dovrebbe fisiologicamente partorire una coscienza capace di godere di tutto ciò che la circonda e trasmettere la propria “ricchezza”. La grande confusione che aleggia nella psiche umana impedisce la vera nascita della persona e la paura che scaturisce da ciò che non si conosce genera spesso il rifiuto della vita. Occorre comprendere che il corpo è solo un mezzo attraverso il quale la coscienza dell’individuo dovrebbe relazionarsi all’ambiente nel pieno rispetto delle leggi che regolano la fisiologia dell’ecosistema. Il rispetto delle leggi fisiche e biologiche previene la patologia, la sofferenza, il dolore nonché la paura della morte. Molto è stato fatto per favorire e potenziare l’espressione dell’essere umano, ma il potenziamento dell’essere umano non deve violare tali leggi, poiché ogni violazione prevede una sanzione: malattia, ansia, angoscia, paura…
L’eutanasia non può essere legittimata dalla non conoscenza della vita, poiché il dolore e la sofferenza sono strumenti attraverso i quali l’individuo prende coscienza dei propri errori esistenziali o contribuisce alla presa di coscienza altrui al fine di favorire la qualità della vita e la prevenzione del dolore e della sofferenza stessa. Spesso i malati terminali, dopo lunghe lotte e conflitti con il dolore, raggiungono stati di sublimazione che consentono loro di accedere a quella “spiritualità” che nell’arco della loro esistenza non avevano mai potuto percepire. L’energia che dà vita alla coscienza dovrebbe raggiungere quella sublimazione prima di liberarsi da un corpo non più utile all’evoluzione dello spirito dell’individuo.
Michele Trimarchi - (luglio-settembre 2003)


Filosofia e spiritualità laica - Pitagora e la scuola pitagorica



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Pitagora, figura circonfusa da un alone semileggendario, nacque circa nel 575 A.C. nell’isola di Samo, posta di fronte a quella stessa costa della Ionia dove sorgeva Mileto (oggi costa turca del Mar Egeo), e dov’è nato il pensiero filosofico-scientifico. Si tramanda che sia stato allievo dello stesso Anassimandro, ma in seguito il suo pensiero si è evoluto in un’altra direzione. A lui ed ai suoi allievi si deve infatti la valorizzazione del numero, visto come la vera realtà dei fenomeni sotto le apparenze trasmesseci dai nostri sensi, e lo sviluppo dell’aritmetica e della geometria, strumenti che si sono rivelati indispensabili a dare una rappresentazione non solo qualitativa ma anche quantitativa della realtà: 2000 anni dopo la sintesi tra osservazione diretta dei fenomeni (metodo sperimentale) e linguaggio numerico sarà portata a termine in maniera mirabile da Galileo Galilei.

Trasferitosi infatti dalla parte opposta del mondo greco, a Crotone, nella Magna Grecia, Pitagora fondò una scuola che aveva una triplice funzione: politica (in quanto la setta dei Pitagorici deteneva il potere politico in città), mistica (in quanto i membri della setta vivevano alla stregua di monaci soggetti a regole ascetiche severe), ma anche scientifica: infatti i Pitagorici ritenevano che praticare la scienza servisse alla purificazione della mente, mentre alcune altre pratiche (come l’astenersi dal mangiare la carne e le fave, che nell’antichità erano alla base della diffusa malattia detta “favismo”) servivano a purificare il corpo. La pratica vegetariana della setta pitagorica era anche legata alla credenza nella trasmigrazione delle anime tra corpi umani e di animali alla ricerca di purificazione (“Metempsicosi”, come nella religione induista).

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Gli allievi più intimi del maestro erano chiamati “mathemàtikoi”, da “mathema”, ovvero “insegnamento” (da cui anche la parola “matematica”). Vigeva uno stretto autoritarismo sintetizzato dall’espressione “Lui (cioè il maestro) l’ha detto!” (in greco: “Autòs efas”; in latino: “Ipse dixit”), ma in cambio erano ammesse alle lezioni ed apprezzate anche le donne, in genere disprezzate nel mondo greco molto maschilista.

La stretta connessione tra fenomeni naturali e rapporti numerici fu intuita da Pitagora ed i suoi allievi osservando che le note e gli accordi musicali erano legati a precisi rapporti numerici, che trovavano riscontro anche in precisi rapporti di lunghezze e volumi negli strumenti musicali a corda o a fiato. Si attribuisce ai Pitagorici la scoperta di fondamentali teoremi matematico-geometrici quali quello detto di Pitagora (in un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, peraltro – sembra - già noto agli Egiziani) e quello sulla somma degli angoli di un triangolo (che è sempre uguale ad un angolo piatto).

Furono anche definiti tutti i solidi regolari, tra cui un posto di preminenza veniva dato alla sfera, considerato un solido perfetto. Ma la scuola si interessò anche di medicina: un allievo della scuola, il medico Alcmeone, scoprì che le nostre facoltà mentali risiedevano nel cervello (mentre gli antichi in genere pensavano che risiedessero nel cuore). Anche nel campo astronomico i Pitagorici capirono che la Terra girava intorno ad un fuoco fisso insieme agli altri pianeti, anche se non identificavano questo fuoco con il Sole, che per essi era solo una specie di grande lente che rifletteva la luce ed il calore. Una grave crisi traversò invece la scuola quando furono scoperti i numeri “irrazionali”, cioè quei numeri infiniti ottenuti dal rapporto tra due grandezze incommensurabili (come il lato e la diagonale del quadrato, o la circonferenza ed il diametro del cerchio) come meglio vedremo nei prossimi articoli.

In definitiva, Pitagora e i suoi allievi, anche se in modo ingenuo e contraddittorio (credevano nel valore quasi magico del numero, considerato quasi come il principio, o “Archè” del mondo), hanno posto le basi necessarie ad affiancare all’osservazione sperimentale i rapporti numerico-matematici indispensabili nella scienza moderna a partire da Galilei, ma di cui già nell’antichità (vedi ad esempio grandi scienziati come Archimede, o Eratostene) si era capita l’importanza fondamentale.

Vincenzo Brandi

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Gli "eletti" che sopravviveranno... (nelle previsioni prospettate da Marco Bracci)


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Partiamo da un punto noto a tutti: Tutti gli uomini hanno i cosiddetti 7 Centri di Coscienza/Chakra, essendo a immagine e somiglianza di Dio. I loro nomi sono vari, ma io mi riferisco ai seguenti: Ordine, Volontà, Sapienza (o Azione), Serietà, Pazienza (o Bontà), Amore e Misericordia (o Mitezza).

Ogni anima ho il compito di evolversi per ritornare ad essere uno Spirito perfetto, un vero Figlio di Dio, come in principio. L'evoluzione parte dal Centro dell'Ordine (perciò la vita sulla Terra è il primo gradino, regnandoci tutto fuorché l'Ordine che, grazie alle difficoltà che incontriamo, impariamo a mettere in pratica) e cresce fino alla Misericordia, raggiunta la quale si è di nuovo "a casa". Dopo superato l'Ordine (cioè raggiunto il controllo pressoché totale dei pensieri) e convintisi che fare la Volontà di Dio è l'unica via possibile verso la pace, la salute, la felicità, si arriva alla Sapienza. 

Come anime, cioè nell'Aldilà, arrivati alla Sapienza si può già creare, tramite le forze divine insite in ogni figlio di Dio e il pensiero, ma solo se ciò che si vuol creare è conforme alla Legge. In caso contrario l'oggetto creato si dissolve o non si manifesta neppure. Ad es. i giocattoli per i figli, le case, i giardini, i vasi di fiori che teniamo in casa, ecc. ecc.. Né più né meno tutto ciò che c'è sulla Terra eccetto quello che non è divino. Grazie a ciò, l'Universo è in continua espansione e i Figli di Dio in continuo aumento. Per l'Eternità. Ne consegue che la credenza che in Cielo si passi tutto il tempo a suonare la cetra è completamente sbagliata.

Dopo la Sapienza (detta anche Centro dell'Azione perché appunto si impara a creare), si passa alla Serietà, il Centro nei pressi del cuore, il Centro del Cristo, dove risiede la fiammella che Gesù, dopo "il compiuto" sulla croce, instillò in ogni anima e in ogni uomo che ha un'anima e che ha il compito di impedire la dissoluzione della Creazione voluta dagli avversari di Dio.

Superata la Serietà, i pensieri sono abbondantemente sotto controllo, la Volontà di Dio è subentrata alla volontà umana, si è imparato a creare grazie alla Sapienza e si ha la mente libera al punto tale che si possono percepire i messaggi telepatici dei mondi spirituali. Questi messaggi faranno sì che, coloro che hanno raggiunto o superato la Serietà, potranno percepire la chiamata per essere salvati dai "Figli di Dio, che arriveranno sulle navi che non hanno mai solcato le acque", affinché non rimangano schiacciati dagli eventi catastrofici che precederanno il Regno della Pace dei Mille Anni.

Il numero dei "superstiti" si aggirerà intorno ai 500 milioni.
Perciò gli "eletti" cercano sì la Verità ma soprattutto si sforzano, e ci riescono, di fare sempre più la Volontà di Dio tramite l'autoconoscenza, che comporta l'abbandono dei comportamenti umani contrari alla LEGGE e la richiesta di perdono a coloro che hanno danneggiato, oltre al perdono di chi ha danneggiato loro stessi.

Marco Bracci

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P.S.  I veri  "eletti" sanno benissimo come fare, sono gli altri che molto spesso non li seguono o, peggio, li eliminano perché mettono in luce le debolezze e gli errori altrui. 



Articolo collegato: 

Il Maometto innominabile e la Maria esecrabile

 "Riciclaggio della Memoria" 

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"La Blasfemia contro l’Islam è un reato. Questa quanto emerge dalla sentenza della CEDU legata al ben conosciuto caso Sabaditsch-Wolff. Sono 47 i Paesi dell’Europa su cui ha potere la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Ora, tutti i Paesi membri saranno costretti ad accettare le “regole” in merito a ciò che determina il reato di blasfemia per la religione musulmana. In poche parole, tutti potremmo essere accusati di aver offeso l’islam con le nostre dichiarazioni e ciò in nome di una “pace religiosa”.  Ancora una volta dunque abbassiamo la testa per placare l’offensiva, anche se questo metodo pare non aver mai funzionato nel corso della storia." (La Luce di Maria)

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Allora stiamo attenti a quanto scriviamo o diciamo su Maometto, perché l'islam è intransigente. Facciamo come la boldrini e la bonino che si  mettono il velo prima di “inchinarsi”, con occhi implorevoli, verso i fratelli musulmani.   Una volta si diceva di qualcuno fortunato “ha trovato la Mecca”, ora si intenderà che si è messo a pecorone. 

In compenso però, non potendo più dire male parole sul Maometto, potremo tranquillamente offendere  la Maria, perché per la corte suprema (ed anche per la giustizia italiana) ciò non è reato, anzi... 

 Ed a questo proposito vi ripropongo un mio articolo del 2008...


Femmineo sacro, parità fra i sessi e reati ideologici. Il maschilismo religioso nel cattolicesimo e la volgarità della bestemmia.

Sappiamo tutti che la posizione  della donna nella chiesa cattolica è di serie “b”, infatti solo i maschi possono recitar messa,  impartire  i sacramenti,  svolgere funzioni sacerdotali ed essere nominati vescovi, cardinali e papi. Le donne possono solo occuparsi di penitenze e lavori sporchi (con vari esempi dalla Perpetua alla madre Teresa di Calcutta). Recentemente nella chiesa anglicana è stato inserito un concetto di parità fra i sessi concedendo alle donne di accedere alla carica vescovile ma difficilmente l’esempio potrà essere seguito dal vaticano per la sua nota posizione disprezzatrice delle donne,  essendo inoltre tale  opinione  corroborata e sostenuta anche dallo Stato italiano… e qui vediamo  in che modo ciò avviene.  

Che la bestemmia  sia considerata un’offesa ideologica perseguibile penalmente è uno degli strascichi del potere temporale della chiesa, confermato attraverso i Patti Lateranensi  (e relative  postille nei codici legislativi e costituzionali dello Stato),  quello che meraviglia però è la sperequazione che si è venuta a creare in merito all’oggetto bestemmiato, ovvero se si offende il nome di dio padre o di suo figlio allora è reato mentre se viene offesa la figura femminile della madonna reato non è. 

Tale evidenza non è un fatto stabilito nelle norme giuridiche, in cui si parla genericamente di “reato di  bestemmia”   ma è il risultato di una osservazione, meglio chiamarla interpretazione,  -che fa comunque testo e   crea un precedente-  del  procuratore di Bologna Enrico di Nicola  che nel 2007 dichiarò “non intendersi reato offendere il nome della madonna, in quanto non espressione di divinità”. Ciò avvenne  in seguito ad una querela per l’utilizzazione  fatta dell’immagine di Maria da parte di un gruppo di omosex che facevano piangere sperma dai suoi occhi arrossati. 

Ora a me non interessa nulla discutere sul sesso degli angeli e dei vari livelli del diritto canonico e delle sfere paradisiache sancite dalla chiesa, nemmeno mi interessano le volgarità e la misoginia di certi “maschi”..

Trovo  però  assurdo che si possa distinguere e distribuire male il castigo e la colpa  se la trasgressione è diretta contro un dio padre o figlio (comunque maschio) oppure se indirizzata contro  una santa  madre (femmina).

Intendo perciò riaprire una discussione su questo argomento.   

Ma come la madonna non è l’altra metà del cielo? Non rappresenta il femminile universale, l’energia per la quale tutto si manifesta? Chi può fare a meno del femmineo sacro? Eppure offendere un “dio” frutto del pensiero, della concettualizzazione  umana e di cui non abbiamo nessuna certezza è reato, per il procuratore Enrico di Nicola, mentre offendere l’umano nella sua radice (la donna) non è reato. Forse sarà così secondo una legge astratta dalla vita reale,  può essere così per quanto riguarda il nostro sentire, il nostro stesso esistere?

Che si possa offendere la madonna (non per un fatto religioso beninteso) equivale a dire che si può offendere la madre, la sorella, la moglie, la figlia, l’amica. Queste leggi e queste letture della leggi vanno bene per i sofisti della giustizia, per i cavillatori dello spirito, quelli che descrivono i sentimenti come  merce sullo scaffale della mente.

Tale atteggiamento è solo il risultato retrivo di un maschilismo duro a morire,  una proiezione psichica patriarcale e sessuofoba, ma guardiamo alla realtà dei fatti, in ciò che avviene in natura, osserviamo con gli occhi  dell’istinto originario intrinseco che ci dice innegabilmente che non possiamo scindere il maschile dal femminile o  rendere l’uno inferiore all’altro.  E questo aldilà di ogni “immaginazione” religiosa. 

E  in fondo, diciamola tutta, la Madonna sicuramente è vera, in quanto donna reale e madre,  mentre  la “divinità” del suo figliolo è solo una comoda assunzione fideistica.

Paolo D’Arpini, antipapa

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