A uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che oggi la morte sia scomparsa dai pensieri, dalle preoccupazioni, dai comportamenti dell’uomo contemporaneo. Nella letteratura sociologica, storica e filosofica tale atteggiamento è stato delineato ora come proibizione della morte, ora come estradizione della morte, o ancora come tabù della morte.
Nella ipertrofica produzione editoriale degli ultimi anni solo duecento libri su centomila, cioè il due per mille, sono incentrati sul concetto di morte. Dove invece la morte è presentata con disgustosa abbondanza e agghiacciante familiarità è nei mezzi di comunicazione di massa, sia sotto forma di spettacolo (film, telefilm), sia sotto forma di informazione (resoconti di guerra e di catastrofi, cronaca nera).
Già da questa abitudine schizofrenica emerge però che l’idea della morte, lungi dall’essere scomparsa, ci ossessiona in maniera quanto mai sotterranea e condiziona i nostri atti, anche quotidiani, in misura assai maggiore delle apparenze.
Presso i Greci antichi essere umano era sinonimo di mortale, il medioevo europeo era caratterizzato dalla massima ricordati che devi morire, la modernità romantica sviluppava un culto monumentale dei defunti che era centrale nelle espressioni dell’epoca; la contemporaneità mostra un assordante silenzio sul termine della vita, relegato in àmbiti specialistici e robustamente recintati.
Se, come sosteneva Emile Durkheim, la religione è il principale collante di ogni aggregazione sociale e se alla base di ogni religione vi è la preoccupazione, il mistero della morte e il suo trattamento cultuale e culturale, allora dobbiamo chiederci quale sia il fondamento ideale della nostra odierna convivenza a partire dal modo di pensare la morte, e dunque la vita (Eraclito: «Vivere di morte, morire di vita»).
Ivi troveremo presumibilmente altresì la spiegazione di tanti comportamenti apparentemente inspiegabili ed evidentemente irrazionali, in primisla sistematica distruzione delle possibilità di vita del genere umano sul nostro pianeta tramite l’artificiale deterioramento delle condizioni della biosfera.
L’individuo contemporaneo cerca dunque disperatamente di dimenticare la possibilità della morte e di allontanarne il timore; fa questo creando miti e riti, a cui in ogni tempo si è ricorso. La differenza è che egli si ritiene superiore ai suoi antenati per aver bollato tali espedienti del passato come banali superstizioni, mentre in realtà si comporta con ingenuità perfino più marcata; certamente l’uomo del futuro, se esisterà, riderà allegramente, e speriamo in modo anche un po’ compassionevole, dei trucchi di oggi per sfuggire all’inevitabile destino di noi mortali.
La rassegna di codeste invenzioni dovrà qui essere succinta per ragioni di tempo e di spazio, ma ciascuno potrà trovare nella propria esperienza innumerevoli esempi a suffragio.
Mito fondante nel nostro vivere sociale è la crescita, in particolare economica. La scoperta di combustibili fossili di grandissima resa (petrolio innanzitutto) ha consentito uno sviluppo tecnologico e produttivo senza precedenti, ma solo la mancanza di uno sguardo prospettico può illudere circa la permanenza infinita di cotale fase di crescita. Perché invece i nostri contemporanei vi prestano una fede così assoluta?! Perché la crescita è, letteralmente, la proprietà dell’adolescenza, l’età più distante dalla senescenza e dalla morte; quale modo migliore per ingannarci con una presunta e artificiosa immortalità?!
Un tempo l’infinito era qualità divina e per superare la nostra finitezza si cercava un collegamento appunto col divino; ora l’infinito è qualità matematica e per appropriarcene abbiamo trasformato tutti gli aspetti dell’esistenza in quantità misurabili e abbiamo lasciato che essa fosse sommersa da un mare di calcoli economici.
Posto che i nostri paesi ricchi dovessero rappresentare il paradiso terrestre, una volta smarrito quello celeste, e constatato il risultato miserevole in termini di felicità umana, si è provveduto quanto meno a «fabbricare» l’inferno nei paesi poveri, immiserendoli ben oltre le necessità del nuovo imperialismo, come acutamente osserva Zygmunt Bauman.
Alla morte è legata la nascita, in un ciclo naturale e senza fine. Per allontanare e sterilizzare la dipartita dal mondo, ecco pertanto che si è destinata la medesima sorte alla venuta al mondo: si sono relegate entrambe in uno spazio chiuso totalmente medicalizzato. I sacerdoti che ci sono familiari nel momento presente non indossano l’abito talare nero, bensì il camice bianco. A questi ultimi appartiene in monopolio la gestione, professionalizzata, dell’inizio e della fine della vita, ciò che nelle famiglie rurali allargate era invece motivo di riunione e condivisione familiare (Ivan Illich).
A Jean Baudrillard dobbiamo poi l’osservazione di importanza fondamentale che all’occhio moderno la morte pare connessa con la malattia, è considerata una specie di malattia grave a cui temporaneamente non è stata trovata una cura adeguata: il che rappresenta la perdita di consapevolezza del legame inscindibile tra morte e vita di cui ci parla Eraclito e dopo di lui tanta ottima filosofia.
È sempre in questo àmbito che sono propagati sforzi mentali e materiali immensi, al fine di perfezionare costantemente protesi, innesti e trapianti chirurgici, modificazioni genetiche (viviamo una metafisica del codice che ha sostituito il DNA all’anima): robotizzazione e clonazione intendono porre l’essere umano nel ruolo di un finora inaudito dio creatore e immortale, soggetto e oggetto di creazione.
Virtualità e iperrealtà costituiscono un’altra faccia del reitereato disconoscimento del binomio vita-morte, una via di fuga che le tecnologie informatiche e telematiche spalancano vieppiù ai desiderosi di un mondo fatto di inesauribili impulsi elettronici anziché di carne, nervi e sangue, tutti notoriamente deperibili.
Ma il fascino dell’inorganico (Mario Perniola) non si ferma qui e pervade i piccoli gesti quotidiani di ognuno, fondando nel consumismo le basi della socializzazione attuale. La moda e l’obsolescenza programmata si incaricano di comandare ai fedeli consumatori la sostituzione continua delle merci, producendo nel contempo la sensazione di una novità e giovinezza interminabili degli oggetti che possediamo e quindi, di riflesso, di noi possessori.
In verità così l’uomo contemporaneo ha finito per essere posseduto dai suoi oggetti, divinizzati; ha finito per essere umiliato al loro cospetto; ha finito per temere l’estinzione della sua specie non già a causa della collera divina, ma a causa delle onnipotenti armi nucleari da lui inventate con tanto orgoglio (Günter Anders).
Gli articoli di consumi che non a caso vanno per la maggiore sono quelli elettronici, non solo per le possibilità di virtualizzazione di cui sopra che offrono, ma anche per il loro aspetto lucido, infrangibile e inscalfibile, così simile ai grattacieli di vetro e acciaio, con le loro superfici riflettenti, che tanto piacciono all’architettura del tempo presente. Tramite loro ci si può illudere di condivederne l’intrinseca invulnerabilità.
Non dimentichiamo poi le vetture e le tute da motociclista in cui ci si racchiude come in moderni sarcofagi; la loro utilità per condurre un’esistenza di morti viventi e (velocemente) deambulanti è insostituibile!
E pure la velocità merita una menzione (un notevole pensatore, Paul Virilio, vi ha dedicato ben di più, il meglio della sua produzione intellettuale): comprimendo all’inverosimile spazio e tempo il cittadino globale sperimenta la sensazione di espandere in proporzione la lunghezza della sua vita.
Di passaggio osserviamo che la terza inevitabile vittima sacrificale della smaniosa ricerca d’immortalità, dopo morte e nascita e in stretta connessione, è stata la sessualità, uccisa dalla freddezza della pornografia, del feticismo e della moda. Non c’è d’altronde bisogno di ricorrere a Georges Bataille (che comunque rammentiamo volentieri) per essere consapevoli dell’inseparabilità di eros e morte.
Più in generale, del resto, i rapporti umani nel loro complesso sono stati raggelati e sterilizzati in una società dalle forti connotazioni immunitarie (Roberto Esposito), entro cui lo scambio di segni ha ampiamente sostituito quello ben più caldo, ma inquietante, di doni, tipico all’opposto delle società comunitarie.
Mentre uno degli ultimi grandi filosofi, Martin Heidegger, interpretava l’esistenza come essere-per-la-morte e affermava che «nella morte l’esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio», la coscienza dell’uomo comune prendeva dunque ben altre strade, ritenendole comode scorciatoie rispetto ai grandi interrogativi sulla fine.
Tutto ciò ha significato, con effetti ogni giorno più macroscopici, distrarre lo sguardo dalla natura, dalla physis, così evidentemente coinvolta nel ciclo delle nascite e delle morti, cercare nell’artificio e nell’autoproduzione le prospettive di fuga dalla morte, degradare la stessa natura a insieme di regole manipolabili e a inesauribile magazzino di risorse per l’inarrestabile, prometeica corsa umana senza limite.
Non solo in questo modo, per sfuggire idealmente e illusoriamente al proprio destino mortale, l’uomo di oggi si è creato un rischio di morte senza precedenti per sé e per gran parte dei viventi; contemporaneamente si è precluso la possibilità di cercare un efficace rimedio al terrore della morte proprio là dove solamente lo potrebbe rinvenire: in un’intima e totale comunione con la natura e con il cosmo.
Bene, ma in quali luoghi del pensiero rintracciare una siffatta unione? Le filosofie orientali offrono la possibilità di un cammino di elevatissima importanza; in realtà, però, anche la storia culturale cosiddetta occidentale ci porge dei punti d’appoggio di estremo interesse. Non sarà certo possibile ripercorrerli qui e ora, ma ci permettiamo alcuni rapidi cenni.
Sofocle, uno dei grandi tragediografi che così limpidamente rispecchiarono la crisi della polis ateniese alla viglia della nascita della grande filosofia, scriveva qualcosa che appare ben riecheggiato nella citazione heideggeriana di prima: «Esiste fra gli uomini un detto, apparso in tempo antico, che di nessun mortale si può conoscere la vita, se è lieta o infelice, prima che egli muoia».
Platone nel Timeo, dialogo della maturità che esprime la sua cosmogonia, presenta il fecondo concetto di anima del mondo, considerando dunque che l’universo sia attraversato da un soffio vitale che accomuna viventi e no in un unicum imperituro, entro cui cessano sì le singole forme esistenziali, ma per fondersi nel Tutto e riformarsi in nuove creature.
In piena era moderna, nella seconda metà del Seicento, Baruch Spinoza reagisce alla concezione dualistica (res cogitans / res extensa) cartesiana, la quale è all’origine delle perversioni intellettuali che abbiamo cercato di descrivere sopra; compone un’opera che dichiara nel titolo la sua finalità, Etica, cioè discutere del miglior comportamento umano, ma che per arrivare al risultato si dedica per gran parte alla considerazione del cosmo. Ebbene, dietro un apparente monoteismo che non gli evitò l’accusa di ateismo, si staglia una concezione, che potremmo piuttosto definire panteistica, per la quale l’universo è fatto di una sostanza unica e indivisibile, che permea ciascun ente. In quanto parti componenti di una sostanza infinita, la nostra singolare finitezza si dissolve in essa.
Concludo con un riferimento del tempo attuale forse abbastanza noto nei nostri ambienti, benché purtroppo generalmente misconosciuto. L’Ecosofia (ovveroecologia profonda) di Arne Naess prospetta l’unità e la diversità della vita insieme, vale a dire ritiene che la migliore realizzazione del Sé possa avvenire soltanto tramite la stretta interazione con le altre forme di vita (e persino con la natura inorganica). Questo indirizzo filosofico «presuppone che si dia molta importanza all’interrelazione tra tutte le cose e che i nostri io siano solo frammenti, non unità separabili da tutto il resto».
Dagli albori dell’elaborazione del pensiero occidentale fino a oggi, fondamentalmente la strada più praticabile verso un senso vivo di immortalità rimane quella di uscire dai confini ristretti della propria individualità e immergersi nell’intero della vita, nella sua unicità pur nella pluralità di espressioni: essa sì nel suo complesso è evidentemente eterna!
Pier Luigi Tosi
Titolo Originale: Morte e natura
Intervento per l’incontro collettivo ecologista del 22 giugno 2013 al teatro Cantieri Cantelli di Vignola
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Bibliografia
G. Anders, L’uomo è antiquato, Torino, Bollati Boringhieri, 2007
Ph. Ariès, Storia della morte in occidente, Milano, BUR, 2006
G. Bataille, La sovranità, Milano, SE, 2009
J. Baudrillard, Il delitto perfetto, Milano, Raffaello Cortina editore, 1996
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2009
Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2009
É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Roma, Meltemi, 2005
Eraclito, Frammenti, Milano, BUR, 2013
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002
M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 2009
I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano, Boroli, 2005
E. Morin, L’uomo e la morte, Roma, Meltemi, 2002
A. Naess, Ecosofia, Como, Red, 1994
M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 2004
Platone, Timeo, Milano, Bompiani, 2007
Sofocle, Trachinie – Filottete, Milano, BUR, 2011
P. Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Milano, Multhipla, 1982