Il modo della relazione dovrebbe sostituire quello dell’affermazione. Nel primo possiamo riconoscere l’infinito che è in tutti noi. Nel secondo non possiamo che sopraffarlo o farci sopraffare. Comprimere l’infinito entro il razionalismo implica qualche inconveniente.
Nell’orgia razionalistica, che domina la creatività di questa
cultura fondata sull’oggettività della realtà, avvengono
distorsioni, distrazioni e dimenticanze. Queste però non appaiono in
quanto tali, ma come semplici ricondotte del mondo, della realtà,
del pensiero al razionalismo. Più precisamente, sarebbe opportuno
dire riduzioni al razionalismo. Ovvero il tentativo – riuscito
secondo il razionalismo – di ridurre l’infinito entro categorie,
quantità, parametri finiti, arbitrari, autoreferenziali; di
inquadrare e orientare anche la vita relazionale secondo uniformanti
logiche finalistiche e deterministiche.
La tangente che prende il discorso razionalista si genera nel non
ammettere che la realtà è nella relazione. Basta questa banalità
per riconoscere l’assurdità della mente razionalista-materialista
di definire, descrivere, spiegare, consigliare tutto e per tutti.
È un ordine delle cose divenuto abitudine e consuetudine, dunque
verità, in penultimo dogma e, infine, superstizione. Ovvero non più
osservato, non più discusso o criticato. Tutto è ridotto ad una
sola logica, ad una sola prospettiva, ad una sola rappresentazione.
Ad una sola realtà. Se in contesto strettamente
teoretico-scientifico non c’è nulla da eccepire, in quello morale,
humus dell’umano, c’è da inorridire.
È un punto dal quale prende le mosse la prospettiva scientista,
ovvero quell’intento di esaurire nella scienza meccanicista –
considerata per eccellenza razionalismo puro – tutto il reale e,
contemporaneamente, escludere dal reale quanto la medesima non è in
grado di misurare, catalogare, comprimere.
Se tutto ciò ha una ragione storica che lo legittima, ha anche un
campo di applicazione in cui rende il suo servizio. Tutte le nostre
affermazioni hanno ragione d’essere e di verità entro il campo
coerente che le genera. È quello dell’amministrazione, cioè quel
terreno determinato da protocolli condivisi o accettati. Lo si
potrebbe definire bidimensionale, dove tutto è fermo e chiaro ai
giocatori del momento. Ma, nuovamente, non è quello relazionale, che
potremmo definire volumetrico, in cui tutti gli elementi
dell’universo di ogni giocatore si muovono in ogni modo lasciando
spazio a un’altra ovvietà, ovvero che l’equivoco è lo standard.
Una banalità assoluta che tutti noi possiamo riconoscere prendendo
una qualunque delle relazioni personali e non che riempiono l’arco
della nostra biografia.
Per comodità del discorso, si può considerare un’espressione
qualunque del razionalismo normoprotocollare, della vita
prêt-à-porter a taglia unica, nonostante l’irriducibile
molteplicità delle differenze che ci distinguono. Per esempio, le
scale delle difficoltà delle attività sportive.
Per quanto certamente sorte per rendere un servizio e un’indicazione,
a causa della cultura che ci costringe il pensiero, sono più
facilmente impiegate come riferimento definitivo.
Diviene così ordinario ascoltare commenti e perplessità che altro
non derivano se non dall’inconsapevole messa a confronto della
nostra esperienza con un dato considerato definitivo. Nell’attività
dell’arrampicata, e non solo, si sente dire: “Non è vero che
quel tiro è di 6a, è molto più difficile” o più facile. E altro
del genere.
Le scale che sarebbero da intendere come indicazioni di massima, alla
stregua delle previmeteo, sono invece assunte come plinti di realtà.
“Avevano detto che pioveva e, invece, neanche una goccia”.
Ne risultano dunque equivoci. Consapevoli del fermo immagine del
campo bidimensionale, espediente obbligatorio per esprimere un
giudizio, diviene possibile accedere alle consapevolezze che
permettono di riconoscere la realtà in quanto relazione. È quanto
fanno i gli psicoterapisti, i didatti, i pedagoghi, alcuni docenti,
la maggioranza delle madri. E anche gli scienziati, in particolare
quelli che hanno potuto riconoscere il potenziale umanistico della
fisica implicato nella meccanica quantica. Una specie di realtà
nella relazione in senso stretto. Osservato e osservatore non sono
separabili, come implicitamente ritiene la scienza classica.
In questi termini, con certe consapevolezze, la scala delle
difficoltà torna a fornire il suo miglior servizio.
Non solo.
Gli adepti hanno modo di evolvere se stessi. Diviene infatti vero
che la miglior informazione sulla difficoltà di una certa salita non
è più fornita dal grado assegnatole, ma dal compagno di cordata che
meglio di chiunque conosce le caratteristiche psicofisiche generali e
del momento del suo socio, le sue doti, le sue motivazioni.
Conoscendo già la salita, potrà informarlo che quel terreno è
adatto o meno alle doti del momento del compagno. Tutti gli scalatori
sanno che certe salite tendono ad essere compiute proprio perché non
se ne conosce il grado assegnato dalla letteratura. Viceversa, accade
anche che, proprio per la conoscenza del grado assegnato, si
consideri una salita troppo facile o troppo difficile. Nel primo
caso, ci si può trovare al cospetto di un terreno eccessivo per noi.
Nel secondo, a rinunciare alla salita. In ambo i casi si ha a che
fare con una mortificazione della nostra libertà di espressione, che
altro non è che l’incongruenza dell’umano nel protocollo. Come
accennato, per la comunicazione si tratta di banalità concettuali,
ma di segreti in contesto relazionale. Da svelare attraverso un
percorso personale, non per capirli, ma per incarnarli, per emetterli
nel fare ordinario delle relazioni. Una verità che dovrebbe uscire
dagli studi psicoterapici ed entrare nel fare di tutti.
L’infinito che siamo non sta nella regola. Nella bidimensione
esprimiamo una parte di noi. Cogliere il volume è il passo
necessario per la miglior relazione col mondo. Nel volume,
nell’infinito, c’è già tutto. È anche in questo il
nietzschiano eterno ritorno dell’uguale. Tutte le posizioni,
tutti i perché, tutto ciò che accade. Ci sono il tempo e lo spazio
e la logica, nonché la loro arbitrarietà, la rivelazione brutale
della loro consuetudinaria natura, tanto necessaria e utile
all’amministrazione della vita, quanto mortificante se estesa alla
vita tutta. Tempo e spazio non sono che misure delle nostre azioni,
calcolate dall’instabilità dei sentimenti.
Nel volume c’è modo di riconoscere l’uomo e il significato della
magia.
Il giardinetto di giudizi e attributi che scambiamo per realtà,
inconsapevoli che i primi, credendo di conoscerla e di svelarla, non
fanno che ridurre e distorcere la seconda a proprio uso e consumo.
Non fanno che allontanarci dall’intero, riducendoci a impostori di
imbrattata, ideologica narrazione. È un giardinetto egoista, per il
quale possiamo uccidere e farci uccidere.
Lorenzo Merlo