Il grande sviluppo delle attività scientifiche indusse una serie di importanti filosofi ad affrontare i problemi connessi con la correttezza dei metodi di ricerca e la verifica della correttezza delle teorie scientifiche. Bertrand Russell (1872-1970), impegnato insieme a Whitehead in un tentativo di costruire un sistema logico-matematico assiomatico, si interessò anche ai problemi della conoscenza dando luogo ad una corrente filosofica che prese il nome di “Atomismo logico” (1)(6).
Russell infatti – ponendosi sotto certi aspetti nel grande filone dell’empirismo britannico – ritiene che la realtà sia fatta di singoli fatti “atomici” (cioè elementari) – tutti in relazione tra loro - che vengono percepiti direttamente dai nostri sensi, ricorrendo anche al coordinamento tra vari sensi (inferenza multi-sensoriale ben nota anche ai filosofi antichi). I fenomeni della realtà vengono poi ricostruiti dalla nostra attività logica. Russell dice esplicitamente che l’oggetto che cade sotto la nostra sensibilità e la sensibilità stessa sono cose diverse, assumendo quindi una posizione “realista” che dimostra l’influenza che avuto sul suo pensiero il “realismo” di Moore, di cui ci interesseremo più avanti (1)(6).
Anche se il mondo esterno esiste, tuttavia potremmo anche ingannarci sulla reale presenza degli oggetti, per cui la conoscenza rimane affetta da un certo grado di incertezza. Ai singoli fatti corrispondono singole proposizioni “atomiche” che non sono formate solo da soggetto e predicato (ad esempio: questa cosa è bella), ma esprimono anche relazioni tra cose (questi aspetti linguistici del pensiero di Russell mostrano l’influenza della filosofia dell’amico Wittgenstein, di cui ci interesseremo più avanti). Le proposizioni complesse sono somma di proposizioni atomiche, e la verità di una proposizione è espressa solo dalla sua corrispondenza a fatti veri. Bisogna sempre riferirsi per una verifica ai fatti atomici elementari di partenza. Distaccandosi – in questo - dal pensiero di Wittgenstein, Russell afferma che non basta usare un linguaggio, che non porti a contraddizioni logiche, per giungere alla verità(1).
Il pensiero di Russell dette un significativo contributo alla corrente che prese il nome di “Empirismo logico” o “Neo-positivismo”, che ebbe poi nel Circolo di Vienna fondato nel 1922 da Moritz Schlick il suo principale caposaldo(1)(2)(6). Di questo circolo fecero parte Rudolf Carnap, Otto Neurath, il matematico Hans Hahn, Friedrich Weismann, ecc. Il Circolo di Vienna fu in corrispondenza con l’analogo circolo berlinese diretto da Hans Reichenbach, e fu frequentato per qualche tempo anche dal logico ceco Gödel, dal filosofo statunitense Quine, da Wittgenstein, da Karl Popper e dal britannico Alfred Julius Ayer (1910-1989). Di molti di loro ci interesseremo in seguito. Dopo l’assassinio di Schlick nel 1936 ad opera di un fanatico nazista, e dopo l’annessione dell’Austria al Reich nazista nel 1938, il circolo – che aveva mantenuto sempre un carattere progressista e laico – fu poi chiuso definitivamente. Molti dei suoi membri si rifugiarono in Inghilterra, come Neurath, o negli Stati Uniti, come Carnap ed il berlinese Reichenbach.
I membri del circolo - in particolare Rudolf Carnap (1891-1970), forse la figura più significativa - ma anche Ayer, ecc, sostenevano che la conoscenza coincide con le forme linguistiche che la esprimono, che non devono contenere contraddizioni. Gli enunciati possono essere “analitici” se sono frutto solo della logica deduttiva (e quindi sarebbero “veri a priori”, come gli enunciati matematici, che sono però “tautologici”, cioè non ci dicono nulla di nuovo sulla realtà), oppure “sintetici” (o “empirici”) se derivano dai “fatti” osservati cui bisogna sempre tornare per verificare la verità dell’enunciato (“verificazione”). Il criterio di ridursi sempre alle sensazioni iniziali (derivata da Mach), o agli oggetti fisici corrispondenti alle sensazioni (posizione più “realista” assunta in un secondo tempo da Carnap) viene chiamata “riduzionismo”. Gli enunciati sono “veri” se le sensazioni e gli oggetti sono “veri”. Se gli enunciati non sono verificabili, sono metafisici e privi di significato. Gli enunciati teorici sono abbreviazioni di una serie di enunciati direttamente verificabili. Le leggi sono enunciati universali, tanto più “probabili” se verificati in molti casi.
Si può dire che il pensiero antimetafisico di questo gruppo di filosofi ribadisce la validità del pensiero scientifico, basato sull’esperienza e l’induzione, accentuandone, però, gli aspetti logico-linguistici e convenzionali (sotto l’influenza di Wittgenstein e Mach: vedi N. 95). Varie critiche furono avanzate da altre correnti filosofiche al criterio di “verificazione” sperimentale che non ci porterebbe a risultati certi (per la possibilità di presenza di casi non previsti dalla verifica). Giustamente Ayer rispose che la verifica fatta in molti casi ci porta a stabilire un alto grado di probabilità per una certa teoria, che è un risultato scientificamente accettabile. Anche Reichenbach, che fu anche uno studioso di Fisica Quantistica, era un sostenitore del probabilismo delle teorie scientifiche sostenuto dall’esperienza.
Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein studiò in Inghilterra a Cambridge dove strinse una fruttuosa amicizia con Russell. Tornato in patria per arruolarsi come soldato nella guerra 1915-18, traversò nel dopo-guerra un periodo di crisi psicologica in cui fece anche il giardiniere. Nel 1921 pubblicò in tedesco la sua opera maggiore, il “Tractatus logico-philosophicus”, tradotto in inglese l’anno seguente, che gli dette un’enorme fama. Egli sostiene che il mondo è una totalità di “fatti” e che il linguaggio è la loro raffigurazione. Il linguaggio – che può essere semplice o complesso - ha senso solo se rappresenta la struttura logica di un possibile fatto. Ne consegue che l’unico linguaggio valido è quello scientifico, che esprime relazioni verificabili tra fatti. Le proposizioni meramente filosofiche sono senza senso perché si interessano di metafisica. I filosofi dovrebbero solo distinguere ciò che si può dire (cioè che ha un senso) dall’indicibile privo di senso.
Tuttavia, dopo aver trascorso 10 anni come insegnante a Cambridge tra il 1936 ed il 1946, e dopo aver traversato un nuovo periodo di crisi in cui visse come eremita in Irlanda, il filosofo fece autocritica nell’opera “Ricerche Filosofiche”, dove rivalutò tutte le forme di linguaggio comune. Il significato del linguaggio dipenderebbe dall’uso che se ne fa in un certo contesto, e non dalla verificabilità. Basta che rispetti le “regole del gioco” che si è scelto (ad esempio, anche in ambito religioso, sociale, morale, ecc.). Compito del filosofo è chiarificare il pensiero ed eliminare i non-sensi. Il pensiero di Wittgenstein, considerato nel mondo anglosassone come il massimo filosofo del secolo, appare – a chi scrive – apprezzabile (almeno per quanto riguarda il “Tractatus”), ma forse troppo appiattito sul tema del linguaggio, ed inoltre in parte contraddittorio per quanto riguarda le “Ricerche”; quindi limitato sotto vari aspetti.
Più incisivo sotto vari aspetti appare il pensiero dell’inglese George Edward Moore (1873-1956), professore a Cambridge, che, seguace in un primo tempo del pensiero di Francis Herbert Bradley (1846-1924), che aveva introdotto in Inghilterra la filosofia idealista, poi se ne distaccò decisamente diventandone avversario e sostenitore del neo-realismo filosofico. Nell’opera “Confutazione dell’Idealismo” del 1903 Moore critica Berkeley (N. 55) affermando decisamente che “essere” ed “essere percepiti” sono due cose diverse. Il filosofo difende il “senso comune” per cui sappiamo intuitivamente che il mondo esterno esiste indipendentemente dalle nostre percezioni, e non solo nella nostra mente. Le differenze e l’articolazione delle nostre sensazioni corrispondono a differenze e all’articolazione degli oggetti esterni a noi. Egli, inoltre, rivaluta ed apprezza anche il linguaggio “comune”. Anche il collaboratore di Russell Whitehead aderì al “neo-realismo”, salvo poi a perdersi in successive elucubrazioni metafisiche. Negli Stati Uniti il neo-realismo, introdotto dal Prof. W.P. Montague (1878-1953) dell’Università Columbia, fu rappresentato dal noto filosofo di origine spagnola George Santayana (1863-1952); ma anche quest’ultimo poi aderì ad una visione metafisica dualistica, distinguendo tra una realtà naturale ed una presunta “essenza” spirituale.
Un altro frequentatore del Circolo di Vienna, Kurt Gödel(3)(4)(5), trasferitosi poi negli Stati Uniti a Princeton dove divenne per 15 anni intimo amico di Einstein, si distinse giovanissimo nel 1930 per aver pubblicamente messo in crisi il sistema logico di Hilbert durante il Congresso matematico di Königsberg (vedi N. 93). L’anno seguente Gödel illustrò il suo “primo teorema dell’incompletezza”, in cui dimostrava che nel sistema di Hilbert sarebbero sempre rimasti degli enunciati matematici indimostrati. Nel 1934 fu pubblicato un “secondo teorema dell’incompletezza”, in cui si dimostrava che la coerenza di un sistema del tipo rigoroso sviluppato da Hilbert era indimostrabile (e che era impossibile dimostrare la verità di un insieme di assiomi con un algoritmo, cioè una formula matematica computabile, come ipotizzato da Hilbert).
Questi risultati, che hanno indotto l’allievo di Hilbert, Von Neumann, a considerare Gödel - forse con qualche esagerazione – il più grande logico dopo Aristotele, hanno comunque indotto una discussione sui fondamenti della matematica. Il matematico spagnolo M. Madrid Casado afferma che la matematica non è un singolo edificio compiuto e perfetto, ma come una città in costruzione dove molti edifici sono in ristrutturazione, o in disarmo. Ironizza anche sul fatto che molti matematici costruiscono teorie utili (come quelle atte a risolvere le equazioni differenziali o ad attuare analisi funzionali utili in fisica) e poi nel weekend si dedicano alla logica matematica, attività tanto amata dai filosofi.
In effetti tutta la teoria logica degli insiemi di Cantor, Hilbert, ecc. – già contestata all’inizio del ‘900 sia dai matematici “intuizionisti” guidati dall’olandese Luitzen Brouwer (1881-1966), che ritenevano la matematica frutto di intuizione razionale (non metafisica) della nostra mente, sia dai matematici “platonici” che ritenevano gli oggetti matematici come entità esistenti, da scoprire – fu continuata dall’allievo Von Neumann e dal gruppo francese noto col nome collettivo di “Bourbaki”, e fu molto in auge fino agli anni ’60 e ’70 del ‘900; ma oggi è alquanto passata di moda.
Vincenzo Brandi
(1) L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 e seg.
(2) P. Di Porto, “La Scienza austriaca”, presentazione di seminario, comunicazione on-line
(3) RBA, “Le grandi Idee della Sc. – Hilbert”
(4) RBA, “Le grandi Idee della Sc. – Gödel”
(5) RBA, “Le grandi Idee della Sc. – Von Neumann”
(6) W.Adorno ed altri, “Storia della Filosofia”, Laterza 1987