Nel mondo della psicologia d'oggi si avverte forte il dibattito sul che cosa dovrebbe essere lo psicologo, dato che non ne esiste definizione precisa nemmeno nel codice deontologico. E così anche la psicologia, come molte altre scienza, si trova frammentata in numerosissimi filoni, dovuti anche alla diversa applicazione di questa giovane scienza in molti ambiti d'indagine. Ad esempio la psicologia sociale, che studia l'essere umano nel suo contesto sociale, è quella che maggiormente ha eseguito ricerca sul campo o in laboratorio (ricerca) - come non ricordare i famigerati esperimenti di S. Milgram e P. Zimbardo che sconvolsero il mondo - e quindi è orientata verso un metodo altamente "scientifico", da osservatore distaccato e attento; mentre la psicanalisi e il recente filone della psicologia umanistica di Rogers, si focalizzano sull'essere umano in quanto tale e sui meccanismi di fondo che lo costituiscono, adottando diversi approcci "strategici" a seconda dei casi. Ma lo psicologo non può permettersi questa dicotomia: da una parte la sua specifica umanità è fondamentale nelle vesti che si trova ad indossare durante il rapporto stretto con l'utente (soprattutto in ambito clinico), dall'altra riveste comunque una figura professionale, nel senso che deve impedire di interferire con giudizi, valori, ideali personali e i propri significati, di modo da mettere da parte la propria soggettività e lasciare totale spazio all'altro, anche per evitare eventuali "biases" (distorsioni d giudizio, pregiudizi).
E' chiaro che la necessità di umanità, di partecipazione, di condivisione e di comprensione empatica risulta fondamentale per un significativo avvicinamento all'altro, ma sul piano pratico, non è affatto facile cercare di conciliare questo aspetto con la stessa professionalità "distaccata" richiesta dal ruolo.
Per quanto finora ho potuto constatare nella mia esperienza e in quella di molte persone con cui mi sono confrontato, a volte lo psicologo d'oggi (ancora peggio lo psichiatra che prende le parti di un analista) troppo spesso quando non è inutile, è nocivo. Infatti, questo tipo di professione, se non è stata accompagnata per tutto il tempo da un'intensa attività di ricerca personale che fa di questa professione non solamente un lavoro e un modo idoneo per inserirsi in società, ma una vera e propria vocazione, nel senso freudiano, ossia un'analisi approfondita e una ricerca spasmodica sul "che cos'è l'uomo" (alcuni direbbero "chi è l'uomo"), allora si rischia di diventare dei manovali della psicologia che utilizzano tutte le teorie (e guardate che ce ne sono alcune proprio di divertenti alle volte) apprese in un'università puramente teorica, a stampino con tutte le persone con cui hanno a che fare.
L'università dal punto di vista culturale e nozionistico è impareggiabile, ma ha dei fortissimi limiti in termini umani, esperienziali e ancor più gnoseologici: essa fornisce strumenti e possibilità, non di sicuro Conoscenza. Ho incontrato persone dopo 6-7 anni d'università che ne sapevano come prima. E questa cosa è agghiacciante se contiamo che, con un esamuccio di stato, è sufficiente per diventare psicologi. Questo è uno dei motivi perché la gente si sente più rassicurata nelle mani di uno psichiatra o un terapeuta, che ha fatto anche 9-10 anni d'università e fornisce più "garanzie".
Eppoi c'è il fatto d'essere medici, il che fornisce a questa categoria sociale un'autorità indiscutibile agli occhi dei più. Ma sono proprio questi a manifestare la grande pecca della psicologia moderna: l'eccesso di scientismo in tale disciplina. L'essere umano, salvo in rari casi, viene analizzato in termini, se non proprio materialistici, meccanicistici, e troppo spesso il freddo e "oggettivo" metodo scientifico ne riduce e banalizza l'enorme complessità. E allora, si è insicuri nella vita? E' perché non si ha superato adeguatamente lo stadio anale durante l'infanzia. Ci si sente demotivati, tristi e nostalgici? E' perché non soddisfiamo adeguatamente i propri piaceri e non sfoghiamo sufficientemente la libido. Ci sentiamo depressi? E' normale, ad alcuni capita, toh, beccati questo psicofarmaco e torna a casa.
Senza dilungarmi troppo, questo aspetto, della depressione, è quello più delicato al giorno d'oggi: soprattutto tra i giovani sembra un fenomeno di massa, un'epidemia. E qual'è la miglior soluzione a cui si è giunti? Lo psicofarmaco. Ho ascoltato ragazzi tra i 14 e i 18 anni che, "caduti" (che buffo questo termine, come se ci si svegliasse di colpo ammalati) in uno stato depressivo, si sono rivolti a questi bravi psichiatri che hanno avuto il buon senso di prescrivere al SECONDO introntro, un buon psicofarmaco. Questa è una cosa che trovo assurda: cazzo basta prendere in mano Baudelaire, qualche filosofo esistenzialista, Pavese, Nietzsche o chicchessia per capire subito che quella che oggi chiamano la malattia della "depressione" è un "male" da sempre esistito, ma descritto e analizzata nel corso del tempo in termini assolutamente diversi, decisamente diversi. Per cui in quest'ottica, questa "malattia" non esiste, perché c'è sempre stata, è nell'uomo stesso. Se vogliamo, l'unica vera "depressione" che esiste è quella in termini sociali: il male dell'alienazione secondo la visione marxista, l'isolamento dovuto alla frammentazione individualistica, il nichilismo, ossia la perdita di ogni valore con l'avvento della tecnica, il cancro della mercificazione del capitalismo che fa dell'uomo una cosa, un qualcos'altro da scambiare e sfruttare. Insomma, tutte cose specifiche, cose di cui il grandissimo Erich Fromm ha spiegato a lungo. (vedi articolo:http://www. diariodelsottosuolo.it/Home/ tabid/483/EntryID/15/Default. aspx)
Pertanto dal mio personale punto di vista, la chiave e la salvezza per diventare "bravi" psicologi o terapeuti, risiede in un approccio che sia profondamente eclettico ed olistico: la psicologia nell'analisi dell'uomo diverrebbe profondamente parziale senza la complementarietà della filosofia che aggiunge all'uomo qualcosa d'indispensabile, il concetto di SENSO, e di ogni concezione teologica che arricchisce enormemente l'indagine attraverso un termine assolutamente tabù per il mondo della scienza, quello di SPIRITUALITA'. Ecco allora che lo psicologo non è quello che guarisce (sono più che altro i clinici, come il terapeuta e lo psichiatra che si occupano di patologie più gravi), ma colui che, in senso socratico, accompagna l'altro (non ha molto senso utilizzare il termine paziente), nel suo percorso di crescita e ricerca.
Stefano Andreoli
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Risposta di Paolo D'Arpini
Caro Stefano.. non vorrei che tu fossi ri-assorbito nel gorgo della speculazione...
Considera -ad esempio- che la psicologia del Libro dei Mutamenti (I Ching), di cui in passato ti ho parlato, è essenzialmente un testo evocativo, che utilizza le sue immagini e sentenze per consentire all'uomo di riconoscere gli archetipi equivalenti che sono dentro di lui.. Se vuoi approfondire questo tipo di ricerca ti consiglio di cominciare a leggere il libro come leggeresti un romanzo.. senza minimamente sforzarti di "capire".. Ci vuole tanta pazienza poiché siamo abituati ad analizzare i concetti razionalmente, e trasformarli in "sensazioni" per noi non è semplice. Dobbiamo sentire e non comprendere, dobbiamo riconoscere e non apprendere...