All'origine dei pensieri - Destino prefissato o libero arbitrio?



Ci si pone una domanda, da dove sorge? Diamo una risposta da dove è venuta? Ora, ad esempio, son qui che mi interrogo sulla realtà del manifestarsi della nostra vita. Essa è compiuta da un insieme di forze ed elementi congiunti che si combinano secondo loro leggi, o dettami del caso, oppure è il risultato di un agire volontario che cerca in tutti i modi di forgiarne forma e contenuti? Questo investigare è alla base di ogni concettualizzazione ed azione fisica o metafisica… Nel tentativo di capire la natura del nostro pensare ed agire si sono già interrogati gli uomini che ci hanno preceduto e sarà così per quelli a venire…. E la risposta?
Questo testo che io sto scrivendo e che tu leggi da dove nasce? Le idee in esso contenute come hanno potuto affiorate nella mente, come sono condivise e comprese dal lettore? Il lettore comprende la tematica quindi significa che egualmente si è posto il dilemma… 
In ogni caso è codesto scritto il risultato di una libera scelta, un elaborato con un intento preciso, derivante da un processo volontario, da una decisione di mettere in atto l’azione del pensare e dello scrivere? O piuttosto è conseguenza di una serie di impulsi auto-generati che si uniscono sino a formulare quest’articolo?
Seguendo un ipotetico processo razionale, di primo acchitto, sarei portato a rispondere che sì, questo scritto è frutto della mia decisione, è il risultato di un mio personale ingegno compositorio che prende questa forma descrittiva, impiegando le figure di un ragionamento filosofico…
No, non ne sono sicuro… Non ne sono sicuro perché “capisco” od intuisco che il mio ragionamento è definibile solo dopo che spontaneamente e senza alcuna intenzione da parte mia è apparso nella mia mente. E’ “apparso” e da dove? Il meccanismo della comparsa dei pensieri è un aspetto sconosciuto ed in conoscibile, essi sorgono da un non si sa dove…. Solo in seguito al loro presentarsi dinnanzi alla nostra coscienza possiamo affermare “ho pensato a questo…”. 
Insomma facciamo nostri i pensieri dopo che ci son venuti incontro dal nulla, li possediamo come qualsiasi altro oggetto che chiamiamo nostro (pur essendo in realtà della terra)… ed allora il senso del possesso è solo indicazione continuata d’uso, un uso comunque limitato nel tempo e nella qualità del suo godimento… Ogni cosa che definiamo “nostra” o nella quale ci identifichiamo, come “il mio corpo” -ad esempio- o “la mia mente” è in verità nostra solo per una consuetudine di impiego e di presenza. Quando sogniamo siamo avvezzi ad identificarci con uno dei personaggi del sogno e percepiamo questo personaggio come un “me” che si rapporta con altri personaggi operanti in un mondo, tutto il sogno in realtà si presenta davanti alla nostra coscienza e su di esso non abbiamo alcun controllo operativo, anche se, come nello stato di veglia, riteniamo di agire con uno scopo, ottenendo risultati oppure fallendo nell’ottenerli.
Dico “come nella stato di veglia” per inserire una rapida analogia comparativa con la realtà del nostro operare da svegli…. 
Chiamiamo il nostro agire nel mondo il risultato di un libero arbitrio e ce ne facciamo, di fronte a noi stessi ed agli altri (esattamente come nel sogno), responsabili, accettiamo lo sforzo del tentativo di raggiungere uno scopo, ci sentiamo frustrati se falliamo nel conseguimento, consideriamo che le nostre azioni sono legate ad un processo di causa ed effetto, ci arabattiamo nel cercare di prefigurarci un fine, per poi eventualmente pentirci e cercare il suo contrario.
Le religioni hanno utilizzato questo processo del divenire e dell’instabilità della mente e del desiderio di un risultato (immaginato come stabile e definitivo ma vano) per ordinare la vita di ognuno in termini di “responsabilità diretta” con successivo premio finale in veste d’inferno o di paradiso.
Nel dualismo religioso, sociale, o ideologico, nella separazione dal Tutto, l’unica cosa che si può fare è cercare di ottenere buoni risultati utilizzando la propria volontà, da noi definita libera scelta, illudendoci così di pervenire a qualche esito che ingenuamente definiamo la “risposta” alla nostra ricerca materiale e spirituale. Premio e castigo sono nelle nostre mani… e con questo peso sul groppone “commerciamo” e “speculiamo” con e su Dio –se crediamo il lui- oppure con la Natura e le leggi della giungla –se siamo atei materialisti- oppure facciamo come i superstiziosi che dicono “non è vero … ma ci credo!” finendo un po’ di qua ed un po’ di là della barricata immaginaria, o magari, come spesso avviene alla maggioranza di noi, cercando tout court di dimenticare il problema immergendoci nella soddisfazione delle esigenze e necessità quotidiane.
Ma l’enigma ritorna…. È un qualcosa di sconosciuto ed in conoscibile che torna a perseguitarci… Alla fine diamo la colpa agli Dei ed alla forza del destino! Infatti noi osserviamo per esperienza diretta che alcune cose che abbiamo intenzione di raggiungere ci sfuggono, mentre altre che aborriamo accadono.
“Possiamo definire questa forza che fa accadere ogni cosa Dio oppure “swabava”, che significa l’inerente natura di ognuno – diceva Anasuya Devi quando mi trovavo a Jillellamudi – aggiungendo che “questa forza si manifesta non solo negli eventi naturali e ciclici ma anche nell’inaspettato e persino nel tentativo dell’uomo di controllare l’inaspettato, e persino nel senso di aver noi deciso di compiere un determinata azione o corso di azioni”.
Come dire che questa “forza” assume la forma di compulsione interiore e che noi, facendo nostra la formulazione, definiamo “libera scelta”… Insomma la libera scelta non è altro che lo svolgimento mentale consequenziale allo stimolo interiore ricevuto, il modo banale attraverso il quale quella “forza” o “swabava” ci fa compiere l’azione “volontariamente”.
Ciò non toglie che nel nostro io, almeno quel riflesso mentale della coscienza che definiamo “io”, siamo perfettamente convinti che l’azione compiuta è frutto di una nostra decisione, che il pensiero osservato è nostro proprio, che questo scritto è da me arbitrariamente redatto, che tu stai leggendo di tua propria opzione.
“Ma i frutti del nostro agire non sono permanenti – diceva Ramana Maharshi – ed il rincorrerne i risultati ci rende prigionieri dell’oceano del “karma” (il divenire attraverso l’azione), impedendo la comprensione della vera natura dell’Essere”
Ciò significa che le azioni da noi compiute con uno scopo, e con appropriazione identitaria del compimento, ci portano ad esperimentare piaceri e dolori. Essi sono in verità limitati nel tempo ma lasciano dei semi nella mente, causa di una successiva fatica nell’evitare o perseguire certe azioni. Questi semi (detti in sanscrito “vasana”) ci spingono in una serie apparentemente infinita di coinvolgimenti ed atti, legando la nostra attenzione al mondo esteriore ed impedendo la scoperta della nostra vera natura interiore. Perciò nell’intendimento dato all’azione non può esserci affrancamento dall’io (ego), che è limitato al corpo mente.
Si potrebbe obiettare che se non c’è intendimento nemmeno l’evoluzione è possibile, né il miglioramento della propria condizione…. Eppure accettando la crescita spontanea alla quale la vita spontaneamente tende (come è nei fatti comprenderlo) saremo “liberi” di portare a termine tutte quelle azioni che naturalmente vanno nella direzione della crescita, ad adempimento dell’ispirazione interiore, senza assumercene l’onere….
Chiamarlo “arrendersi” alla propria inerente natura o svolgimento del proprio dovere karmico (dharma) a questo punto non importa, succede e basta!

Paolo D’Arpini

La Coscienza è sempre sola, in se stessa.... - Riflessioni in tema di spiritualità laica


Dipinto di Franco Farina


Anche se parlare di solitudine, per la coscienza, non ha un vero e proprio significato, il concetto che essa richiama apre tuttavia lo spazio figurativo della mente proprio alla stessa situa­zione, poiché noi veniamo al mondo circondati di solitudine. 

E da questa solitudine sviluppia­mo poi i primi approcci col multiforme. Nei nove mesi che abbiamo passato nel grembo ma­terno, prigionieri del liquido placentare, la nostra coscienza ha obbligatoriamente conosciuto solo se stessa; nel silenzio più totale e senza alcun riferimento esterno siamo stati coscienti solo di noi stessi, senza rendercene neppure conto, perché non potevamo avere altra cono­scenza che quel “nulla” in cui eravamo immersi. Quando siamo venuti alla luce essa è stata il primo impatto col "fuori di noi", la prima conoscenza duale. Da quel momento in poi la nostra coscienza si è divisa, frantumata in innumerevoli conoscenze, ma quell'unico punto embrionale è rimasto in noi come base, come espressione potenziale, come l'ignota unica realtà.

E quella coscienza-origine risulta essere la prima manifestazione del Puro-Essere che, sor­gendo dal Nulla Cosmico, per la forza poten­ziale della sua stessa Natura oltreché condizionato dalla spinta karmica, viene proiettato nello stato di esistenza e interrelato con tutti gli altri fenomeni, anche se purtroppo provvisto di una Ignoranza Primordiale, causa della falsa e illu­soria concezione di un senso di separazione e individualità. Dato che, a livello mentale, non vi è ancora differenza di coscienza con lo stato di non-essere precedente alla nascita, essendo le porte dei sensi non ancora funzionanti al me­glio, la mente soggiace in un ovattato torpore che non ha il potere di scuoterla, di agi­tarla, di farle prendere atto della sua esistenza, e quindi si mantiene in uno stato di calma piatta, appena appena increspata dal movimento vitale della formazione degli organi e del corpo. Quando poi, con la meditazione costante, ci ri­portiamo nello stato conosciuto come Samadhi, noi ritorniamo in quello Stato di Coscienza non­nata, torniamo nell'utero del vuoto, nel silenzio della solitudine. Ma con una differenza: questa volta noi sappiamo, sappiamo di essere in quel­la condizione, sappiamo di essere ‘Quello Stato’. Noi, in realtà, percepiamo di essere realmente soltanto quella Coscienza.

Il grande illuminato dell’Advaita, Nisargadatta, ammoniva i discepoli che gli chiedevano il mezzo per la Libe­razione e il modo per superare le illusioni sam­sariche, dicendo loro che essi dovevano ritrovare in sé stessi quello stato originario, lo stato in cui erano prima del concepimento. E, nello Zen, si legge che uno dei principali Kung-an (Koan) è quello di chiedersi come era il nostro volto prima della nascita dei nostri genitori. Questo per far capire che proprio quel senso di Essere (che si prova vivendo) è diretta discendenza dello stato di Non-Essere e che lo stato di Pura Coscienza non conosce, come elementi conosci­bili, né l’Essere né il Non-Essere, in quanto non ancora generati come concettualità. 


Purtuttavia la Consapevolezza-non-manifesta dello Stato Vuoto, priva di cognizioni dualistiche, ci ripor­ta direttamente, ma senza operazioni mentali di pensiero, nello stato di solitudine coscenziale di quando eravamo nel ventre di nostra madre. Ciò avviene ogni volta che, semplicemente non afferrando ogni singolo pensiero, né bloccando lo scorrere naturale della mente, la mente stessa si adagia lentamente e spontaneamente come acqua immobile. Allora si riconosce (senza sfor­zo né alcuna volontà) la Coscienza Sola e Silen­ziosa e, quanto più questo spontaneo stato di coscienza dura, più si conosce e si intuisce la profondità della Non-Mente di cui si parla nel Chan (Zen) di Hui-Neng e Huang-Po, e quindi in modo naturale avviene la trasformazione: ci po­niamo nello stato mentale silenzioso anche vi­vendo nel frenetico mondo di oggi, anche nei rapporti interpersonali della nostra vita quoti­diana.

Potrebbe altresì crearsi l’apparen­te situazione di una doppia capacità di coscienza (si fa per dire) in cui si è contemporaneamente coscienti del "relati­vo" mondo fenomenico e dell' "assoluto" nou­menico, anche se in realtà non c'è divisione né separazione tra le supposte "due coscienze", così come in alcuni particolari stati di sogno in cui, pur avendo diretta sensazione degli avveni­menti immaginati dalla mente, e quindi in qual­che modo vivendoli, nondimeno di base c'è una profonda sensazione di distacco, di non parte­cipazione, testimoniata dal fatto che, spesso al mattino, quasi non rammentiamo quegli even­tuali sogni. Così il vero Saggio vive la sua vita umana, con un occhio interno che non partecipa, con una mente che non si attacca, non aderisce a ciò che avviene. Egli è presente sulla scena ma è come se non ci fosse, tutto scorre davanti a lui come in un film, ed egli vi si muove dentro, ma totalmente distaccato, costantemente im­merso nella profonda solitudine della coscienza, in cui è perfettamente riconoscibile la Realtà delle cose così come sono nella loro verità, non mediate dalla mente individuale, sensibile e condizionata da esperienze e pregiudizi per­sonali.

Questo stato silenzioso della coscienza si può definire come lo Stato Assoluto che si rivela in noi in modo non afferrabile e non tangibile. Infatti, se ci si accorge di esso e si tenta di renderlo logico e razionale questo stato scom­pare e ne perdiamo le tracce ricadendo, nostro malgrado, nella ordinaria coscienza mentale del sé illusorio, separato e dualistico. Questo stato è conosciuto nelle diverse tradi­zioni sapienziali ed indicato con vari nomi: Ma­hatattva o Atmabrahman, nell' Advaita- Vedanta; Mahamudra o Maha-Ati, nel Buddhismo tantri­co; Wu-hsin o Mu-shin, nel Buddhismo zen. Infatti, al di là di qualche marginale sfumatura interpretativa, questi nomi stanno sempre a si­gnificare lo Stato Puro immutabile e non-nato della Realtà Suprema e della Natura di Buddha, che è non turbato, che tutti possediamo, e che, quando è integrato e insediato spontaneamente senza interruzioni, rivela lo Stato dell'illumina­zione in cui dimorano gli Esseri Realizzati.

È pur vero che qualunque appellativo non si addice ad identificare quello stato di coscienza che, anzi, nelle predette tradizioni è più spesso semplicemente chiamato "Quello" "­Sé-Reale" oppure il "Senza-Nome", proprio per riba­dire l'impossibilità di poterlo conoscere con la mente razionale e concettuale. Ma poiché chi lo conosce sa veramente di cosa si tratta, è oppor­tuno non dare importanza ad eventuali descri­zioni (d'altra parte puramente approssimative e simboliche), quanto al significato, proprio per poter in qualche modo onorarne la gloria e riconoscerne la grandiosità; così come è insegnato che non si deve dare importanza al dito che indica la Luna, bensì l'attenzione deve essere focalizzata ver­so lo splendore stesso dell' argenteo astro nell'o­scuro cielo notturno.

Alberto Mengoni  




(PARAMITA n. 49 del Gennaio 1994)

Pianeta Terra - Presenze misteriose sin dall'alba dei tempi



Non è un segreto che sul nostro pianeta ci sono tanti misteri irrisolti. Eventi misteriosi del passato e del presente sono al centro di uno sproporzionato interesse e, secondo alcuni, sarebbero indizi, non prove, sulla teoria degli alieni provenienti dallo spazio esterno. 

Stando all’Archeologia Spaziale, oltre alle testimonianze scritte, altre prove si troverebbero nelle numerose pitture rupestri e sculture in pietra che è possibile vedere in certi siti sparsi per il mondo. Quando vediamo dei disegni in una grotta che sembrano raffigurare degli astronauti con il casco, cos’altro potrebbero essere se non dei cosmonauti extraterrestri? 

Tutte queste antiche raffigurazioni o statue, ritraggono figure abbigliate in modo strano per quei tempi così antichi, con dei copricapo insoliti. Ma si tratta davvero di raffigurazioni di visitatori di altri mondi che atterrarono sulla Terra migliaia di anni fa? Come spiegare altrimenti queste curiose creature che indossano caschi, hanno antenne, che sembrano vestiti con delle tute “spaziali”? 

La domanda è: cosa videro i nostri antenati da sentirsi spinti a ritrarlo sulle pareti delle caverne? Il nostro globo terrestre è disseminato anche di siti megalitici, dove sono presenti inspiegabili costruzioni che continuano a stupire scienziati e archeologi. Vere e proprie opere d’ingegneria impossibili da realizzare con gli strumenti di quel tempo. Davanti a ciò ci si chiede: ma come diavolo le hanno costruite? Molti ricercatori sono persuasi che tali megaliti sarebbero la prova concreta che una civiltà, molto più progredita della nostra e con una tecnologia avanzatissima, abbia abitato la Terra in tempi remoti. 

Un altro presunto enigma alieno sono le misteriose linee visibili solo dal cielo. Come esempio si richiamano quelle di Nazca in Perù. Tutte queste linee, grandi e piccole, compongono gigantesche figure sul terreno, raffiguranti pesci, ragni, scimmie, gorilla, ma così enormi che è possibile vederli soltanto ad alta quota. 

Furono tracciate da persone o da “qualcuno”, migliaia di anni fa. A chi erano indirizzati i misteriosi disegni delle famose Linee, visibili soltanto da altitudini elevate? I disegni sono fatti per qualcuno che vola! Su questo non si può discutere! 

Oltre a ciò, recenti studi storici confermano l’evidenza visiva della presenza di Oggetti Volanti non Identificati (UFO) in opere pittoriche del Rinascimento. Infatti, non è difficile trovare in certi capolavori dell’arte Rinascimentale elementi che a prima vista appaiono bizzarri e si può dichiarare questo o quell'oggetto incongruo rispetto all'ambiente o all'epoca dell'opera d'arte, e quindi sicuramente "alieno" o "non identificato". Gli artisti dell’epoca vollero raccontare un segreto?

Franco Stobbart

Recensione: Le Catene del debito e come possiamo spezzarle



Recensione -  Francesco Gesualdi del Centro Nuovo Modello di Sviluppo: Le Catene del debito e come possiamo spezzarle (Feltrinelli)
Con la capacità a cui ci ha abituato nei suoi precedenti libri e con la precisione dello stile manualistico della Guida al Consumo Critico Francuccio Gesualdi spiega nel suo nuovo libro in cosa consistono le catene del debito e cosa si potrebbe fare per liberarsene.
Il libro è rigorosamente diviso in due parti: nella prima l’Autore spiega in un linguaggio comprensibile a tutti, quello della campagna portata avanti dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo debito pubblico: decido anch’io, quali sono gli elementi del debito: di cosa è composto, quando e come è stato contratto, chi sono i creditori, come funziona e cosa comporta la speculazione finanziaria; nella seconda quali potrebbero essere le alterative, quali governi hanno agito diversamente dai dettami della famosa Troika, quali sono i riferimenti ideali e costituzionali a cui si potrebbe attingere.
Nell’apparente semplicità dell’esposizione Gesualdi sottolinea la cosa più importante: i cittadini debbono riprendere in mano l’economia e non delegarla agli economisti; e l’economia deve stare sottomessa all’etica, alla necessità di difendere la dignità umana, l’ambiente, il bene comune. Quando l’economia diventa solo profitto ed ogni cosa diventa lecita in nome del profitto si scatenano i meccanismi perversi che stanno indebitando popoli interi, tagliando drasticamente la spesa sociale, aumentando il divario tra ricchi e poveri.
Leggendo il libro di Gesualdi si ha un quadro chiaro della situazione e si comprende che le soluzioni non stanno necessariamente in un cambiamento radicale dei paradigmi: le soluzioni possono essere adottate da un qualunque governo che abbia un minimo interesse a migliorare le condizioni del suo popolo; alcune dei provvedimenti, ad esempio la rinegoziazione del debito, sono stati recentemente presi dai governi dell’Argentina e dell’Ecuador senza che scoppiasse nessuna rivoluzione né che fallisse nessuna banca. Ugualmente Gesualdi ricorda che la maggior parte delle cose che ci sarebbero da fare sono scritte, per quanto riguarda l’Italia, negli articoli della Costituzione, articoli non applicati e che anzi qualcuno penserebbe di modificare o abrogare.
Si fa evidente il divario tra l’impostazione neoliberista che dagli anni ’80 imperversa nel mondo e una nuova concezione economica che metta al centro l’Essere Umano, i suoi bisogni, la sua casa comune, i suoi valori.
Olivier Turquet 

Vita biologica, nichilismo e ricerca spirituale


Collage di Vincenzo Toccaceli

Dal cospetto della nostra ricerca – qualunque essa sia – ho da tempo difficoltà ad evitare un pungente compagno di viaggio. Si chiama nichilismo. Non di rado è acuto. Spesso riesce a sciogliere nel suo acido anche le architetture più solide e belle. 

Non ha riguardo per niente, ma non mente mai. Merita rispetto. Uno dei suoi trucchi – ma la realtà è maschera, lo sapevamo già – sta nel portarti a traguardare le cosiddette “cose” da un punto di vista utile alla sua causa. Così, senza fretta e senza accorgerti ti ritrovi a riconoscere che, per esempio, la questione, quando è intellettuale, qualunque questione, non contiene alcuna verità, tranne che è solo dialettica. 

Cioè, tanto più la tua esposizione – qualunque ne sia il suo oggetto – è opportuna all’interlocutore tanto più sembrerà vera. Viceversa, quanto più la tua esposizione è inadeguata a coniugarsi con la biografia alla quale è destinata, tanto più – anche l’oggetto più esclusivo, sacro, bello, necessario, avrà tutte le chanches per non essere comunicato. Anzi, per non essere.

Ipotizzando che il suo spirito (del nichilismo) abbia pari diritto di ogni altro (se così non ipotizzassimo, affermeremmo che l’unica realtà è dualistica), potremmo condividerne l’essenza. Che non è quella di appiattire a niente tutto ciò che ci appare come qualcosa, ma è quello di farci presente che elevare qualcosa al di sopra di altro è il vincolo necessario alla coscienza di sé. In questa misura, una volta consapevoli di noi stessi, non possiamo che essere arbitrari. Secondo lui, ogni arbitrio è arrogante. Secondo lui ogni arbitrio ha bisogno di forza. E ogni forza ne sopprima altre. (Un po’ come la democrazia. 


Una volta concepita, non possiamo rinunciarvi, nonostante i suoi ideali siano imbrattati e mostruosamente trasformati dalla burocrazia. Così, pur immaginando quanto sarebbe bello vivere in uno stato snello, agile veloce, non siamo nelle condizioni di realizzarlo se non uccidendola, la democrazia. Se non tornando a concezioni totalitaristiche. in questo caso democrazie a totalitarismo sono ridotti ad esigenze. In sé è come se non avessero differenze sostanziali.)

In questa misura non si può non eleggere a “soluzione” della disperata (o disgraziata?) condizione che ci tocca la proposta degli anarchici verdi. Loro sostengono che dallo scaturire del linguaggio in poi, tutta la realtà viene simbolizzata. E’ lì che ci stacchiamo dall’Uno originario. E’ li che si verificano le condizioni della realtà duale. E’ li che iniziano le biografie. E’ l’ì che l’agricoltura, l’arte, il linguaggio, e altro, non sono che espressioni umane che più di altre dimostrano quanto ci siamo allontanati dall’Uno.

Effettivamente ci sono momenti in cui mi sembra di essere riuscito a seminarlo (il nichilismo). E’ proprio quando capita di essere nel qui ed ora. Cioè nella condizione di non poter più esprimere alcuna dialettica, di non poter più dire “io”. Una condizione animale. Infatti è priva di arte, di cultura, di intermediazione intellettuale, di elaborato razionale, il cui linguaggio non è in grado di produrre sopraffazione se non per le esigenze di sopravvivenza (biologica?). 


Una condizione dove il sentire governa sul capire, oppostamente allo standard. Dove a condurre è la passione. Ma quei ritorni all’Uno non sono e non mi pare possano essere permanenti. Almeno in colui (tutti noi) che ha consapevolezza di sé.


Così, anche la proposta anarchica per quanto condivisibile, pare – a me – inaccessibile, se non solo temporaneamente. Temporaneità che, è vero, può estendersi e dilatarsi per qualcuno di noi, ma solo con la complicità del prossimo. Ma qui siamo ai privilegi o a qualcosa del genere.

Ecco. O è una questione dialettica e se non lo è, come fa ad essere una questione più meritevole delle sue antagoniste? In fondo non sono proprio queste a permetterne l’esistenza? Parlare di antagonismo è uno dei modi in cui ti accorgi che credevi d’essere solo e invece lui, il nichilismo, era solo zitto e fermo ad aspettarti. 

Magari per spingerti verso l’idea dei primitivismi e poi ridere con te (e di te) quando ti accorgi che la loro prospettiva è sì buona, ma solo dialetticamente. Quando ti accorgi che anche per quella solo la passione fideistica potrebbe mantenerne la verità. Ma puoi essere permanentemente in condizione di passione, inetto a calcolare? Al momento non mi pare possibile, salvo che perdere lo status di uomo. Comunque, alla fine, poi lui ride con soddisfazione e tu con disperazione.

L’alchimia del nichilismo è forse fisiologica delle menti dei grandi numeri consapevoli, della cultura. Forse, seguendo l’indicazione dei primitivismi, e non solo, riuscire a realizzare piccole società (gruppi “chiusi” con meno di 100 persone) la loro proposta diviene anche praticabile. Forse, ma forse, più che liberarci di quella tagliente e acuta amicizia, potremmo avere un futuro dove l’humus del nichilismo non ha terreno per essere.


Basterà deintellettualizzare la cultura o servirà l’autoironia?

Eh sì!
Sennò come uscire vivi dalla considerazione che, chi condivide queste note, non è che colui il quale le trova a lui stesso opportune. E che chi le trova blasfeme non fa altro che prenderne le distanze e così rinunciare all’Uno una volta di più? Non fa altro che eleggere la storia ad unica verità?

Non so se sono andato fuori tema. Non ne avevo comunque l’intenzione. Grazie per l’ascolto.

Lorenzo Merlo

……..

Mia rispostina:

Caro Lorenzo, son contento del tuo intervento, è un arricchimento sostanziale al discorso sulla Spiritualità Laica. Spesso da me definita anche “Spiritualità atea”.
Il nichilismo è una espressione del pensiero agnostico che, dal punto di vista intellettuale, merita il nostro rispetto e considerazione. Partire dal dubbio è sempre motivo di approfondimento. Infatti solo il chiedersi, il dubitare la sostanza di ogni asserzione, ci permette di ulteriormente scavare all’interno della nostra psiche. 

Questo è un buon esercizio e ci consente di giungere al limite estremo, quel punto magico, in bilico fra la mente e la non-mente, che nello zen chiamano la porta del “satori”. Trovarsi lì nel vuoto senza aver ancora stabilito la propria identità può essere pericoloso (e lo ha dimostrato lo stesso Nietzsche) eppure se non giungiamo a quel punto limite, o attraverso l’intelletto o attraverso la rottura degli schemi intellettivi, come possiamo realizzare l’esperienza del Sé? 

Ti chiedi se questa esperienza possa essere definitiva e permanente.. Ebbene, sì lo è. E non perché ci si arriva attraverso un processo di “sbandamento” (chiamalo pure ricerca) ma solo perché l’esperienza del Sé è la sola e vera esperienza costante e permanente.. è la nostra vera natura ed è inalienabile. 

Qualsiasi cosa appaia nella mente, qualsiasi pensiero, sensazione, desiderio, disperazione o vuoto.. appare per mezzo del substrato della coscienza, la coscienza è la costante, mentre i pensieri sono sovrimposti… Il momento che riconosciamo, realizziamo (é meglio perché significa rendere reale) questo banale fatto automaticamente siamo quel che siamo sempre stati e che sempre saremo…

La logica a volte aiuta… e capirai da te che non ci è possibile assolutamente sfuggire a questa coscienza che noi siamo.

Paolo D’Arpini



Funzionamento nella Spiritualità Laica e nell'Ecologia Profonda - Insostanzialità dell'io, in quanto identificazione con un nome forma, e identità dell'Essere Assoluto (Sé)


Collage di Fulgor Silvi


L’io è solo un concetto nella mente, un pensiero aggregativo che si forma attraverso il processo di auto-consapevolezza psicofisica. Potremmo definirlo un coordinatore interno alla coscienza che presume di conoscere il “corretto” comportamento da manifestare in determinate situazioni vitali. Ovviamente tale presunzione è arbitraria e basata sulla memoria. Non è altro che una variante istintuale, un pensiero costante e ripetitivo di un immaginario sé, attraverso il quale la mente ritiene di poter operare delle scelte deliberate. 

Nel contesto generale della vita umana tale atteggiamento è funzionale a determinare comportamenti e giudizi giustificati, con la finalità di creare “forme pensiero” condivise, nella sfaccettatura di apparenti punti di vista differenziati.

Se percepiamo l’insostanzialità dell’io, in quanto spurio coordinatore della coscienza, possiamo anche comprendere che la sua permanenza è del tutto innecessaria al funzionamento empirico. Per cui una mente svuotata del pensiero “io” è decisamente libera e in grado di esprimere risposte adeguate ad ogni situazione ed in ogni condizione della vita. Senza l’identificazione corpo/mente la Coscienza permane nella sua natura impersonale ed universale, infallibile e aldilà di ogni dualismo.

Avendo superato persino la relatività dell’istinto e della ragione.

Se l’io cerca di percepire il suo limite pensando di poterlo superare come può riuscire nell’intento..? Può l’io uccidere l’io? No di sicuro.. a questo punto l’io si arrende .. ma interviene un fattore non considerato.. inatteso. Un qualcosa che sta prima della ragione e prima dell'istinto, vogliamo chiamarlo “grazia”? Vogliamo chiamarlo “intima natura”? 

Ed una volta percepita e realizzata la  propria vera natura, il Sé, come possiamo tornare a identificarci con l’abito? (mi riferisco al corpo/mente).

Finché si resta nel dominio della mente l’idea stessa che possa esserci uno stato aldilà della mente risulta aliena ed inconcepibile.

Il funzionamento nell'estensione spazio-temporale sicuramente esiste.. ma non è necessario che avvenga attraverso una specifica “identificazione” con un soggetto formale (tale è l’io ordinario attraverso il quale viviamo in una condizione divisa: io e tu, nero e bianco, etc.). 

Emancipazione corrisponde a “riconoscimento” di  quello “stato” in cui identità e unitarietà dell’Essere si manifestano integralmente. 

Di fatto nell’Ecologia Profonda, e più specificatamente nella Spiritualità Laica, si  evoca questa Unitarietà.. che è innegabile. Ma la sentiamo nostra? La pratichiamo? La osserviamo fino al midollo del nostro Sé ed è coscientemente realizzata

Diceva Nisargadatta Maharaj: “..noi non possiamo essere altro che una parte integrante della manifestazione totale e del totale funzionamento ed in nessuna maniera possiamo esserne separati..”.
Da ciò ne consegue che il senso dell'io separato è semplicemente  la capacità di esprimere il concetto di scelta. Che poi questa scelta appartenga realmente all’io è opinabile e analizzando in profondità appare  una semplice assunzione.

Ora, però, un’intuizione si è affacciata ai bordi della coscienza, lasciamo che prenda forma, per suo conto, come è giusto che sia, senza rincorrerla oltre.

Paolo D'Arpini


"Befana degli animali..." continua la tradizione del Circolo Vegetariano VV.TT.


Spilamberto - Lungo il Panaro

"Era una notte buia e tempestosa.."
Dopo aver pubblicato il programma per l'edizione del 2014 della Befana degli Animali che quest'anno si tiene a Spilamberto, sulle rive del fiume Panaro, ecco che ci è arrivata una nota di reprimenda da una signora "animalista" che ci rimprovera l'iniziativa di portare pane secco e granaglie agli animali selvatici: "Gli animali hanno una loro legge di natura - dice la signora- la sopravvivenza è garantita solo ai più forti ed idonei ad affrontare le situazioni naturali che si presentano di volta in volta, perciò nutrirli artificialmente è per loro un danno genetico". 
Beh, Caterina ha risposto molto gentilmente dicendo che "semel in anno un piccolo aiuto non può nuocere e talvolta il caso fortunato può derivare da varie situazioni, anche naturali, e comunque un gesto simbolico di solidarietà verso gli altri animali non è cosa negativa per le leggi di natura, anzi..."
Io avrei voluto chiedere alla signora "animalista"  se non fosse stato il caso di interrompere anche di nutrire artificialmente cani e gatti e -perché no- magari anche di fornire pasti caldi ai barboni, di smetterla con l'aiuto ai profughi, di lasciare al loro destino gli handicappati (o come si dice oggi buonisticamente: "i diversamente abili"), magari si potrebbe anche instaurare l'eutanasia obbligatoria al compimento dei 70 anni (buon per me che li faccio proprio quest'anno) ed altre belle cosucce da eugenetica nazista....  Ma per non appesantire la polemica sono stato zitto e buono, però non altrettanto lo sono qui, a casa mia, dove mi posso sfogare a dire ciò che voglio (finché censura non mi oscuri). 
Colgo l'occasione della "verità rivelata" per raccontarvi come nacque la tradizione della Befana degli animali".  Sono ormai parecchi anni che è  iniziata al Circolo vegetariano VV.TT.  L’idea mi venne, quando ancora avevamo la sede a Calcata. Ricordando la quantità di cibo che durante le feste natalizie viene gettata nei cassonetti e pensando di non mandare sprecato quel ben di Dio invitavo le persone di buon cuore  a portare gli avanzi ancora commestibili  da noi per poi assieme recarci a fare una passeggiata nella valle del Treja e lasciare qui e lì delle offerte alimentari per gli animali selvatici. Anche allora ci fu qualcuno ad obiettare che "la maggior parte del cibo così abbandonato viene poi consumato dai topi e quindi non è educativo farlo e nemmeno  ecologico poiché in tal modo si incentiva la crescita numerica di questi roditori". Beh, anche quella  mi sembrò una critica  molto pretestuosa soprattutto considerando che è vero proprio il contrario e cioè che è il cibo concentrato gettato nei secchioni che attira i roditori e concede loro una fonte inesauribile e quotidiana di facili alimenti. 
E questo non avveniva solo  a Calcata dove ci sono almeno venti ristoranti che gettavano avanzi nei bidoni ma succede soprattutto a Roma dove i ristoranti saranno almeno duecentomila. Ed infatti le pantegane romane si contano a miliardi....
Ricordate la storia dei topi che vivevano nell’ex macello comunale? Nel vecchio macello di Roma, ora adibito a grande spazio multi "culturale", c’erano orde di topi che vivevano del sangue degli animali macellati gettato nelle fogne, dopo un po’ che il servizio di macellazione era stato smesso i topi a migliaia cominciarono ad uscir fuori ed essendo abituati al sangue presero ad aggredire la gente. Ogni disinfestazione pareva inefficace, per risolvere il problema il comune dovette trasportare giornalmente cisterne di sangue proveniente dal nuovo macello “abbeverando” così le orde fameliche. 
Ma lasciamo da parte questi discorsi da Armageddon. Per il 2014  si spera in un cambiamento di percorso ed in attesa che il consumismo si attenui e cresca la coscienza ecologista credo che destinare  una parte del cibo che andrebbe sprecato agli animali selvatici sia una buona azione che non può fare alcun male alla natura od a noi stessi.  
Non so qual’è il confine fra l’uomo e gli animali, quali sono i loro reciproci diritti e doveri, qual’è il punto d’incontro della sopravvivenza reciproca, senza causare sconvolgimenti ecologici, non so nulla di questo, mi limito io stesso a sopravvivere come posso, a volte combatto a volte recedo, non mi pongo modelli, sono anch’io un animale che ha bisogno della natura, sono una espressione della natura. 
“Se ho difetti pian piano me ne sbarazzo, se commetto errori cerco di non ripeterli più!” diceva Confucio insegnando la morale ai suoi discepoli.  E nutrire i deboli e vestire gli ignudi è anche parte della morale cristiana. Tra l’alto la tradizione dell’Epifania è nata proprio con lo scopo di alleviare le difficoltà dei bambini nel periodo più freddo dell’anno, facendo loro doni ricchi e calorici, in forma di frutta secca, dolci, frutta, etc. quindi ritengo che questa tradizione della Befana, dedicata sia agli animali che ai bambini, vada continuata.
Paolo D'Arpini

Circolo Vegetariano VV.TT.  

Spilamberto. Befana degli Animali - 6 gennaio 2014: Chiediamo a tutti i nostri amici e conoscenti di portare gli avanzi alimentari delle feste natalizie in modo da utilizzarle come doni per le bestiole selvatiche. Nel primo pomeriggio scendiamo al Panaro, muniti di saccocce piene di pan secco ed altre vettovaglie, e depositiamo questi alimenti in vari angoli del bosco ed anche nel fiume per nutrire i pesci. Compiuto questo semplice rito ritorniamo a casa di Caterina (intorno alle 16) dove staremo in allegria con canto di mantra e prasad (Sono graditi dolcetti vari). Appuntamento alla rotonda Odorici in fondo a Via Gibellini alle 14,30. Per partecipare scrivere a: circolo.vegetariano@libero.it o telefonare al 3336023090