“La scienza la fanno gli uomini: considerazione banale, ma troppo spesso dimenticata”. (Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 17.)
Finché l’incantesimo materialista contiene i pensieri e la creatività, nulla di quanto osservabile diviene reale se non è misurato, quantificato, scomposto, separato.
Tutta la scienza – fino a poco fa – come la quasi totalità degli uomini della strada, ovvero esperti e profani, è rimasta impigliata tra le fitte maglie della sindone newtoniana-cartesiana.
Sotto il ferreo regime del sortilegio tutto il reale è stato compresso entro le quattro regolette del meccanicismo. Non solo pianeti e pietre, ma anche l’uomo.
La legge è uguale per tutti, è lì davanti allo scranno del giudice, o sopra il crocifisso, in mostra a tutti, a decretarlo. Ma lo è dappertutto, a scuola con il pornografico mito della meritocrazia, con la bacchettosa modalità frontale, con il potere del giudizio e del voto che decreta, come la legge, chi si è comportato secondo il modello di riferimento cui attenersi. Lo è nello sport, dove qualcuno può dire a chiunque tu sei negato. Tutti attori della medesima recita meccanicista. Tutti intenti alla competizione dove conta solo vincere. Nessuno in grado di cogliere il potere presente in tutti noi e majeuticamente coltivarlo, secondo l’ordine che tutti abbiamo, secondo il percorso della nostra realizzazione oltre i binari dell’irreggimentazione, dell’uniformizzazione, dell’assoggettamento, della sottomissione, della classificazione. Ma alla cultura non interessa, tantomeno alla politica, vagolante entità alla quale è opportuno non riferirsi, per evitare almeno l’imbambolamento della falsa democrazia. Il futuro dell’assegno di cittadinanza, antipasto del reddito universale, è luminoso. Neppure le veline dei tg, parlano più degli investimenti per la riduzione della disoccupazione. Lo stato progressista-ordoliberista – che include le false destre a pieno titolo – è fallito. Il sistema Occidente è in agonia. L’accanimento terapeutico per tenerlo in vita ha molti effetti detti collaterali, ma estremamente funzionali alla residua speranza di mantenimento dell’egemonia sul mondo. Chi non li vede sta marciando al passo dell’oca. Alla fine, se dovesse andargli male, non gli resterà che nascondersi dietro al solito stavo solo ubbidendo agli ordini.
Ma il disastro meccanicista non ha bisogno di grandi teatri per essere mostrato. Esso circola liberamente in ogni relazione ordinaria tra persone. Quando la cultura dell’ascolto si radicherà in noi – suerte – tutti i conflitti avranno di che spegnersi, nella misura in cui, oggi, basta niente per accenderli. Un niente colmo di convinzione che l’altro abbia davanti a sé lo stesso mondo che vedo io. Assolutamente ignaro dell’eventualità che l’altro sia in un punto del suo universo che noi non possiamo immaginare.
Il principio di causa-effetto, i principi della logica, il tempo lineare e non reversibile, tutti i referenti di base della fisica classica, hanno dominato su di noi fino a ignorare la dimensione umana, fino a nascondere a noi stessi l’autoreferenzialità della scienza, fino a farci inginocchiare ad essa. Poter dire o scrivere scientificamente provato è ancora – purtroppo – una mannaia che taglia la testa a tutti i tori. E tutti cercano di metterselo in bocca o un qualunque motivo per stamparlo.
La cultura scientista, come il pesce, al quale se chiedi “Com’è l’acqua oggi?”, ti guarda allibito rispondendo “Acqua? Quale acqua?”, non ha consapevolezza di sé. Anche, si gonfia il petto per avere sconfitto nel duello della conoscenza i suoi nemici. Almeno, così crede lei che non ha neppure la dignità di ammettere di aver barato. In che altro modo si può definire chi detta le regole del gioco, senza renderle note?
“Eravamo attratti dalla ricerca d’una spiegazione definitiva, della chiave che avrebbe svelato la nascita dell’universo e della vita. Da questo punto di vista la fisica teorica ci sembrava molto più adatta che non la vecchia filosofia che si studiava nei licei. Platone, e Aristotele, Cartesio e Kant e Hegel, ci sembravano insufficienti di fronte alle domande fondamentali […] Einstein, Planck, Bohr, Eddington, Born, Ruthenford erano i veri maestri della conoscenza che con il lume della ragione e della scienza sperimentale avrebbero definitivamente scacciato le tenebre dell’ignoranza e della superstizione religiosa, svelando i misteri e lacerando il velo di maya che nasconde la realtà agli occhi degli uomini. […] Il principio di indeterminazione scoperto da Heisenberg […] ci calò sulla testa come una mazzata”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 7-8, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Sì, regole del gioco. Null’altro che questo. E niente di più di quelle del Monopoli, del poker e dei quattrocento rana (se li ripristineranno).
Se l’organizzazione richiede una norma e se la norma ha ragione d’essere per amministrare la storia, ciò non significa, né dovrebbe comportare, che l’intera dimensione umana ne sia sottomessa, ovvero che dell’infinito che è in noi si tenga buona soltanto qualche squama.
Sebbene la conoscenza suprema, mica quella superficiale cognitiva, sia disponibile agli uomini da diversi millenni, ci sono evidentemente state ragioni e motivi che ne hanno impedito l’avvento. Forse quella più accreditabile è relativa ad una sorta di equilibrio della natura che implica la dimensione esoterica della conoscenza, in quanto, se essoterizzata non ne resterebbe che una vulgata superficiale e quindi il rischio di disperdere, ancora una volta nella democrazia, il bene dell’uomo.
Fanno da sfondo a quella conoscenza profonda una serie di dinamiche che – semplicemente – non sono compatibili con l’attuale concezione quantitativistica del mondo e degli uomini.
Alcune di queste possono essere descritte come segue.
Campi
Tutti noi, sempre cerchiamo di permanere in campi di coerenza, ovvero in situazioni a noi idonee, dove non ci sentiamo spaesati, perduti, impauriti. Vale per il pusillanime quanto per il coraggioso. Estremi tra i quali il genere umano tutto gongola, soffre e sciama, trovando i suoi convenuti, a volte nel campo dei codardi, altre in quello degli intrepidi.
In sostanza, dire campo è come dire coerenza, insieme, compatibilità, autoreferenzialità. È anche dire destino e recinto. È dire storia, identità, separazione, giudizio.
I campi sono detti chiusi quando tutti i giocatori sanno tutto il necessario per giocare la partita che si sta svolgendo all’interno, come nel Monopoli. Non sono ammesse scelte differenti da quelle dettate e concesse dal regolamento, come per fare una raccomandata, gonfiare una ruota, combattere sul ring. Chi non conosce le regole, ma vuole entrare in campo, desidera impararle per assoggettarsene e quindi dialogare – senza rischio di equivoco – con gli altri avventori.
I campi chiusi, amministrativi, di gioco o condivisi sono rappresentabili e sottostanno alle dinamiche del principio di causa-effetto, della logica aristotelica e al tempo lineare, tutti pilastri della meccanica classica.
Relazioni
In Il codice cosmico – La fisica moderna decifra la natura, di Heinz R. Pagels, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, a pagina 68 si legge: “Per qualche ragione il linguaggio corretto per descrivere l’atomo era quello delle matrici anziché quello dei semplici numeri” e, nelle prime righe di pagine 69, “il cui prodotto non è necessariamente commutativo”.
Sono parole che offrono una sintesi delle dinamiche nelle relazioni aperte, le più comuni. Se i numeri erano utili per definire il comportamento di una parte in contesto chiuso, meccanico, uno spettro assai più vasto, come quello offerto da una matrice, diviene più consono a predire il fare in contesti privi di dominio comune e condiviso. Non solo, invertendo i ruoli delle parti o spostando la relazione in altro tempo, se ne riscontra anche la similitudine con il concetto di non commutabilità.
Quando due campi – che significa anche noi stessi, in relazioni con il prossimo, in quanto di momento in momento vediamo la realtà secondo noi – entrano in contatto, in relazione, entrambi credono che l’altro riconosca le regole del gioco, ovvero il proprio punto di vista, la propria interpretazione, il proprio linguaggio, verbale e non, e le sue accezioni, la propria ironia e l’illuminazione che le proprie metafore gli recherebbero, che abbia l’identico sentimento e le stesse esigenze. Entrambi credono che l’altro riconosca le nostre esigenze emozionali e sentimentali, sebbene entrambi, spesso, neppure percepiscono come sorgente del mondo che vedono nelle loro reciproche visioni.
Nel contatto tra campi aperti il gioco non è oggettivo, il mondo non è lo stesso per entrambi e quello dell’altro non è riconosciuto, a volte anche con la disponibilità dell’ascolto. La possibilità di dialogo ha uno spettro limitato ed è, tendenzialmente, sempre incerta. Il campo individuale fa sempre testo anche quando viene apparentemente tralasciato per esprimersi poi in frustrazione, a sua volta una determinatrice di campo.
Entrambi si aspettano infatti di trovare opportuna corrispondenza alle proprie affermazioni. Fintanto che questo accade, magari condividendo per qualche tempo il medesimo contesto, sussiste il dialogo, l’intesa, l’esonero dell’equivoco.
Quando la corrispondenza cessa si aprono le cateratte del fraintendimento, dell’incomprensione, della delusione, del risentimento, del conflitto, della sopraffazione, della squalifica.
Basta poco per passare da uno stato amichevole e disponibile, dalle buone relazioni, ad uno governato da qualche sentimento negativo, di chiusura in se stessi. Una diversa morale, una differente interpretazione di un evento, una certa accezione non intesa. Dunque passare dallo scambio, neutro o accorato, al conflitto è frequente. È una specie di dimostrazione dell’inconsapevolezza che siamo universi diversi, con regole personali. Consapevolezza quindi utile per ridurre il gradiente di rischio di conflitto e contemporaneamente alzare quello di vivere esperienze relazionali soddisfacenti, fenomenologicamente vissute, e insufflate di rispetto autentico, non buonistico-politico.
Universi che solo l’arroganza assolutista dello scientismo applicato all’umano si arroga il diritto maldestro di uniformare e poi di classificare e giudicare sempre, anche fuori dai contesti dei campi chiusi e condivisi, nei quali invece risulta fisiologico alla concezione bidimensionale della realtà.
“Ma Niels Bohr risponde: ‘Il contrario di un’affermazione corretta è un’affermazione falsa, ma il contrario di una verità può darsi che sia un’altra verità.’”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 13, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Se le relazioni amministrative sono rappresentabili dalla meccanica classica, quelle aperte si possono vestire con la foggia di quella quantistica. In queste non è possibile prevedere la posizione che gli interlocutori assumeranno nel corso della relazione. Un’imprevedibilità che assomiglia tanto a quella della particella della quale non è possibile prevedere, se non statisticamente, la posizione e la quantità di moto contemporaneamente, come accade invece nella meccanica classica. Non solo, ma la sovrapposizione tra fisica quantistica e relazioni aperte si estende ulteriormente riconoscendo che il comportamento dei due interlocutori risente dell’altro. Esattamente come avviene in occasione dell’osservazione di esperienti con le particelle, il cui comportamento oltre che imprevedibile, risente della presenza dell’osservatore.
“Tra i fenomeni osservabili e l’apparato mentale che li osserva esistono reciproche interferenze […]. Il concetto stesso di realtà subisce da queste osservazioni un attacco dal quale non si è mai più ripreso”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 12, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Inoltre, le reazioni delle parti della relazione aperta possono variare anche nel gradiente, nell’intensità o nella sostanza, proprio come una particella che può essere onda o materia.
Infine, come nell’uomo un’idea aggrega l’energia necessaria alla sua realizzazione, si può considerare che la materia non è altro che energia condensata.
L’infinito
L’insieme di tutti i campi corrisponde all’infinito. Un volume che tutto contiene, dal quale gli uomini pescano secondo la loro biografia il necessario per alimentarla e mantenerla, al fine di potersi riconoscere in essa e avere una direzione di vita, fosse anche nichilistica, patologica, disperata.
L’Iperuranio di Platone è un infinito, un volume abitato da tutti gli opposti riuniti insieme, cioè da quelle parti che gli uomini estraggono a metà per loro gusto e necessità. Se da un lato l’infinito è rappresentabile dall’Uno, dall’altro si può riconoscere quanto la consapevolezza di questo stato delle cose possa implicare sia l’elevazione all’evoluzione umana che tende alla invulnerabilità e, non disponendo in sé dell’idea della storia come territorio evolutivo, la forte eventualità di subirne il peso fino al nichilismo e alle patologie. Ovvero la difesa di qualunque faccenda umana, o meglio, l’identificazione di noi stessi con qualunque faccenda umana, tende ad impedire l’evoluzione e a procurare sofferenza.
Fisicamente parlando, l’infinito è limitato in un concetto nella fisica classica, ed è invece il solo ambito concreto che permette alla fisica quantistica di recuperare la dimensione alogica, di vedere il tempo nella sua circolarità e la durata nella sua variabilità, di liberarsi dai vincoli materiali come l’entanglement permette di pensare. Tutti aspetti che riscontriamo nell’umano a mezzo delle emozioni e dei sentimenti, ma forse, quantisticamente parlando, certe categorie e differenziazione non hanno più ragione d’essere intese in senso stretto o algebrico. Forse è opportuno intenderle come matrici sensibili alle relazioni.
Comunque, con le prime – le emozioni – ritorniamo nel passato, con i secondi – i sentimenti – manteniamo legami più forti di una gomena, indipendentemente dalla distanza del nostro affetto o nemico. Con entrambi replichiamo l’eterno ritorno. Sono infinite emozioni e infiniti sentimenti, potremmo muoverci su una linea retta che in ogni momento si allontana via via di più dal punto di origine.
Recuperare la dimensione della realtà è recuperare la dimensione magica, che non è un coniglio dal cilindro, ma semplicemente, se non banalmente, il saper vedere e maneggiare i flussi di energia che andranno a concretizzarsi in scelte e oggetti, che permettono o impediscono una relazione.
Il finito
Ogni affermazione comporta l’estrazione del volume degli elementi utili a realizzarla. Questa crea un campo, detto anche bidimensione in quanto l’affermazione è possibile soltanto in un’istantanea del volume vorticante. Come in un’immagine fotografica potremo allora sostenere che il nonno è a sinistra del nipotino e che sullo sfondo c’è un grande tiglio. Cioè potremo descrivere la realtà e credere nella nostra descrizione. Dell’arbitrarietà e parzialità di fondo non ce ne avvediamo. Così fa anche il prossimo e, come detto, se le estrazioni dal volume, se l’esigenza biografica, se il linguaggio e se l’intento non è il medesimo per entrambi, la relazione si interrompe o diviene conflittuale.
Come detto, l’ordine è realizzato nel campo quando ci si trova in riflessione e nelle interlocuzioni se queste hanno carattere amministrativo. Anche un’esperienza-emozione vissuta insieme, rientra nel campo tutti che sano tutto. È quanto accade in contesto meccanicistico. Non solo, è anche quanto la concezione meccanicistica sia dilagata anche in campo umanistico. Di essa è pregna la cultura, nonostante le sue falle. Ovvero la messa in evidenza che la dimensione logico-razionale del pensiero e del linguaggio speculativo-analitico, in quanto gabbia di contenimento, non potrà mai, sua ontologia, indagare ciò che essa definisce mistero. Non farà sentire la liberazione del nostro potenziale profondo e si limiterà a godere di se stessa seduta al tavolo a giocare a Monopoli.
Siamo atomi dal potere enorme – che la fissione e la fusione nucleare ben rappresentano in quanto a quantità – ma con il denotatore inceppato. Una messe di pulviscolo di convinzioni e consuetudini di superficie, cioè autoreferenziali, tappi dell’effervescenza creativa, che impediscono la conoscenza di noi e del prossimo, relegati in categorie inventate, che annullano il paradiso terrestre che immaginiamo e che, nel tentativo di raggiungerlo, distruggiamo.
“Ne risulta in modo particolarmente efficace il percorso che la fisica teorica compì nel primo quarantennio del XX secolo: la scoperta di un universo profondamente diverso da quello che la scienza precedente aveva trasmesso”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 11, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Stabilità dei campi
Come un’idea, che è necessaria per generare un tavolo che non sia una replica di idee altrui, rappresenta la stabilità di un campo, così si può convenire che ogni campo stabile implica la materializzazione di quanto vi è contenuto. Un cinico, un intrepido, un pauroso, uno studioso e un atleta, hanno davanti a sé una visione costante e ferma, un campo impermeabile che permette loro la concentrazione, la continuità, la fiducia e la capacità di soffrire che, se dovessero venire a mancare, le loro aspirazioni si vanificherebbero.
Vivere entro un campo instabile, positivisticamente parlando, corrisponde infatti ad una conduzione di se stessi vagolante, incerta, debole. Ma corrisponde anche alla permeabilità serendipidica latente e alla disponibilità creativa, in quanto permette una relazione con il flusso energetico libero, dagli esiti imprevedibili, non più strumentalmente irreggimentato, razionalmente ordinato e strumentalmente predefinito.
“L’ordine che voi vedete nella creazione è quello che ci avete messo voi, come un filo in un labirinto, per non smarrirvi. Infatti l’esistenza ha il suo proprio ordine, tale che nessuna mente umana possa abbracciarlo, perché la mente stessa non è che un fatto in mezzo ad altri fatti”. Cormac McCarthy, Meridiano di sangue, Torino, Einaudi, 2014, p. 219-220.
Microcosmo
L’energia che transita nel corpo e lo costituisce, in quanto esigenza della natura o del cosmo, attraverso il microcosmo che siamo, reifica il mondo a nostra immagine e somiglianza, cioè in coerenza con la nostra biografia aggregandosi in campi richiamati dal senso di coerenza o mente condivisa.
Nient’altro che un procedere magico sotto gli occhi di tutti i disponibili a vederlo. Se le particelle risentono della presenza dell’osservatore e se il campo d’azione ha a che vedere con l’infinito, la fisica quantistica ha a che vedere con la magia. Se essa mina le basi della meccanica classica, così la consapevolezza dei campi e delle dinamiche relazionali ci svincola dal tentativo meccanicista di intendere l’uomo e i suoi comportamenti, come educabili secondo l’ordine storico vigente e – questo è il punto – credendo di fare opera universale, dimenticando infatti che la coerenza non è quella delle categorie della logica o della scienza, è quella dell’osservatore, dei suoi bisogni e scopi. Sono gli stessi vincoli della particella osservata?
L’architettura della fisica quantistica ci permette di riconoscere nella sua interpretazione della realtà le caratteristiche che si possono riscontrare nelle relazioni aperte, quelle senza recinzione né assoggettamento, che in sede delle regole condivise, hanno a che fare con l’infinito autoreferenziale che è in noi.
Lorenzo Merlo