Tempo fa scrissi una recensione sul libro di Fiorenzo Carsi “SOPRAVVISSUTI AL GELO E AL NEMICO. MEMORIE DI REDUCI DI RUSSIA”. Consiglio a tutti, per il mantenimento di una memoria, di leggere queste testimonianze nel contesto della storia militare fascista, targata da volontà imperialista. Ed invito il lettore a valutare la solidarietà dei contadini russi e la violenza dei soldati tedeschi in fuga durante la ritirata. Esempio: tagliavano le mani ai nostri soldati che si aggrappavano ai camion; da ricordare peraltro che erano nostri alleati. Riguardo a Mussolini, se non vi fossero altri delitti tra i quali la limitazione della libertà in Italia, bastano queste testimonianze per dimostrare la sua nullità come statista per averci trascinato nella guerra.
Ho anche un motivo personale nel voler ricordare quei momenti tragici. Io sono nato da uno di quei reduci… anzi diciamo uno che era rimasto invalido e che fece in tempo a tornare prima della disfatta finale. Ma questa storia merita un piccolo chiarimento. Mio padre durante la ritirata del 1943 restò indietro con le gambe congelate, i suoi lo abbandonarono. Sarebbe stato fatto prigioniero o forse ucciso se alcuni russi “benevoli” non l’avessero preso, caricato su un carro e -a loro rischio- riconsegnato entro le linee italiane. Poi fu rimandato in Italia dove essendo invalido non continuò a svolgere servizio militare. Io nacqui poco dopo la liberazione di Roma, il 23 giugno del 1944. Quindi debbo la vita ad un russo…. oltre che a mio padre ed ovviamente a mia madre. Anzi soprattutto a lei che scelse di tenermi malgrado i tempi…
Ricordo i miei primi anni di vita a Roma in cui mia madre e mia nonna paterna mi portavano con loro per campi a raccogliere erbe commestibili. Tanta era la carenza di cibo in quegli anni e ricordo anche i crateri ancora aperti dalle bombe americane e i binari della ferrovia tiburtina divelti. La guerra non l’ho vissuta ma ho fatto in tempo a vederne le brutture postume. Poi nel 1954 mia madre morì e così dovetti anche affrontare nuove vicissitudini. Ma quello, malgrado tutto, fu un periodo abbastanza utile per la mia crescita. Essendo rimasto da poco orfano e rinchiuso in un collegio (per mancanza di accoglienza in altre situazioni familiari), sicuramente quell’esperienza, cogente ed importante, fu necessaria per il mio successivo sviluppo.
Durante quel periodo, appresi come fosse necessaria l’autonomia di pensiero e l’adattamento alle situazioni, due aspetti che in seguito contribuirono fortemente alla mia formazione spirituale e sociale.
Ho un debito di riconoscenza versoi salesiani di San Giovanni Bosco e la loro opera di assistenza ai giovani. Io fui un loro beneficiato, allorché morì mia madre Giustina, e non riuscivo più ad adeguarmi a una scuola normale (malgrado fossi considerato intelligente e preparato dai miei maestri). Qualcosa in me si era bloccato, ricordo all’esame di quinta elementare feci una totale scena muta, conoscevo tutte le risposte alle domande che mi venivano poste dagli esaminatori ma non profferii parola, solo sguardi luccicanti e silenzio. Così da buon orfano disadattato fui mandato al collegio del Sacro Cuore di Roma, come interno. Vivevo cioè in una comunità chiusa al mondo ma in un’atmosfera che ricordava la famiglia.
Ricordo il mio insegnante, un vecchio laico che risiedeva monasticamente nel collegio, un uomo di grande saggezza, egli mi insegnò a strizzare bene il tubetto del dentifricio ed anche ad aprirlo per prelevarvi l’ultima pasta attaccata. Nel collegio godevo del poco, ad esempio della merenda pomeridiana, una semplice ciriola di pane senza companatico, mentre pattinavo nel cortile imparando a muovermi velocemente in mezzo agli altri.
Ed è lì che appresi alcuni “trucchi” della religione (da me poi ripresi nelle cerimonie laiche dei vari equinozi e solstizi in cui uso ancora il sistema dei pensierini offerti al fuoco). Allora accadeva con la ricorrenza della festa della Madonna dell’8 dicembre e compivamo un rito particolare “dei messaggi della Santa Madre”, ovvero pescavamo ognuno a turno dentro una grande cesta un rotolino di carta, ogni rotolino conteneva un messaggio personale, che pareva sempre azzeccato, il rotolino una volta letto veniva poi gettato in un focheraccio acceso nel cortile.
Un’altra volta appresi il valore della pazienza durante i canti solenni di una messa speciale. Un ragazzino della mia classe -evidentemente anche lui con problemi psicologici- (si puliva il naso sulle maniche della giacca ed era sempre impiastricciato di mocciolo) stava proprio al mio fianco, forse lo rimproverai di qualcosa e ricordo che lui prese a picchiarmi con furia, mi dava pugni e calci, evidentemente era disperato… dentro di me sentii che non era giusto reagire e continuai a cantare per tutto il tempo assieme al coro, senza provare cattivi pensieri ma concentrandomi sul canto. L’aver superato la rabbia momentanea ed il senso di rivalsa mi riempì di gioia, mi sembrava un dono del Cielo.
Per sviluppare la modestia e l’accettazione prendevo sempre ad esempio le prove dolorose di Don Bosco, alle prese con l’indifferenza della società, mi piaceva moltissimo leggere le storie su Domenico Savio, l’allievo spirituale del santo, mi identificavo con lui. In quegli anni iniziai a scoprire che la mia esistenza aveva un senso solo se la rivolgevo verso la verità, la giustizia e l’amore. Tra l’altro nel tempo appresi come fosse facile anche studiare o compiere il proprio dovere se lo si considerava un’offerta a Dio.
Feci del mio meglio e divenni l’alunno più meritevole della mia classe, il primo in profitto, condotta e religione. A quel tempo avrei potuto anche decidere di farmi prete ma evidentemente quella non era la mia strada. Non sono però irriconoscente verso i santi cristiani, malgrado abbia abbandonato ogni credo religioso precostituito, continuo a provare solidarietà e rispetto verso Don Bosco. Egli è il mio primo maestro e padre spirituale.
Paolo D’Arpini
Ho anche un motivo personale nel voler ricordare quei momenti tragici. Io sono nato da uno di quei reduci… anzi diciamo uno che era rimasto invalido e che fece in tempo a tornare prima della disfatta finale. Ma questa storia merita un piccolo chiarimento. Mio padre durante la ritirata del 1943 restò indietro con le gambe congelate, i suoi lo abbandonarono. Sarebbe stato fatto prigioniero o forse ucciso se alcuni russi “benevoli” non l’avessero preso, caricato su un carro e -a loro rischio- riconsegnato entro le linee italiane. Poi fu rimandato in Italia dove essendo invalido non continuò a svolgere servizio militare. Io nacqui poco dopo la liberazione di Roma, il 23 giugno del 1944. Quindi debbo la vita ad un russo…. oltre che a mio padre ed ovviamente a mia madre. Anzi soprattutto a lei che scelse di tenermi malgrado i tempi…
Ricordo i miei primi anni di vita a Roma in cui mia madre e mia nonna paterna mi portavano con loro per campi a raccogliere erbe commestibili. Tanta era la carenza di cibo in quegli anni e ricordo anche i crateri ancora aperti dalle bombe americane e i binari della ferrovia tiburtina divelti. La guerra non l’ho vissuta ma ho fatto in tempo a vederne le brutture postume. Poi nel 1954 mia madre morì e così dovetti anche affrontare nuove vicissitudini. Ma quello, malgrado tutto, fu un periodo abbastanza utile per la mia crescita. Essendo rimasto da poco orfano e rinchiuso in un collegio (per mancanza di accoglienza in altre situazioni familiari), sicuramente quell’esperienza, cogente ed importante, fu necessaria per il mio successivo sviluppo.
Durante quel periodo, appresi come fosse necessaria l’autonomia di pensiero e l’adattamento alle situazioni, due aspetti che in seguito contribuirono fortemente alla mia formazione spirituale e sociale.
Ho un debito di riconoscenza versoi salesiani di San Giovanni Bosco e la loro opera di assistenza ai giovani. Io fui un loro beneficiato, allorché morì mia madre Giustina, e non riuscivo più ad adeguarmi a una scuola normale (malgrado fossi considerato intelligente e preparato dai miei maestri). Qualcosa in me si era bloccato, ricordo all’esame di quinta elementare feci una totale scena muta, conoscevo tutte le risposte alle domande che mi venivano poste dagli esaminatori ma non profferii parola, solo sguardi luccicanti e silenzio. Così da buon orfano disadattato fui mandato al collegio del Sacro Cuore di Roma, come interno. Vivevo cioè in una comunità chiusa al mondo ma in un’atmosfera che ricordava la famiglia.
Ricordo il mio insegnante, un vecchio laico che risiedeva monasticamente nel collegio, un uomo di grande saggezza, egli mi insegnò a strizzare bene il tubetto del dentifricio ed anche ad aprirlo per prelevarvi l’ultima pasta attaccata. Nel collegio godevo del poco, ad esempio della merenda pomeridiana, una semplice ciriola di pane senza companatico, mentre pattinavo nel cortile imparando a muovermi velocemente in mezzo agli altri.
Ed è lì che appresi alcuni “trucchi” della religione (da me poi ripresi nelle cerimonie laiche dei vari equinozi e solstizi in cui uso ancora il sistema dei pensierini offerti al fuoco). Allora accadeva con la ricorrenza della festa della Madonna dell’8 dicembre e compivamo un rito particolare “dei messaggi della Santa Madre”, ovvero pescavamo ognuno a turno dentro una grande cesta un rotolino di carta, ogni rotolino conteneva un messaggio personale, che pareva sempre azzeccato, il rotolino una volta letto veniva poi gettato in un focheraccio acceso nel cortile.
Un’altra volta appresi il valore della pazienza durante i canti solenni di una messa speciale. Un ragazzino della mia classe -evidentemente anche lui con problemi psicologici- (si puliva il naso sulle maniche della giacca ed era sempre impiastricciato di mocciolo) stava proprio al mio fianco, forse lo rimproverai di qualcosa e ricordo che lui prese a picchiarmi con furia, mi dava pugni e calci, evidentemente era disperato… dentro di me sentii che non era giusto reagire e continuai a cantare per tutto il tempo assieme al coro, senza provare cattivi pensieri ma concentrandomi sul canto. L’aver superato la rabbia momentanea ed il senso di rivalsa mi riempì di gioia, mi sembrava un dono del Cielo.
Per sviluppare la modestia e l’accettazione prendevo sempre ad esempio le prove dolorose di Don Bosco, alle prese con l’indifferenza della società, mi piaceva moltissimo leggere le storie su Domenico Savio, l’allievo spirituale del santo, mi identificavo con lui. In quegli anni iniziai a scoprire che la mia esistenza aveva un senso solo se la rivolgevo verso la verità, la giustizia e l’amore. Tra l’altro nel tempo appresi come fosse facile anche studiare o compiere il proprio dovere se lo si considerava un’offerta a Dio.
Feci del mio meglio e divenni l’alunno più meritevole della mia classe, il primo in profitto, condotta e religione. A quel tempo avrei potuto anche decidere di farmi prete ma evidentemente quella non era la mia strada. Non sono però irriconoscente verso i santi cristiani, malgrado abbia abbandonato ogni credo religioso precostituito, continuo a provare solidarietà e rispetto verso Don Bosco. Egli è il mio primo maestro e padre spirituale.
Paolo D’Arpini