Venti ed archetipi nell’emisfero nord ed in quello sud


Il vento è un “movimento orizzontale o verticale di una massa d’aria dovuto a differenze di pressione, le quali a loro volta sono dovute a una distribuzione ineguale di calore. La corrente d’aria si muove nella direzione che va dalla zona ad alta pressione verso quella a bassa pressione. Ma nella genesi del vento intervengono altre due forze, una deviante dovuta alla rotazione della Terra (forza di Coriolis(1)) e una di attrito causata dalle asperità della superficie terrestre. (…) Nell’emisfero boreale, stando con le spalle al vento, la bassa pressione è in diagonale avanti a sinistra, mentre l’alta pressione è dietro a destra.
Nell’emisfero australe, sempre stando con le spalle al vento, la bassa pressione è avanti a destra, quella alta è dietro a sinistra.”(2) “In prima approssimazione, per abbozzare un modello, molto semplificato, si può supporre che in ciascun emisfero della Terra si stabiliscano tre grandi cellule di convezione. (…) In esse si verifica lo stesso fenomeno (…) [delle] correnti oceaniche: le forze di Coriolis (…) attorno alle alte pressioni fanno deviare le correnti d’aria in senso orario nell’emisfero boreale e in senso antiorario nell’emisfero australe. L’opposto avviene per i venti che circolano intorno alle depressioni. (…)
Le tre cellule che in ogni emisfero rimescolano continuamente la troposfera lasciano in mezzo, sull’Equatore, una regione di calma quasi assoluta. Gli alisei che da Nord e da Sud convergono sull’Equatore, arrivati in prossimità di esso, per l’alta temperatura si innalzano a qualche migliaio di metri sopra il mare come se si infilassero in un camino: e sotto abbiamo il fenomeno delle ‘calme equatoriali’ (doldrums), drammaticamente descritto da tanti marinai all’epoca della navigazione a vela. (…)
I sistemi ciclonici, caratterizzati da una bassa pressione atmosferica, si formano quando si incontrano masse di aria calda e fredda generando un vortice. Nell’emisfero Nord i venti ciclonici soffiano in senso antiorario intorno al minimo barico; il contrario avviene nell’emisfero Sud. I sistemi anticiclonici, caratterizzati da un’alta pressione, nascono da flussi di aria discendenti che ruotano in senso orario nell’emisfero Nord e in senso antiorario nel Sud.”(3)
Notava nel suo grandioso Lessico Gerolamo Vitali: “D’altra parte, quando parliamo sia della natura dei venti sia di quella dei segni, parliamo sempre rispetto alla regione boreale che noi abitiamo, ma è fuor di dubbio che, passando l’Atlantico e dirigendoci oltre l’Equatore, faremo esperienza di condizioni esattamente opposte alle nostre.”(4) (…)
L’Equatore (dal lat. mediev. aequator -oris, der. di aequare “uguagliare”; popr. “che rende uguali [i giorni e le notti]”) è il circolo massimo ideale, tracciato sulla sfera terrestre, risultante dall’intersezione con essa di un piano condotto per il centro della Terra perpendicolarmente all’asse di questa. A 22 km da Quito, capitale dell‘Ecuador, c’è la cosiddetta “mitad del mundo”, esattamente sulla linea equatoriale. E’ il luogo in cui, nel 1736, la spedizione guidata da Charles-Marie de la Condamine per conto dell’Accademia delle Scienze di Francia effettuò le misurazioni che dimostrarono come questo fosse realmente l’Equatore (gli stessi calcoli diedero origine anche al sistema metrico decimale e provarono che la terra non è una sfera perfetta). I suoi 40.076.594 m. toccano, partendo dal meridiano di Greenwich e andando verso Est, l’oceano Atlantico, il Gabon, il Congo, lo Zaire, l’Uganda, il lago Vittoria, il Kenia, la Somalia, l’oceano Indiano, l’Indonesia, l’oceano Pacifico, l’isola Isabela dell’arcipelago di Colón, l’Ecuador, la Colombia e il Brasile. Gli atlanti non riportano nessuna città esattamente a 00° 00’ di latitudine (ad eccezione, secondo Henri Le Corre, di Macapa, in Brasile), ma molte nella zona equatoriale, che si estende sino a 4° Nord e Sud.
In effetti, il problema di come debbano essere valutati i segni zodiacali in relazione al circolo massimo e alla sua fascia (e anche, più in generale, a tutta la zona che dall’Equatore si estende sino ai tropici) è, comunque, di estremo interesse e bisognerebbe affrontarlo sulla base di ricerche sul campo e studi specifici, tutti ancora da farsi. L’Equatore, dove le stagioni non esistono più e vi è solo differenza di altezze meridiane e di ombre (nella primavera-estate dell’emisfero boreale, sul circolo massimo, il Sole culmina verso il Nord e proietta le ombre verso il Sud; nell’autunno-inverno culmina verso il Sud e le ombre inclinano verso il Nord), divide il globo terrestre in due emisferi diametralmente opposti e uguali e “appartiene”, allo stesso titolo e “giustamente”, a entrambi. 
A latitudine geografica zero, con traiettoria in linea retta perpendicolare al piano dell’orizzonte, sorgono e tramontano tutte le stelle e l’ampiezza della sfera celeste visibile nelle 24 ore è di 360°; allo stesso modo, la durata del dì è sempre uguale a quella della notte (il medesimo fenomeno si verifica, nel mondo intero, nei giorni degli equinozi, con il Sole sull’Equatore). Così, per esempio, quando avviene, nell’emisfero Nord, l’equinozio di primavera e in quello Sud l’equinozio d’autunno, all’Equatore il Sole può considerarsi tanto in Ariete (e dunque sotto il dominio di Marte), quanto in Bilancia (retto quindi da Venere), a seconda che si consideri come polo elevato quello Nord oppure quello Sud. (…)
I nomi stessi dei punti cardinali dell’orizzonte sono stati attribuiti in relazione al nostro emisfero, assumendo poi un valore universale. Coloro che giungono, per la prima volta, dall’emisfero boreale a quello meridionale, non possono non sentirsi letteralmente disorientati constatando che il sorgere del Sole (Est), rivolti verso il Sud dell’emisfero in cui si trovano (verso il mezzogiorno), avviene alla loro destra, invece che alla sinistra, come accade nell’emisfero da cui provengono. Perciò nelle figure australi di nascita e di rivoluzione l’Ascendente e il Discendente devono essere invertiti rispetto a quelle settentrionali – e così i segni immateriali, le declinazioni e le latitudini celesti, dal momento che opposte sono le stagioni nell’uno e nell’altro emisfero –, rimanendo invariato solo l’asse X/IV. I pianeti, infatti, in tali figure, procedono lungo l’eclittica da sinistra verso destra, in senso orario, mentre sorgono e vanno a culminare da destra verso sinistra, in senso antiorario. Senza l’inversione dei segni e, insieme, della disposizione delle Case, le carte del cielo dell’emisfero Sud sono temi di fantasmi sbilenchi. (…)
Sulla linea esatta dell’Equatore i mulinelli e vortici dell’acqua (persino quelli del lavandino) non si formano più, ma appena si va, anche solo di qualche metro, oltre questo limite estremo essi ricompaiono – con moto antiorario nell’emisfero Nord, orario nell’emisfero Sud: in entrambi i casi nel senso dei segni – a causa della forza deviante di Coriolis, che risulta nulla all’Equatore (5). I segni immateriali rispondono verosimilmente al medesimo principio. Superato anche di poco il circolo massimo, autentico spartiacque e “spartiventi” e “spartisegni”(6) sul quale la dialettica di questi ultimi si dissolve, essi ritrovano tutta la loro natura e realtà palpitante, che si manifesta con la medesima forza, ma in modo speculare, nei due opposti emisferi.
Joe Fallisi


NOTE
(1) Descritta nel 1835 dall’ingegnere e matematico francese Gaspard-Gustave de Coriolis, essa regola il comportamento dei cicloni, così come la rotazione del pendolo di Foucault, e agisce su tutti i corpi in movimento in un sistema in rotazione facendoli deviare dalla loro traiettoria. E’ proporzionale al prodotto vettore della velocità di rotazione terrestre per la velocità del corpo in movimento e viene ad aggiungersi alla forza centrifuga, che agisce anche sui corpi fermi (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Coriolis).
(2) Atlante della Terra, UTET, Torino 1999, p. 448.
(4) Hyeronimo Vitali, Lexicon Mathematicum Atronomicum Geometricum, Parisiis 1668, p. 77 (ristampato nel 2003, con introduzione e note di G. Bezza e prefazione di O. Faracovi, dalle Edizioni Agorà di La Spezia); cfr. G. Bezza, Commento al primo libro della Tetrabiblos di Claudio Tolemeo, Nuovi Orizzonti, Milano 1992, p. 321.
(6) Max Duval sostiene, con sicurezza degna di miglior causa, che non l’Equatore, bensì l’eclittica costituisce la linea di frontiera dei segni (cfr. M. Duval, “L’astrologie en hémisphère Sud et les régions sub-tropicales”, “L’astrologue” n. 118, 1997, p. 36). E poiché lo zenit delle località comprese fra il tropico del Cancro e il tropico del Capricorno viene a trovarsi successivamente, nell’arco della giornata, al di sopra o al di sotto dell’eclittica, nel primo caso si dovrebbe adottare lo “zodiaco nord”, nel secondo lo “zodiaco sud” (ibid.). Come se nel medesimo luogo, durante le 24 ore, il Sole, vero acrobata celeste, saltasse più volte da un segno a quello opposto!
(Da: Joe Fallisi, Maradona e l’emisfero australe. L’astrologia agli antipodi, libro in preparazione – cfr.http://www.cieloeterra.it/articoli.maradona/maradona1.htm)

Cosmopolitismo e cancellazione delle identità locali



Il precipitare vertiginoso del mondo moderno ha prodotto, nel corso della sua caduta, deformazioni pseudo-culturali, politiche ed economiche di terribile entità e contrassegnate anche da una sbalorditiva velocità.

Due sono le principali deformanti manifestazioni che si sono rivelate determinanti per le trasformazioni in corso d’opera: l’alluvione migratoria degli allogeni nelle terre europee e la globalizzazione capitalistica e cosmopolita, ovvero l’espansione a livello planetario del pensiero unico liberale/libertario/liberista e di un modello unico di rapina economica funzionale agli interessi delle Oligarchie  finanziarie.

Questi fenomeni hanno purtroppo acquisito sempre di più una forte incidenza in tutti gli aspetti della vita dei popoli, tanto da destare una crescente insofferenza e una legittima e sempre più diffusa inquietudine.

La globalizzazione cosmopolita è l’apoteosi del travolgimento di tutte le barriere che intralciavano la formazione di un unico mercato mondiale e così facendo spalanca volutamente le porte all’invasione immigratoria delle genti straniere, una manifestazione che è strettamente correlata e funzionale.

Nel 2001, il prof. Stefano Zamagni, vicino ad ambienti ecclesiastici, scrisse a tal proposito: “è un fatto, ormai ampiamente riconosciuto, che nell’epoca della globalizzazione il fenomeno migratorio è destinato ad acquistare sempre più i caratteri della normalità, à perdere cioè i caratteri dell’evento eccezionale o transitorio.”

Questo, in linea di massima, è quindi il drammatico contesto generale che ci troviamo ad affrontare. Che tutti i popoli europei dovranno affrontare con spengleriana decisione per salvare se stessi e la loro preziosa specificità: l’intima sostanza delle generazioni, passate – presenti – future. Perché il sangue non è acqua …
Nella prefazione alla terza edizione de Il Campo dei Santi, apparsa nel 1985 – presente nella traduzione italiana dell’opera curata dalle Edizioni di Ar – l’autore, Jean Raspail, volendo fare una previsione riferita ai trent’anni successivi, scrisse:“Sette miliardi di uomini circonderanno settecento milioni di bianchi. Solo un terzo di questi risiederà, ormai invecchiato, nella nostra piccola Europa; di fronte all’Europa, sulla sponda africana del Mediterraneo, vi saranno quasi quattrocento milioni di maghrebini e musulmani – metà dei quali avrà meno di vent’anni: avanguardie del resto del mondo! Chi può pensare per un solo istante, se non ficcando la testa sotto la sabbia come uno struzzo, che questo squilibrio possa durare a lungo?”

Jean Raspail aveva prefigurato il vero. Infatti, questo fragile squilibrio non è durato.

Si tratta ormai di un fatto assodato, l’immigrazione straniera sta letteralmente sfondando sempre più le deboli frontiere dell’Europa con ondate continue di intensità sempre maggiore e, infatti, i più recenti rapporti redatti dalla Caritas — l’ultimo è il XXIII° Rapporto Immigrazione 2013, redatto da Caritas e Migrantes, le strutture mondialiste della Chiesa Cattolica — hanno già registrato la consistenza della penetrazione immigratoria in oltre 70 milioni di extracomunitari stanziati sul territorio dell’Unione Europea: “Le stime di medio periodo dicono che, nell’arco di 25 anni, il numero di migranti dovrebbe quasi raddoppiare, raggiungendo quota 400 milioni nel 2040. L’Europa e l’Asia –con oltre 70 milioni di migranti ciascuno – sono i continenti che ospitano ilmaggior numero di migranti, pari a circa i due terzi del totale mondiale entrambi. In Europa le nazioni maggiormente attrattive sono la Germania e la Francia; negli ultimi anni, però, hanno visto accrescere la presenza di migranti paesi come la Spagna e l’Italia che si attestano, ciascuna, su oltre 4 milioni di presenze.”

Il dato, ovviamente, andrebbe decisamente corretto al rialzo, se venissero conteggiati quanti, negli ultimi decenni, hanno potuto acquisire più o meno legittimamente il diritto alla cittadinanza nelle singole nazioni.
L’incidenza numerica delle popolazioni immigrate in Europa ammonterebbe già adesso a cifre più che preoccupanti.

L’Italia, purtroppo, si trova oramai nella drammatica situazione di un avviato superamento della fatale statistica soglia di allarme. Difatti, già al gennaio del 2013 la presenza accertata dalle autorità competenti ci riportava la cifra di oltre 4 milioni di stranieri installatisi sul territorio nazionale, quindi di un bel 7% rispetto all’insieme della popolazione italiana.

Sono 4.387.721 — dei quali oltre due milioni sarebbero femmine — per la precisione, gli immigrati stranieri stanziati in Italia secondo i rapporti dell’ISTAT consegnati alle autorità governative e di questi i minori ammonterebbero alla considerevole cifra di oltre 930.000 unità (di cui il 22% nati nella nostra nazione), tanto da confermarsi — sempre secondo i dati ufficiali diffusi, e con gran gioia dei mondialisti cosmopoliti — decisivi per il contenimento del calo demografico in Italia.

Senza gli immigrati, ci informano le fonti governative, l’Italia sarebbe quindi demograficamente più povera.
A fronte di un calo numerico di 75 mila italiani (nel rapporto proporzionale esistente tra le nascite e i decessi), la popolazione residente complessiva è aumentata nel solo 2009 di circa 295 mila persone e guarda caso solo per l’apporto degli immigrati stranieri.

Parliamo appunto di presenze accertate che, ovviamente, non tengono conto dei tanti irregolari presenti illegalmente. Quindi complessivamente la cifra supererebbe abbondantemente le 5 milioni di unità e anche la percentuale in proporzione tenderebbe a salire in maniera preoccupante, con una massiccia concentrazione degli stranieri nei quartieri delle città più importanti, solo a Roma gli immigrati rappresenterebbero ben oltre il 8,7% della popolazione cittadina, mentre a Milano la consistenza numerica salirebbe al livello del 8,2% e a Firenze ben più del 7%.

Sempre secondo i rapporti statistici diffusi dalla Caritas: “La distribuzione regionale conferma un dato ormai storico, che vede il 61,8% degli immigrati nel Nord, il 24,2% nel Centro e il 14% nel Sud e nelle Isole. La Lombardia si conferma la regione con il maggior numero di presenze (23,4%), seguita dal Veneto (11,1%), dall’Emilia Romagna (11,1%) e dal Lazio (10,9%). La provincia con il numero maggiore è, invece, quella di Roma che con l’8,7% supera quella di Milano (8,2%) e di Torino (4,5%). Il 35,8% del totale della popolazione straniera residente si concentra nei capoluoghi di provincia, soprattutto al Centro dove la percentuale sale al 43,9%. Con il 14,7%, la provincia di Prato ha la percentuale di incidenza più elevata sul totale della popolazione, immigrata e italiana.”

Pertanto, nel complesso, sono dati più che superiori della media nazionale.

Possiamo, purtroppo, già parlare sensatamente di una più che preoccupante variabile del fenomeno immigratorio, ovvero di una evidente e drammatica “immigrazione di popolamento”, che non potrà che avere pesanti ricadute interne alzando ancor di più e in maniera sempre più preoccupante la già elevata soglia di allarme su i temi specifici della sicurezza sul territorio, dell’occupazione — sempre più precarizzata dall’adozione delle politiche liberiste — del crescente disagio sociale dei nostri connazionali, condannati ad un’emarginazione esponenziale, compromettendo in maniera irreversibile il nostro paesaggio culturale, identitario e spirituale che, a maggior ragione, si troverà costretto a misurarsi con l’invadenza prepotente di una presenza estranea alla vera natura della nostra Nazione e con l’aggiunta di tutti i perniciosi ricatti di una pseudo-cultura, curiosa e sradicata che vorrebbe disegnare, per le generazioni future, tragici scenari cosmopoliti e multirazziali pretendendo di relegare in termini definitivi nell’immondezzaio della Storia l’autentica fisionomia culturale e spirituale che da tempo immemore ha sempre contrassegnato ed identificato l’insieme del nostro popolo e della nostra Nazione.
Anche l’istituzione scolastica nel suo complesso, purtroppo, si sta velocemente adeguando alla nuova situazione, sia nei suoi programmi educativi, sia nell’organizzazione interna, per non parlare poi delle specifiche direttive emanate e relative all’obbligatorio adeguamento delle mense scolastiche alle diverse “culture” gastronomiche, e quelle riferite al cosiddetto “rispetto” delle diverse credenze religiose.

Che, però, guarda caso vanno sempre a penalizzare prima e a sopprimere poi le tante tradizioni popolari presenti nei nostri borghi scolastici, specialmente in occasione di certe festività come quella del Natale.
Non bisogna offendere la sensibilità degli “ospiti” stranieri … Così si giustificano i direttori scolastici e i presidi.
La scuola multietnica si affaccerà sempre più come una triste realtà con la quale doversi confrontare, soprattutto alla luce di centinaia di migliaia di nuove iscrizioni di studenti stranieri previste per i prossimi anni scolastici.
Il Sistema mondialista, nella sua propaggine italiana, sta forse lavorando alla programmazione in serie dei “nuovi italiani” del futuro?

Purtroppo i numerosi segnali politici e le giustificazioni pseudo-culturali provenienti quotidianamente dall’establishmentgovernativo ci convincono sempre più di questo tragico scenario.

Non a caso, costoro, verrebbero già qualificati come i portatori di una presunta “doppia identità”.

Quindi di nessuna identità! Le Identità – quelle reali – da sempre rispondono a parametri storici e culturali ben precisi, radicati nel tempo e nel carattere innato dei popoli, e mai potranno essere sostituite da artificiose alchimie di laboratorio.

Il contrasto culturale e politico all’invasione immigratoria e la promozione del risveglio sociale e  identitario dei popoli europei rappresentano, sempre più urgentemente, i temi fondamentali per una battaglia culturale e politica indiscutibilmente decisiva per gli assetti futuri.

Una battaglia che sembra avere anche incominciato a sollecitare la preoccupazione e l’attenzione di personaggi che, per formazione e cultura, erano da sempre storicamente estranei alle tematiche identitarie, come l’ex-dirigente dellaBundesbank ed in passato anche esponente della SPD Thilo Sarrazin, che nel 2010 era riuscito a scandalizzare l’intero mondo politico e finanziario tedesco denunciando pubblicamente il rischio di estinzione politica e culturale della popolazione tedesca a causa delle invasive politiche favorenti l’immigrazione: “Non desidero che il paese dei miei nipoti e pronipoti diventi in gran parte musulmano, nel quale si parli prevalentemente turco e arabo, dove le donne portano il velo ed il ritmo della giornata è scandito dai muezzin. Se voglio questo, posso prenotare una vacanza in Oriente.” E rincarando la dose, sempre Thilo Sarrazin, giungeva inoltre a precisare: “Ogni società ha il diritto di decidere chi vuole accogliere ed ogni paese ha il diritto di salvaguardare la propria cultura e le sue tradizioni. Queste riflessioni sono legittime anche in Germania ed in Europa. Non vorrei che noi diventassimo stranieri in patria.”

Quindi riflessioni e giustificate preoccupazioni, sempre più largamente condivise dalle singole popolazioni europee, che vanno a focalizzare l’attenzione sui nodi centrali della questione immigrazione, ovvero quelli relativi alla probabile deformazione strutturale dell’originaria fisionomia delle singole nazioni e di conseguenza dell’intera Europa.

A tal proposito si dovrebbero anche rileggere le pregnanti pagine dell’inquietante romanzo profetico Il Campo dei Dei Santi pubblicato  in Francia nel 1973 dallo scrittore ed esploratore francese Jean Raspail, dove l’autore volle mettere in guardia la Francia e l’Europa dalle fatali conseguenze derivanti da una incontrollata deriva multirazziale, terzomondista e immigratoria che alla lunga avrebbe inevitabilmente portato alla traumatica e violenta disintegrazione di ciò che ancora, nonostante tutto, sopravviveva della nostra millenaria Civiltà europea.
Un terribile presagio che venne annunciato, dal Raspail, attraverso l’utilizzo di una libera citazione biblica tratta dall’Apocalisse di S.Giovanni: “Il tempo dei mille anni giunge alla fine. Ecco, escono le nazioni che sono ai quattro angoli della terra, il cui numero eguaglia la sabbia del mare. Esse partiranno in spedizione sulla faccia della terra, assalteranno il campo dei Santi e la Città diletta.”

Se allora, nel 1973, quanto coraggiosamente narrato da Jean Raspail poteva apparire ai lettori alquanto inverosimile e addirittura non plausibile ai meno accorti, possiamo oggi, con quanto drammaticamente è accaduto — e continua ancora ad accadere, anche se celato da una voluta e imbarazzante omertà politica — in termini di feroci rivolte da parte di immigrati e naturalizzati in numerose città francesi, il cui contagio emulativo potrebbe volersi espandersi nel resto dell’Europa come è accaduto nel maggio 2013 in Svezia, rimanere indifferenti e perseverare nello scetticismo?

Possiamo continuare ad appellarci alla casualità e alla fortuita coincidenza dei fenomeni? Oppure dovremmo parlare di un disastro annunciato? In tal caso dove affonderebbero le radici di questo malessere diffuso?
Anche il caso svedese dovrebbe fare riflettere, la rivolta violenta degli immigrati si estese dal quartiere Husby di Stoccolma al resto della capitale. Così le vicende vennero commentate da un’importante agenzia di informazioni europea: “L’obiettivo di mescolare ed integrare i diversi gruppi etnici non può invece dirsi raggiunto. Husby ne è l’esempio: si tratta infatti un quartiere di 12.000 residenti di cui più del 80% è nato fuori dai confini svedesi o da genitori immigrati, nel quale il tasso di disoccupazione giovanile più alto della media nazionale si combina con un considerevole numero di persone assistite dallo Stato sociale. Come molte periferie delle più grandi città della Svezia, Husby è diventato negli anni luogo di profondo disagio sociale, nel quale non meno di 114 diverse nazionalità convivono accumunate da un clima sempre più palpabile di esclusione. Quello che a prima vista è più sconcertante è che simili eventi si siano verificati in Svezia, uno dei Paesi europei che più si è speso per attuare politiche d’integrazione, oltre che da sempre considerato uno dei più accoglienti.”

Tutto ciò è davvero sconcertante e conferma le nostre chiavi di lettura.

I roghi che nel 2005 avevano sinistramente illuminato le banlieues della regione di Parigi, di Tolosa, di Lione, di Marsiglia, di Nizza, Rennes, ecc…, non si sono limitati a consumare tra le fiamme automobili, pullman di linea, empori, veicoli dei Vigili del Fuoco, autoambulanze e automezzi della Gendarmeria.

Nelle periferie devastate dai casseurs africani e maghrebini di nazionalità francese (ma tra di loro vi erano anche numerosi immigrati regolarizzati e non) si è invece disintegrato un intero e fragile tessuto sociale, nei numerosi roghi si sono consumate le altrettanto numerose promesse, fatte e mai mantenute, dalle “anime belle” dell’universalismo cosmopolita e dell’assimilazionismo forzato.

La collera degli esclusi, così la volle definire con una punta di amarezza il politologo Bernardo Valli, sulle pagine del quotidiano mondialista La Repubblica nel novembre 2005, vedendo naufragare le sue illusioni assimilazioniste nello sfogo di una violenza anarchica e indiscriminata: Si chiamano così, Beurs, nel gergo dei sobborghi diventato linguaggio comune, i figli o i nipoti degli immigrati. I quali non sono più autentici magrebini, perché sono nati in Francia e hanno studiato nelle scuole laiche della République; ma che non si sentono neppure autentici francesi, pur avendone spesso la nazionalità, perché sanno di non essere accettati come veri cittadini. Non basta un passaporto per essere tali, per usufruire di tutti i diritti enumerati ed esaltati dalla retorica ufficiale repubblicana imparata sui banchi di scuola, il più delle volte disertati, per rifiuto o disaffezione.”
Sono così definitivamente bruciate le sempre più deboli certezze proprie delle decadenti, sclerotizzate ed egoiste democrazie capitaliste dell’Occidente liberale e libertario.

Non ci sono più alibi per nessuno.

Soprattutto si è disintegrata quell’astrazione intellettualistica, tipicamente mondialista, costituita dalla tanto decantata “religione laica” degli inviolabili diritti individuali — le assurde pretese individualistiche erette a modello esistenziale —, la quarta “religione” monoteista e modernista che è andata ad affiancarsi all’Ebraismo, al Cristianesimo e all’Islam e manifestatasi altrettanto, se non di più, esclusivista e intollerante quanto le altre.
Espressione, quindi, di un “mondo virtuale” destinato necessariamente ad implodere. E non crediamo affatto di esagerare affermando che le trascorse vicende francesi lo abbiano ben dimostrato.

Il tono prepotente e “fieramente” anti-francese — oppure anti-svedese, come nel caso di Stoccolma — (e quindi nel complesso sostanzialmente anti-europeo) che ha alimentato l’anarchica violenza e lo zelo vendicativo dei rivoltosi ci ha anche fornito il senso e la chiave di lettura di una violenta sollevazione di natura etnica che ha preannunciato al mondo intero, con gli atti di vandalismo e le violente dichiarazioni, la terribile possibilità di volere prestare il fianco ad un inasprimento dello scontro in una paventata versione di conflitto razziale.

Tutto nei prossimi anni verrà soppesato sul piatto della bilancia dei rapporti di forza, che, comunque, ci appaiono pendenti a favore dell’invasione straniera e dei loro complici politici.

I rivoltosi hanno avuto comunque – e continuano ad averne almeno per ora – buon gioco nell’assestare colpi tremendi ad una identità europea sempre più fiacca e moribonda, al fine di rivendicare il ruolo di principali artefici della pretesa edificazione di una innovativa Europa del futuro, coniata artificiosamente a loro immagine e somiglianza.

La strategia mondialista emerge prepotentemente e con tutta la sua forza con l’allarmante fenomeno dell’esodo “biblico” delle genti extraeuropee verso il nostro Continente.

Un’impressionante ondata migratoria terzo-mondista la cui definizione ormai semplicistica di ‘”immigrazione” ci suona patetica e ipocrita alla luce della constatabile dimensione degli spostamenti continui di popolazione proveniente dal Nord Africa, dall’Africa nera e dal Medio ed Estremo Oriente: è una autentica alluvione migratoria.
Inoltre, soffermandoci esclusivamente sulla valutazione quantitativa e strettamente numerica che caratterizzerebbe l’ampiezza e la portata del fenomeno, risulterebbe puntuale, logico e maggiormente calzante esprimersi con il termine crudo di INVASIONE.

Una gigantesca invasione multietnica!

D’altronde, lo stesso concetto di «invasione», come era già stato fatto notare in precedenza da numerosi studiosi e analisti del fenomeno, non vuole significare altro che l’ingresso di uno o più popoli nel territorio di un’altra nazione, senza che quest’ultima possa minimamente opporsi ad un tale spostamento.

Pertanto questa immigrazione cospicua, inarrestabile e incontrollata, che l’intera Europa sta subendo, cosa altro può essere se non una autentica invasione delle nostre terre, visto che si presenta in maniera così vasta, metodica e capillare?

Una «invasione» ben particolare visto che ha potuto, purtroppo, vantare numerosi sponsors tra coloro che, all’insegna di una non ben chiara, ma certamente deleteria, “cultura della solidarietà e dell’accoglienza” richiedono a gran voce esclusivamente maggiori garanzie e tutele a beneficio degli extracomunitari, per non parlare poi di chi apertamente si è fatto portabandiera di allarmanti proposte che ci parlano di una auspicabile assimilazione totale e indiscriminata degli stranieri, circostanza che spalancherebbe la porta al fenomeno ancor più drammatico di una «immigrazione di popolamento», ovvero di una graduale sostituzione etnica della popolazione.

Una costante e irreversibile sostituzione etnica. Che potrebbe giungere addirittura ad una progressiva africanizzazione dell’Italia.

Gli stessi interessati inviti per una rapida riforma del riconoscimento della cittadinanza mediante l’adozione del principio dello Ius Soli, al posto del più giusto e corretto Ius Sanguinis, sarebbero propedeutici per una mutazione volta in tal senso.

Sarebbe forse pensabile una Europa senza europei, un’Italia senza italiani? Non lo crediamo e non lo vogliamo, ma a questa deriva stanno lavorando gli sradicati fautori della globalizzazione multirazziale con la precisa intenzione di annientare le nostre specificità nel calderone di una massa magmatica mondializzata.

Quando nell’ultimo decennio dello scorso secolo cominciavano ad emergere le prime più che giustificate preoccupazioni sulla presenza degli immigrati stranieri, nelle principali città delle nazioni varie “agenzie propagandistiche” politico-culturali, degenerati e falsi uomini di “cultura” ed enti politici ricevettero cospicue commesse governative — oltre che da caritatevoliHoldings finanziarie — per avviare tutta una serie di iniziative pubblicitarie, al fine di convincere e di abituare la popolazione alla presenza, e pertanto alla prossima forzata coabitazione, con gli stranieri ed accettare quindi come storicamente inevitabile l’avvento di una, a detta loro, inevitabile e auspicabile società globale e multirazziale.

Si trattava di una esplicita e concreta minaccia rivolta – in nome di presunte ed ineluttabili trasformazioni previste dalla Storia – a tutti coloro che avrebbero preteso di affermare il legittimo e doveroso diritto dei popoli e delle nazioni a preservare sé stessi e la propria secolare identità etnica e culturale.

Pertanto per assecondare il progetto mondialista e cosmopolita negli ultimi venti anni si sono mobilitate ibride schiere di parolai, di perniciosi intellettuali, di sindacalisti, di eminenti politici e altrettanto eminenti gerarchie ecclesiastiche, per non parlare dello stesso pontefice romano, tutti votati a favorire con ogni mezzo l’avverarsi del progetto di una società dell’accoglienza protesa verso una futura Europa cosmopolita e multirazziale.

Proprio nello stesso periodo cominciavano anche a levarsi le prime voci contrarie, tra queste la più significativa e pregnante nei contenuti e nelle analisi fu quella di Franco Giorgio Freda, il fondatore delle Edizioni di Ar, che nel corso del suo itinerario politico-pedagogico di denuncia della globalizzazione mondialista pose l’accento sulla possibilità operativa di poter invertire la deriva della decadenza etnico-razziale delle stirpi europee, una decadenza voluta e promossa dai potentati oligarchici dell’Alta finanza internazionale: “Uno dei presupposti falsi del mondialismo è l’aspirazione (o la convinzione o la rassegnazione) degli esseri umani al meticciato etnico e culturale, meglio: all’ibridazione generale delle nature e alla confusione completa delle culture. Questo meticciato costituirebbe l’alvo biologico e ideologico di quella uniformazione del mondo e della vita, attraverso la pace generale, che una unica Amministrazione mondiale garantirebbe. E per propagandare il suo progetto di indistinzione planetaria, il mondialismo ripete ossessivamente il tema della necessità, della ineluttabilità, dunque(?) della «dignità» del fenomeno. Ci troviamo di fronte alla propaganda maligna di una fede ideologica, che diffonde un virus letale per l’integrità di tutte le comunità etniche.”

La sua coerente valutazione, la sua indubbia capacità di previsione, verranno però riconosciute come «pericolose» dal braccio secolare del Sistema e ripagate con la repressione, la condanna e la carcerazione, la messa al bando del suo sodalizio.

La valorizzazione dell’etnicità e delle specificità identitarie della Comunità nazionale era ufficialmente un grave reato da perseguire e da reprimere.

Parole d’ordine come Cosmopolitismo, ibridazione culturale e snaturamento delle identità, grazie a martellanti campagne propagandistiche stanno diventando pericolose fascinazioni diffuse a livello di massa, allucinanti e meschine falsità, le stesse che vennero lapidariamente smentite, circa un secolo fa, da Oswald Spengler: “Cosmopolitismo è una espressione infelice, meschina. Noi siamo uomini di un determinato secolo, di una determinata Nazione, di un certo ambiente, di un certo tipo. Queste sono le condizioni necessarie, rispettando le quali possiamo conferire senso e profondità alla vita ”.

Un fronte compatto di mistificatori che, facendo ricorso ad una presunta fatalità storica e ad altrettanti presunti sensi di colpa, infondevano nelle coscienze degli italiani e degli europei una cupa rassegnazione riguardo all’incremento dei flussi migratori al fine di predisporre gli animi all’immediata e forzata accoglienza degli immigrati extracomunitari.

Predicando incessantemente le parole d’ordine del pensiero mondialista sulla libertà di emigrazione e di immigrazione, ovvero il procedere verso l’apertura indiscriminata delle frontiere al fine di snaturare completamente un popolo e renderlo qualcosa di “altro”, un insieme di individui amorfi orfani di una qualsiasi identità e appartenenza senza più alcuna coesione culturale e storica e pronti, quindi, a perdere anche il concetto stesso di città, regione, Nazione e Patria.

Bipedi mondializzati, apolidi votati al sincretismo pseudo-religioso e pseudo-culturale e totalmente passivi e indifferenti ai mutamenti, anche drammatici, che li circondano e li coinvolgono.

Nonostante i continui disordini che continuano a investire il terzo e quarto mondo, dove imperversano guerre civili e di “religione”, alimentate dalle fobie destabilizzanti degli “esportatori di democrazia” che abbattono regimi consolidati per favorire gli interessi delle multinazionali, e l’ingresso continuo nei nostri territori europei di masse ingenti di stranieri, il meccanismo mondialista degli affari sembra continuare allegramente a prosperare senza limiti, sempre più agevolato da una crescita robusta e sostenuta del meccanismo speculativo capitalistico-finanziario.

Una crescita così falsa, orrendamente speculativa e anarchica da causare le pesanti crisi economiche che hanno investito le nazioni europee negli ultimi anni.

Altresì, si deve mettere in evidenza anche lo scandalo di come le risorse agricole e alimentari delle popolazioni del terzo/quarto mondo vengano costantemente manipolate e sottoposte alla perversa logica dell’esasperato profitto capitalista, il tutto ad opera di una raffinata e potente consorteria di Oligarchie affaristiche transnazionali che le controllano a livello globale.

In questo drammatico scenario, la produzione e la commercializzazione mondiale degli alimenti, la stessa organizzazione della vita agricola, appare più che evidente che non siano più vincolate alla naturale applicazione dei dettami relativi alla perseguimento del bene comune e alla sopravvivenza dei popoli e delle nazioni, ma invece alla più cruda logica dell’accumulo di un sempre maggiore profitto capitalista.

Secondo recenti e più che note statistiche prodotte dall’organismo della FAO, solamente poche grandi Holdingsmondialiste controllano e manipolano la maggior parte della distribuzione mondiale degli alimenti primari, accentuando in questa maniera quei feroci processi speculativi che sono tra le principali cause della fame che si sta estendendo in tutto il pianeta. Insomma delle autentiche piovre transnazionali dell’alimentazione, che capeggiano mondialmente la commercializzazione degli alimenti e che, oltre a controllare la distribuzione e le fonti di produzione dei prodotti, possiedono anche tutti i diritti, su scala mondiale, sulle semenze e sulle materie agricole.

Dietro questa favolosa e redditizia speculazione, attuata con la rapina indiscriminata delle risorse essenziali per la sopravvivenza alimentare dei popoli, si trovano inoltre i principali organismi bancari e finanziari di Wall Street, che da sempre svolgono un ruolo determinante nella speculazione nei mercati agricoli.

In questo fronte dell’affarismo agro-alimentare e finanziario – causa diretta della crisi economica, della fame e dell’inflazione mondiale – si trovano in prima linea le tristemente note Goldman Sachs e la Morgan Stanley, ovvero i “gioielli di famiglia” della più grande speculazione finanziaria istituzionalizzata del Capitalismo mondialista, con appunto sede in Wall Street.

Non a caso la maggior parte delle manifestazioni del Capitalismo finanziario si sono imposte su scala planetaria proprio in contesti di totale e assoluta deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati, innescando processi di feroce ed indiscriminata macelleria sociale, che vanno a giustificare, nella strategia plutocratica, l’ingresso sempre più libero e sostenuto di masse ingenti di immigrati da innestare pesantemente in un prossimo mercato schiavistico del lavoro orientato al ribasso e, soprattutto, lesivo della dignità e dei diritti dei lavoratori europei.
Capitalismo di rapina, politiche liberiste e libertarie e immigrazione selvaggia vanno di pari passo, sono compartecipi della medesima strategia mondialista, sono manifestazioni partorite dallo stesso ventre.

Contrastare allora l’invasione immigratoria per salvaguardare la sostanza più intima del nostro popolo e la sua possibilità di trasmissione, altresì combattere senza tregua le innumerevoli ingiustizie prodotte dal perverso meccanismo capitalistico-finanziario, la cui insaziabile e ripugnante ingordigia sostiene coscientemente l’alluvione allogena, sollecitandola a sfondare le fragili frontiere dell’Europa.

Notiamo anche che, nonostante le recenti e note difficoltà di natura economica, l’unificazione del pianeta all’insegna del progresso mondialistico-tecnocratico e dello smisurato sviluppo economico e finanziario — ovvero i valori fondanti e costitutivi dell’Occidente mercantilistico e plutocratico — non è mai stata così avanzata.

Nell’opinione dei suoi fanatici “apostoli”, l’obbiettivo della progressiva affermazione su scala globale della società multirazziale dovrà favorire l’omologazione planetaria, ovvero la diffusione planetaria di modelli di consumo e di sfruttamento sempre più omogenei che, rappresentando uno dei presupposti principali per lo sviluppo del libero mercato globale, avvieranno di conseguenza il processo di creazione di una nuova configurazione sociale fondata sulla distruzione di ogni senso di appartenenza e sulla disintegrazione del legame, ancora oggi nonostante tutto esistente, tra popolo e Storia, cultura e territorio, Nazione e destino.

Infatti, diversamente dalla organica visione identitaria, la visione “cataclismica” promossa dal cosmopolitismo multietnico potrà soltanto  produrre l’incubo di irreali megalopoli mondialiste, democraticamente emancipate, dove, solamente in astratta teoria, tutti gli uomini troverebbero il loro posto e delle quali ciascuno sarebbe un libero, indifferenziato e apolide cittadino.

Purtroppo, siamo consapevoli che le cose andrebbero differentemente, le smisurate megalopoli cosmopolite e mondialiste, espanse a livello planetario, che essi farneticamente continuano a paventare sarebbero invece terribilmente difformi, poiché vi regnerebbero incontrastate l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento sistematico delle risorse umane, una violenza diffusa e radicata e l’odio tra entità etniche differenti e ostili tra loro, costrette però a dover coabitare e a sopravvivere all’interno dello stesso spazio, semmai attraverso forme di segregazione razziale.

Quindi, il rischio dell’annientamento puro e semplice dell’umanità sarebbe più forte che mai.

Pertanto, il porsi in termini conflittuali sul tema drammatico dell’immigrazione e su tutto ciò che ne conseguirebbe altro non significherebbe che reinserire il nodo centrale del riconoscimento del diritto-dovere all’appartenenza nazionale, culturale, spirituale e popolare nel cuore stesso del conflitto politico riaffermando — attraverso l’adozione decisa e severa di una specifica Visione politico-spirituale identitaria, nazionalpopolare e comunitaria, l’unica strada percorribile per uscire dal deserto dell’attuale società liberale indifferenziata — l’intima forma della nostra preziosa e speculare identità sociale, popolare e spirituale, opponendosi così al Cosmopolitismo apolide e oligarchico che vorrebbe piegare i popoli europei alla fatale logica del melting-pot e delle cosiddette nuove cittadinanze e restituendo al nostro popolo il senso e il significato di una comune e speciale Origine radicata in una memoria arcaica e ancestrale.

Solamente una tale e ricca Visione del mondo e della vita potrà farsi garante e promotrice della salute e dell’integrità di una Comunità nazionale e popolare definita esclusivamente sulla base dello Ius Sanguinis, ovvero nel riconoscimento del criterio di una specifica vicinanza bio-psichica, fisiologica e spirituale dei suoi appartenenti.

L’unico criterio possibile.
Una Comunità organica di popolo composta da uomini e donne aventi origini etniche, culturali, tradizioni e aspirazioni condivise, che sia in grado di dare un superiore significato al senso di appartenenza e assurgere appieno nel ruolo di promotrice di processi innovatori capaci di incidere in profondità nel tessuto sociale e di rivoluzionarne il contesto, rendendosi così di nuovo protagonista delle grandi trasformazioni collettive e soprattutto fulcro per la proiezione di un progetto comune capace di mobilitare la totalità del popolo contro le derive della globalizzazione cosmopolita.

Soprattutto, evitando con tutte le nostre forze di ricadere nel gravissimo peccato di omissione che era stato puntualmente denunciato nel secolo passato dallo scrittore nazionalpopolare Adolf Bartels: “Sulla terra c’è una colpa antichissima e sempre nuova, non restare fedeli al proprio popolo, non restare fedeli a se stessi.”

Se è vero che il criminale processo globalizzatore vuole tracimare le consistenze identitarie attraverso l’utilizzo demagogico di richiami a vaghi e indistinti diritti umanitari alla cittadinanza da attribuire indistintamente e indiscriminatamente a chiunque – cioè, alla fin fine, a tutti coloro che più o meno lecitamente, ma sempre più spesso illegalmente, penetrano nella nostra Nazione rivendicando anche arrogantemente il “diritto” a rimanerci in pianta stabile – risulta altrettanto evidente che questa parodia, ipocritamente umanitaria, offende e minaccia seriamente la nostra intelligenza, la nostra stessa sostanza popolare, la nostra possibilità di progresso sociale in senso anti-plutocratico, le nostre radici più intime, la nostra stessa forma identitaria, la nostra specifica forma di vita con tutti i nessi di ordine superiore che la ordinano; mettendo così a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza culturale, spirituale ed etnica.

La sopravvivenza nel tempo del nostro popolo, della nostra Nazione, della nostra Europa. Nostra, non loro!

Giungendo a modificare quel “paesaggio” che per secoli ha visto le nostre genti protagoniste e artefici di un comune destino, insomma tutti quei caratteri che da sempre ci mantengono e ci conservano, nonostante tutto quello che sta accadendo, ancora come un Popolo, dando così forma compiuta e sostanza reale all’identità culturale, sociale ed etnica della nostra Nazione.

L’affermazione del valore specifico e fondante di questa radicata Comunità nazionale e popolare dovrà tornare ad essere la bandiera di mobilitazione per una vittoriosa lotta di liberazione nazionale, sociale e identitaria dei popoli europei.

Una lotta per la difesa e l’affermazione del nostro Popolo e della nostra Nazione, un atto di profondo e generoso amore per la nostra terra, per i nostri antenati, per la nostra Stirpe e per i fiumi di sangue che nei secoli sono stati versati per conservarla e per difenderla.

Maurizio Rossi


Meccanica quantistica - "Sette brevi lezioni di fisica" di Carlo Rovelli - Recensione



I due pilastri della fisica del Novecento, la relatività generale e la
meccanica quantistica, non potrebbero essere più diversi.

Entrambe le teorie ci insegnano che la struttura fine della natura è
più sottile di quanto ci appaia. Ma la relatività generale è una gemma
compatta: concepita da una sola mente, quella di Albert Einstein, è
una visione semplice e coerente di gravità, spazio e tempo. La
meccanica quantistica, o « teoria dei quanti », al contrario, ha
ottenuto un successo sperimentale che non ha eguali e ha portato
applicazioni che hanno cambiato la nostra vita quotidiana (il computer
su cui sto scrivendo, per esempio), ma a un secolo dalla sua nascita
resta ancora avvolta in uno strano profumo di incomprensibilità e di
mistero.

Si usa dire che la meccanica quantistica nasca esattamente nell’anno
1900, quasi ad aprire il secolo di intenso pensiero. Il fisico
tedescoMax Planck calcola il campo elettrico in equilibrio all’interno
di una scatola calda. Per farlo usa un trucco: immagina che l’energia
del campo sia distribuita in « quanti », cioè in pacchetti, grumi di
energia. La procedura porta a un risultato che riproduce perfettamente
quanto si misura (e dunque deve essere in qualche modo corretta), ma
stride con tutto ciò che si sapeva al tempo, perché l’energia era
considerata qualcosa che varia in maniera continua, e non c’era
ragione per trattarla come fosse fatta di mattoncini.

Per Max Planck, trattare l’energia come fosse fatta di pacchetti
finiti era stato uno strano trucco di calcolo, di cui Planck stesso
non capiva la ragione dell’efficacia. È Albert Einstein, ancora lui,
cinque anni dopo, a comprendere che i « pacchetti di energia » sono
reali.

Einstein mostra che la luce è fatta di pacchetti: particelle di luce.
Oggi li chiamiamo « fotoni ». Nell’introduzione del lavoro scrive: «
Mi sembra che le osservazioni associate alla fluorescenza, alla
produzione di raggi catodici, alla radiazione elettromagnetica che
emerge da una scatola, e altri simili fenomeni connessi con
l’emissione e la trasformazione della luce, siano meglio comprensibili
se si assume che l’energia della luce sia distribuita nello spazio in
maniera discontinua. Qui considero l’ipotesi che l’energia di un
raggio di luce non sia distribuita in maniera continua nello spazio,
ma consista invece in un numero finito di “quanti di energia” che sono
localizzati in punti dello spazio, si muovono senza dividersi, e sono
prodotti e assorbiti come unità singole ».

Queste righe, semplici e chiare, sono il vero atto di nascita della
teoria dei quanti. Si noti il meraviglioso « Mi sembra… » iniziale,
che ricorda l’« Io penso… » con cui Darwin introduce nei suoi taccuini
la grande idea che le specie evolvono, o l’« esitazione » di cui parla
Faraday quando nel suo libro introduce la rivoluzionaria idea di campo
elettrico. Il genio esita.

Il lavoro di Einstein viene inizialmente trattato dai colleghi come la
sciocchezza giovanile di un ragazzo brillante. Poi sarà per questo
lavoro che Einstein otterrà il Nobel. Se Planck è padre della teoria,
è Einstein il genitore che l’ha fatta crescere.

Ma come tutti i figli, la teoria è poi andata per conto suo e Einstein
non l’ha più riconosciuta. Durante gli anni Dieci e Venti del
Novecento, è il danese Niels Bohr che ne guida lo sviluppo. È lui a
capire che anche l’energia degli elettroni negli atomi può assumere
solo certi valori « quantizzati », come l’energia della luce, e
soprattutto che gli elettroni possono solo « saltare » fra l’una e
l’altra delle orbite atomiche con energie permesse, emettendo o
assorbendo un fotone quando saltano. Sono i famosi « salti quantici ».
È nel suo istituto, a Copenaghen, che si raccolgono le giovani menti
più brillanti del secolo, per cercare di mettere ordine in questi
incomprensibili comportamenti del mondo atomico e costruirne una
teoria coerente.

Nel 1925 appaiono finalmente le equazioni della teoria, che
rimpiazzano l’intera meccanica di Newton. È difficile immaginare un
trionfo maggiore. D’un tratto, tutto torna, e si riesce a calcolare
tutto. Solo un esempio: ricordate la tavola periodica degli elementi,
quella di Mendeleev, che elenca tutte le possibili sostanze elementari
di cui è fatto l’universo, dall’Idrogeno all’Uranio, e stava appesa in
tante aule di scuola? Come mai sono proprio quelli elencati lì, gli
elementi, e come mai la tavola periodica ha proprio questa struttura,
con quei periodi, e gli elementi hanno proprio quelle proprietà? La
risposta è che ogni elemento è una soluzione dell’equazione base della
meccanica quantistica. L’intera chimica emerge da questa singola
equazione.

A scrivere per primo le equazioni della nuova teoria sarà un
giovanissimo genio tedesco: Werner Heisenberg, basandosi su idee da
capogiro.

Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistano
solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con
qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo, con una probabilità
calcolabile, quando sbattono contro qualcosa d’altro. I « salti
quantici » da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere
reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione all’altra.
Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un
luogo.

È come se Dio non avesse disegnato la realtà con una linea pesante, ma
si fosse limitato a un tratteggio lieve.

Nella meccanica quantistica nessun oggetto ha una posizione definita,
se non quando incoccia contro qualcos’altro. Per descriverlo a metà
volo fra un’interazione e l’altra, si usa un’astratta funzione
matematica che non vive nello spazio reale, bensì in astratti spazi
matematici.

Ma c’è di peggio: questi salti con cui ogni oggetto passa da
un’interazione all’altra non avvengono in modo prevedibile, ma
largamente a caso. Non è possibile prevedere dove un elettrone
comparirà di nuovo, ma solo calcolare la probabilità che appaia qui o
lì. La probabilità fa capolino nel cuore della fisica, là dove
sembrava tutto fosse regolato da leggi precise, univoche e
inderogabili.

Vi sembra assurdo? Sembrava assurdo anche ad Einstein. Da un lato,
proponeva Werner Heisenberg per il Nobel, riconoscendo che aveva
capito qualcosa di fondamentale del mondo, ma dall’altro non perdeva
occasione per brontolare che però così non si capiva niente.

I giovani leoni della banda di Copenaghen erano costernati: ma come,
proprio Einstein? Il loro padre spirituale, l’uomo che aveva avuto il
coraggio di pensare l’impensabile, ora si tirava indietro e aveva
paura di questo nuovo balzo verso l’ignoto, che lui stesso aveva
innescato? Proprio Einstein, che ci aveva insegnato che il tempo non è
universale e lo spazio si incurva, proprio lui ora diceva che il mondo
non può essere così strano?

Niels Bohr, pazientemente, spiegava ad Einstein le nuove idee.
Einstein obiettava. Immaginava esperimenti mentali per mostrare che le
nuove idee erano contraddittorie: « Immaginiamo una scatola piena di
luce, da cui lasciamo uscire per un breve istante un solo fotone… »
così iniziava uno dei suoi famosi esempi, l’esperimento mentale della
« scatola di luce ». Bohr alla fine riusciva sempre a trovare la
risposta, a respingere le obiezioni. Il dialogo è continuato per anni,
passando per conferenze, lettere, articoli… Nel corso dello scambio,
entrambi i grandi uomini hanno dovuto arretrare, cambiare idea.
Einstein ha dovuto riconoscere che effettivamente non c’era
contraddizione nelle nuove idee. Bohr ha dovuto riconoscere che le
cose non erano così semplici e chiare come pensava all’inizio.
Einstein non voleva cedere sul punto per lui chiave: che esistesse una
realtà oggettiva indipendente da chi interagisce con chi.

Bohr non voleva cedere sulla validità del modo profondamente nuovo in
cui il reale era concettualizzato dalla nuova teoria. Alla fine,
Einstein accetta che la teoria è un gigantesco passo avanti nella
comprensione del mondo, ma resta convinto che le cose non possono
essere così strane, e che « dietro » ci dev’essere una spiegazione più
ragionevole.

È passato un secolo, e siamo allo stesso punto. Le equazioni della
meccanica quantistica e le loro conseguenze vengono usate
quotidianamente da fisici, ingegneri, chimici e biologi, nei campi più
svariati. Sono utilissime per tutta la tecnologia contemporanea. Non
ci sarebbero i transistor senza la meccanica quantistica. Eppure
restano misteriose: non descrivono cosa succede a un sistema fisico,
ma solo come un sistema fisico viene percepito da un altro sistema
fisico. Che significa? Significa che la realtà essenziale di un
sistema è indescrivibile? Significa solo che manca un pezzo alla
storia? O significa, come a me sembra, che dobbiamo accettare l’idea
che la realtà sia solo interazione?

La nostra conoscenza cresce, e cresce davvero. Ci permette di fare
cose nuove che prima non immaginavamo nemmeno. Ma nel crescere ci apre
nuove domande. Nuovi misteri. Chi usa le equazioni della teoria in
laboratorio spesso non se ne occupa, ma articoli e convegni di fisici
e di filosofi continuano a interrogarsi, anzi sono più numerosi negli
ultimi anni. Che cos’è la teoria dei quanti a un secolo dalla sua
nascita? Uno straordinario tuffo profondo nella natura della realtà?
Un abbaglio, che funziona per caso? Un pezzo incompleto di un puzzle?
O un indizio di qualcosa di profondo che riguarda la struttura del
mondo e che non abbiamo ancora ben digerito?

Quando Einstein muore, Bohr, il suo grandissimo rivale, ha parole di
commovente ammirazione. Quando pochi anni dopo muore Bohr, qualcuno
prende una fotografia della lavagna nel suo studio: c’è un disegno.
Rappresenta la « scatola piena di luce » dell’esperimento mentale di
Einstein. Fino all’ultimo, la voglia di confrontarsi e capire di più.
Fino all’ultimo, il dubbio.

Da: Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, 2014

(Fonte: http://zeninthecity.org/)