I due pilastri della fisica del Novecento, la relatività generale e la
meccanica quantistica, non potrebbero essere più diversi.
Entrambe le teorie ci insegnano che la struttura fine della natura è
più sottile di quanto ci appaia. Ma la relatività generale è una gemma
compatta: concepita da una sola mente, quella di Albert Einstein, è
una visione semplice e coerente di gravità, spazio e tempo. La
meccanica quantistica, o « teoria dei quanti », al contrario, ha
ottenuto un successo sperimentale che non ha eguali e ha portato
applicazioni che hanno cambiato la nostra vita quotidiana (il computer
su cui sto scrivendo, per esempio), ma a un secolo dalla sua nascita
resta ancora avvolta in uno strano profumo di incomprensibilità e di
mistero.
Si usa dire che la meccanica quantistica nasca esattamente nell’anno
1900, quasi ad aprire il secolo di intenso pensiero. Il fisico
tedescoMax Planck calcola il campo elettrico in equilibrio all’interno
di una scatola calda. Per farlo usa un trucco: immagina che l’energia
del campo sia distribuita in « quanti », cioè in pacchetti, grumi di
energia. La procedura porta a un risultato che riproduce perfettamente
quanto si misura (e dunque deve essere in qualche modo corretta), ma
stride con tutto ciò che si sapeva al tempo, perché l’energia era
considerata qualcosa che varia in maniera continua, e non c’era
ragione per trattarla come fosse fatta di mattoncini.
Per Max Planck, trattare l’energia come fosse fatta di pacchetti
finiti era stato uno strano trucco di calcolo, di cui Planck stesso
non capiva la ragione dell’efficacia. È Albert Einstein, ancora lui,
cinque anni dopo, a comprendere che i « pacchetti di energia » sono
reali.
Einstein mostra che la luce è fatta di pacchetti: particelle di luce.
Oggi li chiamiamo « fotoni ». Nell’introduzione del lavoro scrive: «
Mi sembra che le osservazioni associate alla fluorescenza, alla
produzione di raggi catodici, alla radiazione elettromagnetica che
emerge da una scatola, e altri simili fenomeni connessi con
l’emissione e la trasformazione della luce, siano meglio comprensibili
se si assume che l’energia della luce sia distribuita nello spazio in
maniera discontinua. Qui considero l’ipotesi che l’energia di un
raggio di luce non sia distribuita in maniera continua nello spazio,
ma consista invece in un numero finito di “quanti di energia” che sono
localizzati in punti dello spazio, si muovono senza dividersi, e sono
prodotti e assorbiti come unità singole ».
Queste righe, semplici e chiare, sono il vero atto di nascita della
teoria dei quanti. Si noti il meraviglioso « Mi sembra… » iniziale,
che ricorda l’« Io penso… » con cui Darwin introduce nei suoi taccuini
la grande idea che le specie evolvono, o l’« esitazione » di cui parla
Faraday quando nel suo libro introduce la rivoluzionaria idea di campo
elettrico. Il genio esita.
Il lavoro di Einstein viene inizialmente trattato dai colleghi come la
sciocchezza giovanile di un ragazzo brillante. Poi sarà per questo
lavoro che Einstein otterrà il Nobel. Se Planck è padre della teoria,
è Einstein il genitore che l’ha fatta crescere.
Ma come tutti i figli, la teoria è poi andata per conto suo e Einstein
non l’ha più riconosciuta. Durante gli anni Dieci e Venti del
Novecento, è il danese Niels Bohr che ne guida lo sviluppo. È lui a
capire che anche l’energia degli elettroni negli atomi può assumere
solo certi valori « quantizzati », come l’energia della luce, e
soprattutto che gli elettroni possono solo « saltare » fra l’una e
l’altra delle orbite atomiche con energie permesse, emettendo o
assorbendo un fotone quando saltano. Sono i famosi « salti quantici ».
È nel suo istituto, a Copenaghen, che si raccolgono le giovani menti
più brillanti del secolo, per cercare di mettere ordine in questi
incomprensibili comportamenti del mondo atomico e costruirne una
teoria coerente.
Nel 1925 appaiono finalmente le equazioni della teoria, che
rimpiazzano l’intera meccanica di Newton. È difficile immaginare un
trionfo maggiore. D’un tratto, tutto torna, e si riesce a calcolare
tutto. Solo un esempio: ricordate la tavola periodica degli elementi,
quella di Mendeleev, che elenca tutte le possibili sostanze elementari
di cui è fatto l’universo, dall’Idrogeno all’Uranio, e stava appesa in
tante aule di scuola? Come mai sono proprio quelli elencati lì, gli
elementi, e come mai la tavola periodica ha proprio questa struttura,
con quei periodi, e gli elementi hanno proprio quelle proprietà? La
risposta è che ogni elemento è una soluzione dell’equazione base della
meccanica quantistica. L’intera chimica emerge da questa singola
equazione.
A scrivere per primo le equazioni della nuova teoria sarà un
giovanissimo genio tedesco: Werner Heisenberg, basandosi su idee da
capogiro.
Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistano
solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con
qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo, con una probabilità
calcolabile, quando sbattono contro qualcosa d’altro. I « salti
quantici » da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere
reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione all’altra.
Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un
luogo.
È come se Dio non avesse disegnato la realtà con una linea pesante, ma
si fosse limitato a un tratteggio lieve.
Nella meccanica quantistica nessun oggetto ha una posizione definita,
se non quando incoccia contro qualcos’altro. Per descriverlo a metà
volo fra un’interazione e l’altra, si usa un’astratta funzione
matematica che non vive nello spazio reale, bensì in astratti spazi
matematici.
Ma c’è di peggio: questi salti con cui ogni oggetto passa da
un’interazione all’altra non avvengono in modo prevedibile, ma
largamente a caso. Non è possibile prevedere dove un elettrone
comparirà di nuovo, ma solo calcolare la probabilità che appaia qui o
lì. La probabilità fa capolino nel cuore della fisica, là dove
sembrava tutto fosse regolato da leggi precise, univoche e
inderogabili.
Vi sembra assurdo? Sembrava assurdo anche ad Einstein. Da un lato,
proponeva Werner Heisenberg per il Nobel, riconoscendo che aveva
capito qualcosa di fondamentale del mondo, ma dall’altro non perdeva
occasione per brontolare che però così non si capiva niente.
I giovani leoni della banda di Copenaghen erano costernati: ma come,
proprio Einstein? Il loro padre spirituale, l’uomo che aveva avuto il
coraggio di pensare l’impensabile, ora si tirava indietro e aveva
paura di questo nuovo balzo verso l’ignoto, che lui stesso aveva
innescato? Proprio Einstein, che ci aveva insegnato che il tempo non è
universale e lo spazio si incurva, proprio lui ora diceva che il mondo
non può essere così strano?
Niels Bohr, pazientemente, spiegava ad Einstein le nuove idee.
Einstein obiettava. Immaginava esperimenti mentali per mostrare che le
nuove idee erano contraddittorie: « Immaginiamo una scatola piena di
luce, da cui lasciamo uscire per un breve istante un solo fotone… »
così iniziava uno dei suoi famosi esempi, l’esperimento mentale della
« scatola di luce ». Bohr alla fine riusciva sempre a trovare la
risposta, a respingere le obiezioni. Il dialogo è continuato per anni,
passando per conferenze, lettere, articoli… Nel corso dello scambio,
entrambi i grandi uomini hanno dovuto arretrare, cambiare idea.
Einstein ha dovuto riconoscere che effettivamente non c’era
contraddizione nelle nuove idee. Bohr ha dovuto riconoscere che le
cose non erano così semplici e chiare come pensava all’inizio.
Einstein non voleva cedere sul punto per lui chiave: che esistesse una
realtà oggettiva indipendente da chi interagisce con chi.
Bohr non voleva cedere sulla validità del modo profondamente nuovo in
cui il reale era concettualizzato dalla nuova teoria. Alla fine,
Einstein accetta che la teoria è un gigantesco passo avanti nella
comprensione del mondo, ma resta convinto che le cose non possono
essere così strane, e che « dietro » ci dev’essere una spiegazione più
ragionevole.
È passato un secolo, e siamo allo stesso punto. Le equazioni della
meccanica quantistica e le loro conseguenze vengono usate
quotidianamente da fisici, ingegneri, chimici e biologi, nei campi più
svariati. Sono utilissime per tutta la tecnologia contemporanea. Non
ci sarebbero i transistor senza la meccanica quantistica. Eppure
restano misteriose: non descrivono cosa succede a un sistema fisico,
ma solo come un sistema fisico viene percepito da un altro sistema
fisico. Che significa? Significa che la realtà essenziale di un
sistema è indescrivibile? Significa solo che manca un pezzo alla
storia? O significa, come a me sembra, che dobbiamo accettare l’idea
che la realtà sia solo interazione?
La nostra conoscenza cresce, e cresce davvero. Ci permette di fare
cose nuove che prima non immaginavamo nemmeno. Ma nel crescere ci apre
nuove domande. Nuovi misteri. Chi usa le equazioni della teoria in
laboratorio spesso non se ne occupa, ma articoli e convegni di fisici
e di filosofi continuano a interrogarsi, anzi sono più numerosi negli
ultimi anni. Che cos’è la teoria dei quanti a un secolo dalla sua
nascita? Uno straordinario tuffo profondo nella natura della realtà?
Un abbaglio, che funziona per caso? Un pezzo incompleto di un puzzle?
O un indizio di qualcosa di profondo che riguarda la struttura del
mondo e che non abbiamo ancora ben digerito?
Quando Einstein muore, Bohr, il suo grandissimo rivale, ha parole di
commovente ammirazione. Quando pochi anni dopo muore Bohr, qualcuno
prende una fotografia della lavagna nel suo studio: c’è un disegno.
Rappresenta la « scatola piena di luce » dell’esperimento mentale di
Einstein. Fino all’ultimo, la voglia di confrontarsi e capire di più.
Fino all’ultimo, il dubbio.
Da: Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, 2014
(Fonte: http://zeninthecity.org/)
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