Magia: "la scienza dei magi"



Nell'antica Persia i Magi erano sacerdoti, saggi, dotti: custodi della
tradizione spirituale che però erano al tempo stesso maghi, nel senso
che la loro conoscenza dei misteri iniziatici li metteva in grado di
comunicare con diversi piani di realtà ordinariamente preclusi alla
percezione comune, e di operare a partire da essi.

Si trattava perciò di una scienza vera e propria, la "scienza dei magi"
di cui è stato tramandato da molti autori; essi conoscevano i
funzionamenti e le dinamiche sottese alla realtà visibile e sapevano
intervenire su di esse per ottenere i risultati desiderati sul nostro
piano di realtà. Ma non stiamo parlando di far apparire conigli
bianchi da un cilindro, bensì di operare sul reale in maniera ficcante
e determinante partendo dalle dinamiche che ne stanno a monte.
L'effetto finale di questa operazione è impostare tutta una serie di
cose o di eventi in base al loro archetipo, ossia un modello
preesistente ad un altro livello di realtà.

Il mago ne "guida" l'attuazione mediante una trasformazione
energetica, una riduzione vibratoria che convoglia l'archetipo sul
piano terreno rendendolo "reale" concretamente, con effetti
riscontrabili.

Dunque la nostra attuale parola "mago" è estremamente fuorviante,
perché ce ne si è fatti un'idea che corrisponde in realtà agli
illusionisti, o maghi da spettacolo o da burla che tristemente
conosciamo e che hanno contribuito a svilire la reputazione di quella
che è un'operazione potenzialmente nobile (anche se può essere usata
malamente) attuabile anche da chiunque si sia familiarizzato con le
dinamiche sottili, mediante l'immaginazione creativa (e tanto lavoro su
di sé)..

Simon Smeraldo

La "Grande Madre" ritorna...




Il risorgere delle tradizioni mistico-esoteriche della “Grande madre”, legate alle figure di Iside, Astarte, ecc., si lega alla storia di Tolomeo I Sotere (367.282 a.C.), luogotenente di Filippo II di macedonia e poi di Alessandro il Grande, che resta in Egitto come satrapo (governatore di una provincia).

Nel 305, assunse il titolo di Re d’Egitto sposando Berenice, figlia di Mugas, che accompagnò sempre Tolomeo nelle sue attività socio-politiche e anche nella assunzione del ruolo di Faraone. Berenice, nelle Olimpiadi del 284, vinse una gara di carri, dimostrando, come da tradizione, l’impegno della “donna-regina”, nelle attività sociali, politiche, rappresentative e creative della “sposa”.

Tolomeo I fu un grande organizzatore dimostrando le sue capacità nella costruzione del faro di Alessandria e, soprattutto, nella creazione della Biblioteca Alessandrina (inaugurata sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo) che supportò lo sviluppo delle scienze, della filosofia, delle scienze naturali e sociali, fin quando fu distrutta (nel 642 d.C.) a causa delle follie fondamentaliste ed anti-eretiche dei vescovi cristiani.

In tutto il periodo tolemaico, fu forte l’impegno mistico-filosofico guidato dalla propensione a dare valore alla figura della donna ed al femminino-sacro. Proprio a queste posizioni ideologico-filosofiche si deve il risorgere dei fondamenti delle antiche propensioni monoteistiche (verso il dio Aton) del faraone Akhenaton che, anche se emarginate dopo solo 17 anni di regno, rimasero vive nelle ceneri del sapere popolare.

Con Tolomeo, l’influenza culturale dell’Egitto si espanse in tutta la zona medio-orinetale fino alla Palestina ed anche alla zona mesopotamica di Babilonia.

Possiamo ricostruire questi saperi e le influenze politiche, ricordando i fondamenti che hanno retto per secoli influenze strutturali nell’ambito civile e religioso: il monoteismo di Akhenaton.


Prima di tutto, una grande libertà di scelte religiose che possiamo riferire ad un sincretismo culturale guidato tuttavia dalla concezione, sostenuta da Akhenaton, di un Dio, il Sole, che si offre come “… amore verso tutte le persone che ne abbiano bisogno”. I favori di Dio non sono legati alla partecipazione ad una particolare setta religiosa, ma al solo fatto che ogni uomo/donna è figlio di Dio e quindi posto nell’influenza della sua grazia.

Il potere della “Grande-Madre” (Signora del Cielo – Signora del potere del Cobra) ha in sé la forza del sapere sciamanico salvifico e divinatorio, espresso anche dalla “Sibille” e da tutte le ancelle-rappresentanti della Dea. Questo potere suscitava reazioni distruttive e disruptive nelle Gerarchie del monoteismo mosaico, paternalista e maschilista, che, proprio per paura di perdere i loro privilegi, diventano estremamente pericolose e una continua minaccia per la stabilità sociale e politica.

Il “popolo di Dio” non è chiamato alla assoluta osservanza della legge (legge mosaica) che, prima di tutto, mira a diffondere il proprio potere teologico-politico, attraverso l’imposizione di una “etica del potere” che è assolutamente perniciosa per la libertà, per la verità, per la giustizia, per il dispetto dei diritti del singolo, la creatività e la spinta vitale per la crescita e per il divenire civile

Non sono necessarie né una gerarchia, né la struttura di una rigida forma legislativa, che creano solo un feroce senso del peccato (… creato per sottomettere), proprio perché il potere di Dio è un potere salvifico, fondato sul perdono e non sulla creazione di un capo espiatorio.

Ogni persona, ogni soggetto, è chiamato a percepire l’Amore di Dio e non un suo feroce senso di condanna e di sete di riparazione della colpa: è Dio, con il suo amore incondizionato verso il suo popolo, a cancellare sempre e con magnanimità ogni colpa ed ogni riparazione.

Dio non ha bisogno di “servi” dominati dall’obbedienza e dalla paura del castigo, ma di “figli”che cercano l’amore e la grazia del Padre. Dio non chiede offerte, riti, sacrifici, preghiere perché nel suo “rapporto d’amore” è pura comprensione, pura generosità, pura tenerezza, pura …..

Dio è un “amore generoso” che dice “… andate e moltiplicatevi in amore ed in creatività, in sapere ed in partecipazione sussidiaria e generosa: è peccato solamente danneggiare un’altra persona, fare del male ad un bambino o ad una donna che sono “… la vera semente dell’amore di Dio”.

La “vera conversione” (cambiamento di prospettiva) riguarda la “capacità di giudizio”, inteso come pienezza di vita, piena realizzazione di sé nell’integrazione con l’Altro.

Il perdono di Dio si misura concretamente con la scelta di perdono fatta da ognuno in favore del vicino, del aprente, del viandante … di ogni altro reso sacro dal perdono stesso ricevuto da Dio.

Il peccato del mondo non è peccato verso Dio (che sempre perdona), ma è rifiuto della pienezza della vita che si misura solo nel rispetto dell’altro, del riconoscere il valore dell’altro e, soprattutto, della singolarità creativa e salvifica dello spirito del femminino sacro.

Nel popolo di Dio non c’è posto per le potenti istituzioni religiose e per gerarchie oppressive e dogmatiche, proprio perché ognuno può rivolgersi direttamente a Dio che, con il suo amore, è sempre disposto ad ascoltare e ad aiutare i suoi figli, indipendentemente dai loro errori e dalle loro colpe.

Dio non ama i figli e le persone per i loro meriti (che sono meriti del potere terreno e materiale), ma per la loro disposizione di amore, per la loro ricerca incessante di collaborazione, di sussidiarietà e di accettazione.

Dio non giudica, non crea leggi, non cerca sottomissioni o colpevolezze: dio è “sevizio”, comprensione e generosità.

Imperdonabili, per Dio, sono solo i comportamenti distruttivi e disruptivi che mirano a sottomettere e a creare dolore e sofferenza.

Dio è orientato verso il bene e la felicità degli uomini, verso la loro esistenza serena nell’amore della famiglia, del rapporto d’amore tra genitori e figli e non tiene conto dei peccati, che, per lui, sono sempre cancellati.

Inciampare e cadere non sono mai motivi per creare peccato e castigo, ma esperienze che portano a continue rinascite nell’amore di Dio.

Se la vita è orientata verso il bene degli altri, Dio gioisce per aver creato giustizia, benessere, felicità, crescita e una moltiplicazione del suo stesso amore: il perdono di Dio precede sempre la richiesta di perdono da parte dei suoi figli.

In questo si comprende come Dio sia luce che si espande. “Io sono la luce del mondo” – luce che è saggezza, consapevolezza, benedizione, sincero amore verso l’altro che è “… segno dell’accoglimento del suo Amore”.

La legge di Dio non ha bisogno di essere scritta, non è un codice di dottrine e precetti, bensì il dono interiore. La legge scritta è una legge umana che perciò è destinata a perire. La legge di Dio è impressa nel cuore dell’uomo, nel suo spirito e, proprio per questo, è eterna e rende eterno l’uomo “… racchiuso nello scrigno dell’amore di Dio”.

Dio non ha bisogno di suoi rappresentanti in terra con il compito di tradurre le sue volontà, perché queste Dio le trascrive nel cuore di ognuno dei suoi figli, nella “… verità della procreazione e della educazione dei figli nella verità”.



Invasione, masochismo e mutazione genetica

A volte ci si chiede come mai una parte della popolazione sia così tenacemente a favore dell’immigrazione da rasentare il masochismo. La risposta non può essere politica. Deve quindi includere la psicologia del profondo. Ricorrere in un certo senso alle categorie junghiane.
E’ stato detto che il socialismo è una derivazione atea delle religioni di matrice cristiano/giudaica. Tutte unificate da una mentalità monoteista e una fede messianica in un’utopia che si realizzerà con una grande rivoluzione. Rivoluzione dettata dall’odio verso la realtà in favore di un mondo “migliore” generato dalla mente.
La fine ingloriosa delle utopie socialiste ha significato il trionfo della realtà sul delirio messianico. FINE ANCORA PIU’ ACUTA SE SI CONSIDERA CHE I SINISTRI NON SONO MAI RIUSCITI NEPPURE A REALIZZARE DA SE STESSI DELLE COMUNITà SOCIALISTE IN GRADO DI VIVERE A LUNGO E SERVIRE DA ESEMPIO DI BENESSERE E GIUSTIZIA. La loro sete di vendetta è grande, contro se stessi e il mondo che ha tradito la rivoluzione. Odiano le loro stesse personalità che li trascinano verso le abitudini borghesi individualiste e edoniste e intendono scaricare il loro immenso livore contro tutto quello che ad esso somiglia.
Cioè se stessi, riflessi negli altri. La gente della loro stessa famiglia, stirpe, popolo. Che devono essere eliminate in quanto cose schifose e nemiche del paradiso immaginario perduto. Questi sinistrati sono affetti da una psicopatia di massa che in quanto tale non è riconducibile alla psicopatia individuale. Vogliono suicidarsi trascinando con sé il loro stesso popolo e nazione. Non si tratta di “brava gente” con cui dialogare in maniera positiva sulla base del solidarismo perché se anche gli mostri che l’immigrazione e la società multirazziale portano a tensioni laceranti non ottieni risposte razionali. Da uno psicotico non potrai averne. (Luigi)

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Articolo collegato: La mutazione genetica (seconda parte)
A volte può capitare, dopo aver cercato di essere in uno scritto, il più esauriente possibile, di accorgersi di aver lasciato indietro questioni importanti, e questo ha tanta maggiore facilità di accadere quanto più il tema che abbiamo affrontato è vasto e ricco di implicazioni, e questo è certamente il caso della “mutazione genetica”, della trasformazione di quella sinistra che fu, o pretese di essere, la paladina delle classi lavoratrici, nella più zelante servetta del capitalismo mondialista, così come è attualmente.
Io credo che occorra ritornare su due punti fondamentali che nell’articolo precedente non ho analizzato. Primo: i prodromi di quella che per la verità non è stata tanto una mutazione quanto un lungo processo di “evoluzione” o degenerazione, si trovano “in nuce” già in Marx? Secondo: come si spiega il fatto che in genere le classi popolari non abbiano percepito il tradimento compiuto ai loro danni e/o non si siano progressivamente allontanate da questa ideologia divenuta un boomerang ritortosi contro di loro, e dagli uomini e dai partiti che la incarnano?
Il primo punto può sembrare puramente teorico, ed è invece di importanza fondamentale, perché dovrebbe essere chiaro che se il pensiero di Marx conteneva già embrionalmente le aberrazioni che si sono poi storicamente manifestate, la pretesa di ritornare alle origini marxiste e “rifondare il comunismo” è inutile e ridicola.
Nell’articolo che precede questo, ho inserito una frase che può apparire strana: “arrivando addirittura con Marx, il maestro di tutti i cattivi maestri, a una specie di estremismo folle che implica una sorta di auto-creazione dell’uomo a partire dal dato economico”. Ora, che l’economia, il che significa le condizioni reali di esistenza, il soddisfacimento o la difficoltà a soddisfare i bisogni, nonché le relazioni sociali che esistono in conseguenza della distribuzione della ricchezza in una società, siano fondamentali, questo è qualcosa che nessuno potrebbe mettere sensatamente in dubbio, solo che Marx non intendeva semplicemente questo; cercava di persuaderci di qualcosa che è nello stesso tempo di più e di meno, difettando proprio sul terreno dell’analisi socio-economica, perché quelle che dovrebbero essere categorie economiche e sociali, nel suo pensiero diventano astrazioni metafisiche.
Vi invito a riflettere un attimo sulla celebre frase del rabbino di Treviri: “Non è la coscienza che crea l’essere, ma l’essere SOCIALE che crea la coscienza”. Senza la specificazione contenuta nella parola “sociale”, questa sarebbe una banalità condivisibile da chiunque non sia uno sfrenato idealista; persino Cartesio: “Cogito ergo sum”; se la coscienza precedesse l’essere, il fatto di pensare non dimostrerebbe che esistiamo.
Quel “sociale” messo come condizione primaria, esclude tutte le determinazioni di natura biologica, ereditaria e storica, risponde a un calcolo politico piuttosto contingente, l’esigenza di persuadere i lavoratori tedeschi di aver molte più cose in comune con i coolies cinesi o con gli schiavi neri delle piantagioni del sud degli Stati Uniti che non con i loro connazionali di estrazione borghese, ma, forse senza che lo stesso Marx se ne accorgesse, viene a significare molto di più.
Jean Jacques Rousseau è stato certamente non il meno importante fra i precursori di Marx, ed è stato forse il primo a introdurre nella cultura occidentale l’idea di una netta contrapposizione fra natura e cultura, fra innato e appreso, fra l’ambiente e quella che con un termine moderno possiamo chiamare eredità biologica; l’idea – banale – che ciò che chiamiamo cultura sia semplicemente un portato della natura umana, era troppo pericolosa per la sinistra, che doveva prendere le parti del valore esclusivo della cultura, dell’appreso, dell’ambiente. Altrimenti c’era il rischio di dover ammettere che le enormi differenze culturali esistenti, ad esempio fra il mondo europeo e quello dell’Africa al disotto del Sahara, riflettesse una differenza di natura, di dover dare ragione ai teorici della razza.
Marx probabilmente non ne fu mai consapevole, ma questa contrapposizione fra natura e cultura che caratterizza il pensiero di sinistra, in definitiva è un ricalco della contrapposizione tra materia e spirito tipica del cristianesimo e, basandosi su queste premesse, il marxismo stesso non è che una versione aggiornata e laicizzata del “bolscevismo dell’antichità”.
Tutto ciò non rimane nel dominio delle idee astratte ma ha precise conseguenze pratiche. Poiché nel pensiero di Marx “borghesia” e “proletariato” in realtà sono categorie non socio-economiche ma metafisiche, ecco che la ricetta del “socialismo” marxista non prevede altro che il passaggio del potere politico e della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani del “proletariato” la cui “avanguardia” che ovviamente non può essere altro che un’élite ristretta, diventa una nuova, feroce autocrazia che non tollera alcun potere, alcuna autonomia, alcuna libertà al di fuori di se stessa. Per l’ideologia marxista, i membri della nomenklatura rimangono sempre “proletari” anche nel momento in cui si sono trasformati nei nuovi, sanguinari zar.
Si può certamente fare un parallelo con la Chiesa cattolica una volta arrivata al potere in seguito al tradimento di Costantino e alla distruzione dell’impero romano; persino nella terminologia: la nuova autocrazia ha continuato a chiamarsi “sovietica” dal nome dei soviet, i consigli popolari, così come l’autocrazia cristiana continuò a chiamarsi “ecclesia”, “assemblea” anche quando si fu trasformata in un’autorità piramidale. Anche su questo Marx aveva torto, la storia si ripete; la prima volta in tragedia, la seconda in una tragedia peggiore.
Nel momento, a partire dal momento in cui CI SI RIFIUTA DI VEDERE che gli stati “socialisti” sono delle autocrazie in cui tutto il potere economico e politico è nelle mani di una ristretta élite, è proprio l’analisi socio-economica a essere carente o del tutto abbandonata. Questo è un punto che gli avversari del marxismo, della sinistra, non hanno perlopiù messo in rilievo, accontentandosi di replicare a questa ideologia sulla base di postulati ideali e morali il più delle volte poco convincenti per la loro astrattezza. Bene, a mio parere il marxismo e la mentalità sinistrorsa vanno contestati e rifiutati non rimanendo a prima del 1848 (pubblicazione del “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels), ma essendo arrivati a dopo il 1991 (crollo dell’Unione Sovietica), sapendo bene che quest’ultimo è uno spartiacque cronologico di cui “i compagni” non si sono ancora accorti o che cercano di ignorare.
Noi adesso, credo, siamo in grado di rispondere anche al secondo dei due interrogativi che abbiamo visto. Se noi abbiamo compreso questo sfondo concettuale, allora anche spiegare come mai il fatto che la sinistra nel secolo che intercorre fra la cosiddetta rivoluzione d’ottobre e l’epoca presente si sia progressivamente allontanata dalla scelta a favore delle classi popolari, sia passato perlopiù inosservato, non appare misterioso. Il punto è che sia pure in maniera laicizzata, camuffata e distorta, il marxismo è una religione, o perlomeno funziona come tale agli occhi dei suoi adepti.
Classicamente, le religioni sono le datrici di valori morali, dicono ai loro seguaci cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa non lo è. Questo permette loro di sopperire all’assenza di prove di natura storica o filosofica, poiché la fede diventa una virtù, anzi la prima virtù, e gli scettici saranno portati a vedere i loro dubbi come qualcosa di riprovevole, peccaminoso o perlomeno evitare di esternarli per non essere giudicati persone immorali, è un trucco che si tramanda dalla notte dei tempi. Il marxismo funziona allo stesso modo: è l’ideologia a decidere dell’etica e anche della conoscenza, non il contrario.
Io direi che soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, dopo che il loro “paradiso” si è dimostrato un inferno da cui i popoli che l’hanno subito si sono liberati appena gliene è stata data l’occasione, che la sinistra e quel che rimane dell’ideologia marxista, hanno accentuato e spinto fino al grottesco il loro moralismo mal riposto.
Esiste, ed è un fenomeno ben noto alla psicologia, la tendenza a ridurre quanto più possibile la “dissonanza cognitiva”, ossia a modificare la percezione della realtà in modo da ridurre al minimo “lo scarto” fra le nostre convinzioni e i nostri comportamenti. Chi ha commesso un’azione riprovevole farà il possibile per convincersi di aver invece agito in maniera buona e giusta.
Sapientemente indirizzata, questa tendenza lo porterà ad avere una visione delle cose sempre più distorta. Ora pensiamo al fatto che per almeno un ventennio, dai primi anni ’70 alla fine degli anni ’80 la società italiana in particolare, ma un po’ tutta l’Europa, è stata percorsa da un’ondata di violenza DI SINISTRA diretta spesso e volentieri contro di noi. I nomi di Sergio Ramelli, di Mikis Mantakas, la strage di via Acca Larenzia, il rogo di Primavalle, penso siano cose che ricordiamo tutti, ma non occorre arrivare a gesti così sanguinari; l’insegnante che dà un voto ingiusto allo studente che ha osato contestare la versione della seconda guerra mondiale raccontata sul libro di testo, o magari mostrato segni di comprensibile noia l’ennesima volta che è costretto a vedere “La lista di Schindler”, si pone sulla stessa linea concettuale.
Per giustificare il loro comportamento, “i compagni” DEVONO vedere nei “fascisti” dei diavoli incarnati, senza nemmeno considerare il fatto che nessuno di noi, per ovvi motivi anagrafici, può essere ritenuto responsabile di cose che si suppone siano avvenute prima della nostra nascita, né tanto meno chiedersi come mai, a settant’anni di distanza dalla conclusione di quella che fu forse la più gigantesca e impari lotta della storia umana, vi siano ancora tante persone che si riconoscono in un’idea da allora emarginata e demonizzata.
Le “idee” della sinistra mi sembra siano il prodotto di un meccanismo di PURA NEGAZIONE. Poiché “i fascisti” ci tengono alla loro appartenenza nazionale come è giusto e legittimo che sia, allora bisogna spingersi nella direzione del cosmopolitismo più mondialista e masochista, ridurre gli Italiani a servitori dell’ultimo clandestino che metta piede sul loro territorio, essere i più zelanti esecutori del piano Kalergi.
A peggiorare le cose, c’è la sempre più accentuata convergenza fra sinistra e cattolicesimo; oggi non esistono più né Peppone né don Camillo, entrambi hanno lasciato il posto a un don Peppillo che sfoggia sia la tonsura sia i baffoni staliniani.
Un tratto comune a entrambi, è l’induzione del senso di colpa: colpa per il fatto di essere italiani, di essere europei, perché i nostri padri o nonni non avrebbero fatto abbastanza per impedire il supposto olocausto, e via dicendo. Anzi, potremmo dire che dopo il tramonto dei “paradisi socialisti” dell’Europa dell’est, dopo la conclamata dimostrazione che le loro idee sono capaci di generare solo oppressione e miseria, l’antifascismo e il masochismo etnico sono le sole frecce che rimangono nel loro arco.
Riguardo a ciò “i compagni” si trovano una volta di più in sintonia con una Chiesa che ormai di fronte alla crescente secolarizzazione e laicizzazione dell’Europa, ha riposto tutte le sue speranze di reclutare sia nuovi membri del clero sia nuovi fedeli nell’immigrazione e, sotto il pretesto di motivi caritatevoli, ha voltato del tutto le spalle alla nostra gente.
Masochismo etnico, che è la massima espressione della confluenza catto-marxista, i clandestini vanno aiutati e compatiti, e non importa quali sacrifici ciò comporti per la nostra gente, dato che questi parassiti ci portano solo violenza, stupri, criminalità, sporcizia, malattie e degrado, e dimenticando anche quel detto elementare che insegna che “la carità comincia a casa propria”.
Per instillarci un radicato senso di colpa nei confronti di coloro ai quali in realtà nulla dobbiamo, la falsificazione deve rimontare molto indietro, risalire alla nostra storia remota, quanto meno alle crociate, lette come espressione dello spirito aggressivo e rapace che costoro ci attribuiscono in quanto europei “bianchi”.
Si tratta, ovviamente, di un falso vergognoso. Costoro dimenticano o fanno finta di dimenticare che le crociate non furono altro, in ultima analisi che una momentanea controffensiva dell’Europa tra due secolari aggressioni islamiche contro il nostro continente, quella arabo-califfale e quella ottomana, che per secoli hanno minacciato e devastato le nostre terre, in più l’assillo costante della pirateria mussulmana che per quasi un millennio ha insidiato, saccheggiato, razziato, distrutto i nostri paesi costieri, reso pericolosi la navigazione e i commerci, rapito gli abitanti per venderli come schiavi sui mercati d’oriente. L’Europa ha definito, costruito, difeso la sua identità combattendo contro gli antenati di coloro che oggi accogliamo come “poveri migranti” e che ancora adesso, appena ne hanno l’occasione, ricambiano la nostra mal riposta solidarietà con la stessa protervia conquistatrice dei loro avi.
Vogliamo parlare del colonialismo che agli occhi dei buonisti di sinistra e di catto-sinistra è stato l’abominio degli abomini? Probabilmente ha fatto più bene che male all’Africa, se non altro perché ha imposto un lunghissimo periodo d’interruzione alle guerre tribali, oggi riprese impiegando i kalashnikov invece delle zagaglie, e spesso mascherate con pretesti ideologici scimmiottati dal mondo occidentale e che suonano francamente ridicoli, anche se si prendono per buoni in modo da celare quanto più possibile agli occhi dei buonisti democratici e sinistrorsi che infestano il mondo “occidentale” non africano la radicale differenza di mentalità tra “loro” e “noi”.
Parlare delle guerre tribali significa aprire uno spiraglio su di un argomento tabù, le causa PURAMENTE ENDOGENE della miseria e del sottosviluppo dell’Africa, con la forza lavoro e le energie sottratte alle attività produttive, le distruzioni materiali, i giovani la cui unica istruzione consiste nell’apprendere a maneggiare le armi, e via dicendo. Naturalmente a ciò vanno aggiunti il parassitismo e l’infinita corruzione delle classi dirigenti africane, e oggi la violenza illimitata dei fondamentalisti islamici, tanto per non farsi mancare nulla.
Il colonialismo aveva lasciato gli stati ex coloniali dotati di eccellenti infrastrutture, strade, città moderne, ospedali, scuole, eccellenti costituzioni e sistemi legislativi modellati sul meglio di quel che l’esperienza giuridica europea aveva da offrire, aveva formato nei limiti del possibile delle classi dirigenti indigene formatesi in scuole europee o di modello europeo. Tutto questo nel giro di pochi anni è rapidamente regredito come un giardino che, lasciato incolto, si ritrasforma in foresta. Il colonialismo aveva portato l’Africa dalla preistoria all’età moderna; oggi essa è ripiombata in una sorta di preistoria tecnologica in cui il belluino spirito nativo mai venuto meno si mescola stranamente ai ritrovati della nostra epoca, dalle armi da fuoco ai telefoni cellulari.
Sembra un infinito gioco di specchi deformanti: mentre la sinistra basa il suo antifascismo su una rappresentazione del fascismo e delle seconda guerra mondiale tratta di peso dalla cinematografia hollywoodiana a dispetto del fatto di aver considerato per decenni gli Stati Uniti “il nemico”, in modo analogo, i cattolici i paraocchi con cui guardano (e non vedono) il cosiddetto Terzo Mondo, li hanno presi di peso da uno dei più arrabbiati anticlericali della storia, Jean Jacques Rousseau, che è stato anche il creatore della leggenda (le si fa troppo onore a considerarla un mito) del “buon selvaggio”.
Nonostante le continue, evidenti prove del contrario, chi è extraoccidentale deve essere per forza “buono”, le colpe non possono essere che tutte di chi ha il torto di avere la pelle bianca.
Abbiamo visto clandestini finti profughi, evidentemente imbeccati, esibire cartelli con la scritta “siamo profughi dalle vostre guerre”. Quali guerre? Sono settant’anni che l’Italia non fa guerra a nessuno, e soprattutto se i membri di due tribù africane si ammazzano in una faida fratricida che dura da secoli, ci vuole davvero aver spinto la leggenda rousseauiana a un totale allontanamento dalla realtà, per vedere in ciò l’occulta responsabilità di ignari europei che con ciò non hanno nulla a che fare. Antifascismo e masochismo etnico, ODIO PER LA PROPRIA GENTE sono in concreto i due soli “argomenti” dei catto-sinistri.
Il grottesco di tutto ciò diventa quasi umoristico quando si viene a parlare di razzismo. Cosa c’è in fondo di più razzista del pensare che quel che si considera un delitto capitale, il razzismo appunto, sia possibile solo ai membri di una razza, quella bianca?
Il razzismo anti-bianco è una tragica realtà della quale in modo “democratico” e “politicamente corretto” si fa ogni sforzo per tenere all’oscuro l’opinione pubblica del cosiddetto mondo occidentale. Se ai tempi dell’apartheid eravamo dettagliatamente informati ogni volta che un nero veniva arrestato, oggi non un velo, ma una vera cappa di silenzio mediatico copre il lento genocidio dei bianchi sudafricani.
Razzisti, questi “poveri” finti rifugiati del Terzo mondo, lo sono anche fra loro; abbiamo già assistito a parecchi episodi di reciproca intolleranza fra gruppi etnici diversi, ma questa è ancora quasi una barzelletta; è ben difficile che riusciate a persuadere un nero subsahariano che un pigmeo è un essere umano come lui, per lui quest’ultimo è un animale, una preda che può essere cacciata; e infatti, nonostante tutti gli sforzi compiuti dagli Europei (i soliti cattivi secondo i catto-sinistri) durante il periodo coloniale, il cannibalismo non è mai scomparso dall’Africa.
La vergogna e il disprezzo per la propria gente, la masochistica auto-flagellazione sono l’ultimo argomento rimasto al bolscevismo marxista e del pari agli eredi del “bolscevismo dell’antichità”. Noi, al contrario, abbiamo l’orgoglio delle nostre origini, e consideriamo la nostra eredità un deposito da difendere e trasmettere a ogni costo, perché i nostri figli possano avere un futuro.
Fabio Calabrese

Quando il Ferragosto si chiamava "Festa del Grande Cocomero"



Siamo in periodo ferragostano, una volta si chiamava "Ferie di Augusto", poi la chiesa cristiana trasformò la festa in "Assunzione della Madonna in Cielo". I tempi cambiano ed il nome delle feste anche. Ma il periodo resta. Tra l'altro anche noi del Circolo vegetariano VV.TT. abbiamo voluto festeggiare a modo nostro e quando l'associazione aveva ancora sede a Calcata denominammo il Ferragosto "La Festa del Grande Cocomero". Certo siamo un po' matti e burloni...ricordo infatti che venivano torme di gitanti pensando di trovare la sagra dei cocomeri. Invece del cocomero nemmeno l'ombra, anzi obbligavamo i gitanti ad una faticosissima passeggiata nella valle del Treya, con  guado del fiume e ritorno. L'edizione del 1994 fu particolarmente seguita dalla stampa nazionale,  fra cui ho reperito due  lanci di agenzia dell'ADN Kronos, che seguono: 


(Paolo D'Arpini)    





Archivio . AdnAgenzia . 1994 . 08 . 08 CRONACA FERRAGOSTO: TORNA LA 'FESTA DEL GRANDE COCOMERO' A CALCATA Roma, 8 ago. (Adnkronos) - Ormai e' diventato un rito, che puntualmente si celebra a Ferragosto: e' la ''Festa del grande cocomero'' a Calcata, organizzata dai soci del Circolo Vegetariano VV.TT. Un appuntamento per tutti i ''cavernicoli'' che hanno scelto il piccolo centro alle porte della Capitale come rifugio dallo stress della metropoli. Sono stati loro a ristrutturare una grande spelonca che si trova nella Valle, a mezza strada sul sentiero dei ''Grotticelli'': qui viene organizzata la celebrazione pagana del Ferragosto, fra giardini pensili e verande di canne, tende variopinte e piccoli orti, sculture in tufo e vivai di piante grasse. ''Chissa' se anche quest'anno la Divinita' gentile giungera' a rinfrescare le gole degli assetati novizi'', si chiede Paolo D'Arpini, responsabile del Circolo VV.TT. Per saperlo, annuncia, basta partecipare alla Festa: si comincia sabato 13 agosto con un gioco di squadra a ruoli (l'appuntamento e' per le 9 del mattino in piazza Roma, davanti alla sede del Circolo). Il 14 agosto, alle 20, verra' proiettato un video sulla storia del Buddhismo; subito dopo, ai partecipanti verra' offerta una ''meditazione musicale'', con Sergio Cioin (Ditjiritu') e Gabriele Manganelli (Chitarra armonica). Ma il clou della manifestazione e' previsto per lunedi' 15 agosto: la mattinata iniziera' con la raccolta di arbusti secchi per il falo' e di erbe selvatiche per la minestra serale. ''Al tramonto -spiega ancora D'Arpini- dopo le abluzioni nelle fresche acque del Rio, ci sara' un concerto di musica arcaica con sassi, legni, fischietti di canna, rombi e foglie. Dopo il pasto frugale iniziera' l'attesa notturna del Grande Cocomero. Chissa' se verra'...''. A rallegrare la ''veglia notturna'' di Ferragosto ci penseranno i suonatori de ''La Jument de Michaux'' con la loro musica ''bucolica'', le danze attorno al fuoco e le frequenti sorsate di nettare rosso. Chiunque sia interessato, puo' prenotare telefonando allo 0761/587200. 

(Dis/As/Adnkronos) www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1994/08/08/Cronaca/FERRAGOSTO-TORNA-LA-FESTA-DEL-GRANDE-COCOMERO-A-CALCATA_104500.php

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Roma, 10 ago. (Adnkronos) - A seguito della tradizione decennale iniziata a Calcata dal circolo vegetariano anche quest'anno si ripete a Ferragosto la ''Festa del grande cocomero''.

Il nome dell'iniziativa, che rimanda ai personaggi di Linus, non deve trarre in inganno: la festa non e' una vana attesa del ''signore dei cocomeri'', che esaudisce i desideri di Linus e compagni, bensi' un inno al valore e al potere della natura. La festa, che inizia alle 17.00 del 15 agosto con una passeggiata nella valle del Treja per la ripulitura dei sentieri e la raccolta di legni, passando anche da un rinfrescante guado del fiume Treja, continuera' poi davanti ad un falo' acceso nella notte, nel Nuovo Anfiteatro della natura del circolo vegetariano di Calcata, dove verranno cucinate le erbe raccolte durante il percorso.

Nell'attesa del ''Grande Cocomero'' verranno recitati alcuni sonetti dal vivo e l'attesa verra' allietata dalla musica napoletana di Angela Marrone.

(Red/Pe/Adnkronos)

http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1996/08/10/Altro/FERRAGOSTO-A-CALCATA-SI-ATTENDE-IL-GRANDE-COCOMERO_205900.php

Uppaluri Gopala Krishnamurti, U.G. per gli amici…



Non c’è niente da fare” (U.G. Krishnamurti)

Anni addietro mi venne l’idea di scrivere le mie memorie sugli incontri da me fatti con donne e uomini di conoscenza, il testo l’avevo chiamato “incontri con i santi”. Certo alcuni di questi cosiddetti “santi” appaiono come  esseri umani un po’ anomali, e di difficile accettazione da parte delle masse di cercatori tradizionali… Una di queste “persone” particolari da me incontrate fu proprio Uppaluri Gopala Krisnamurti, completamente fuori dal coro…

La storia: 

Sto cercando di rimettere in sesto e riorganizzare la memoria che ho di Roma. Questo perché ritengo che -essendo nato e vissuto per lunghi anni in questa città- sia doveroso per me  fissarne le immagini. Non dispongo di alcun album fotografico, solo i miei ricordi ed ovviamente i ricordi che più facilmente vengono a galla son quelli che mi riportano in linea con la spiritualità laica…

Mi considero fortunato di aver potuto conoscere negli anni trascorsi alcuni dei maestri che oggi sono universalmente riconosciuti come Mahatma ovvero i  “grandi dello spirito”.   Di qualcuno ho già raccontato le sensazioni vissute durante l’incontro, come ad esempio  quella volta con il 16° Karmapa, di altri debbo ancora meditare sul significato ed il valore.  Oggi vorrei però raccontare un’importante “tete à tete” che  ebbi con un “personaggio” anomalo della conoscenza, un maestro -non maestro. Un saggio che rifiutava la saggezza come percorso  affermando che  “è la vita stessa che si prende cura di tutto, non c’è bisogno di interferire con l’intenzione di raggiungere la conoscenza, la conoscenza è la nostra vera natura e non può essere ottenuta attraverso processi mentali od una volontaria (ipoteticamente volontaria) ricerca…”. 

Insomma si trattava di un saggio che secondo i nostri canoni potremmo chiamare “nichilista”, ma anche  Buddha fu definito tale e tanti altri “conoscitori del Sé”  che oggi son rispettati come maestri dell’umanità….
L’incontro con questo “ribelle della saggezza”  avvenne chiaramente nel modo più banale possibile, nel tran tran di una normalissima giornata a Roma, una giornata tiepida d’autunno, com’è oggi, con il sole in cielo e  la città sbrilluccicante di specchi e vetrate riflettenti la luce.   Anche Uppaluri Gopala Krishnamuti (questo il nome canonico del “saggio”) rifulge ora nella mia mente come quel giorno di sole…..
   

Ecco,  U.G. (per gli amici)…

La mia sadhana (pratica spirituale) procedeva  retta, vivevo a Roma,  la mia vita leggera e scandita da molteplici esperienze. Nel corso del tempo avviai una sorta di comunione sincretica con  altri cercatori sul cammino, avevo frequentato e conosciuto tutti i gruppi che  operavano a quel tempo in città. Incontrai Baktivedanta Prabupada (il fondatore degli Hare Krishna), Raphael Lacquiniti (fondatore dell’Ashram Vidya),  Satyananda (discepolo di Ananda Moy Ma)  e diversi altri luminari dello spirito, oltre  a conoscere i vari devoti e seguaci di Maharishi Mahesh Yogi, Guru Maharaji, Bagawan Rajneesh, Ananda Marga, etc.  ed anche vari maestri anomali  e cultori di strane sette, come i  “rinomati” Bambini di Dio… etc.

Insomma facevo come Narada che andava da un ashram all’altro a cantare i nomi del Signore (nelle varie forme) confrontandosi con i devoti di diverse  religioni, demoni e dei. Ovviamente avevo notato come ognuno dei “religiosi” incontrati cercasse di tirare l’acqua al proprio mulino.  Quasi tutti  volevano convincermi del loro credo, alcuni arrivando  a dirmi che se non avessi accettato la loro fede era inutile che li frequentassi.  Mi restavano pochi amici laici, liberi e seriamente consapevoli dell’Unità dietro il nome la  forma, una di questi era Marisa Saetti, persona squisita che di tanto in tanto andavo a visitare nella  sua casa antica, vicino alla sede del Partito Radicale, in pieno centro storico di Roma.

Un giorno Marisa mi disse: “Sai viene a trovarmi un Jnani (uomo di conoscenza), che vive in Svizzera ma di tanto in tanto passa  da queste parti, si chiama Krishnamurti – ma non è quell’anti maestro dei teosofi-   è  Upalluri Gopala Krishnamurti, detto U.G.  uno che sta per conto suo, sarà qui a pranzo da me domani, perché non vieni anche tu a farci compagnia?”.

Accettai l’invito e l’indomani mi ritrovai sulla  grande terrazza, noi tre soli, Marisa, U.G. ed io, come ad un incontro fra persone  qualsiasi, magari un po’ borghesi.  Osservavo U.G. con la coda dell’occhio,  un uomo di mezza età che poteva  essere un impiegato di Bombay, vestito come un indiano occidentalizzato, pantaloni scuri, camicia bianca sbottonata sul collo e  mi pare anche una giacca.  Dopo le presentazioni alquanto formali ognuno pareva interessato agli affari suoi, io gironzolavo sulla terrazza, Marisa preparava il pranzo, U.G. se ne stava seduto in silenzio. 

Non volevo assolutamente affrontare alcun discorso spirituale   e perciò mi guardavo bene dall’attaccar bottone, ma con mia meraviglia mi avvidi che U.G. sembrava ancor meno di me interessato a chiacchierare, anzi non mi guardava nemmeno. Ad un certo momento notai persino che sparì all’interno della casa. Memore di come fossi stato importunato in passato da tutti quei “maestri” e discepoli incontrati, che volevano trasmettermi i loro sublimi messaggi, restai un po’ perplesso dall’atteggiamento di Uppaluri Gopala.

Nel frattempo Marisa annunciò che il pranzo era pronto, chiedo di lavarmi le mani e Marisa mi indica il bagno,  vi entro e mi accorgo che era già occupato da Uppaluri Gopala, mi sento un po’ in imbarazzo e faccio per uscire, vedo però che  lui resta immobile, come in catalessi… Non avevo suscitato in lui  alcuna reazione,  non stava facendo nulla di speciale, era lì in piedi che guardava fissamente la vasca da bagno…  a quel punto  ritorno verso il lavello e mi lavo le mani con noncuranza, nel frattempo anch’egli  sembrò uscire da quello  “stato di sconnessione”  e viene a sedersi a tavola. 

Pranzo molto inglese, non per il cibo -ottimo- cucinato da Marisa,  ma per l’aria distaccata di tutti noi che mangiavamo con sussiego scambiando solo parole necessarie, tipo “vuoi ancora? – qui c’è l’acqua, etc.”. Decisamente sembrava che U.G. non volesse  “convertirmi”  a nulla, la mia curiosità  verso quest’insolito maestro era stata risvegliata ma non “abbastanza”  da fargli qualsivoglia domanda “spirituale”. 

In fondo di fronte ad un Jnani (un saggio) cosa si può dire se non parole vuote per lui e fuorvianti per noi?   Solo anni dopo, leggendo la sua biografia mi accorsi che quello era esattamente ciò che aveva voluto comunicarmi: Sto parlando? Sto dicendo qualche cosa? E’ come l’ululato dello sciacallo, l’abbaiare di un cane o il raglio di un asino. Se riuscite a porre quello che dico allo stesso livello e sentire solo le vibrazioni  siete fuori dall’inganno e  non andrete mai più a sentire nessuno. Finito. Non si dovrebbe parlare di autorealizzazione. Voi realizzerete che non c’è la realizzazione, questo è tutto.  Non  esiste un centro, giusto c’è  la vita che sta lavorando in un modo straordinario…”. 

Paolo D'Arpini