la creazione di un Nuovo Ghetto psicologico a somiglianza dell’antico, cercato/accettato per le stesse ragioni, che si prolunga nella paranoica visione dell’«ingiusto assedio» degli eletti da parte di ogni popolo non-ebraico, in quella «psicosi del conflitto con gli arabi e col mondo intero, che ormai fa parte del nostro DNA» (lo scrittore A.B. Yehoshua).
Al pari dell’Unica Sofferenza, anche «this fear, this existential insecurity, is authentic and it sets Jews apart, questa paura, questa insicurezza esistenziale, è autentica e differenzia gli ebrei dagli altri popoli», l’ebreo ateo Michael Willig commenta a Joshua Halberstam. «La souffrance comme identité», così la «francese» Esther Benbassa titola il suo più recente saggio (Fayard, 2007). Ben s’addicono quindi a tale aspetto le considerazioni svolte, ovviamente per altro contesto, dallo storico «italiano» Roberto G. Salvadori (I): «Non mi pare ci siano dubbi: nell’età del ghetto la garanzia dell’identità ebraica sta nel forte legame con la religione avita. Il rituale riempie totalmente la vita della comunità e dei singoli,anche di quelli non credenti (ammesso e non concesso che, in quel periodo, ne esistano).
Ancora oggi, in una certa tradizione religiosa ebraica ortodossa l’età del ghetto viene vista, sì, come estremamente dolorosa, ma anche come contrassegnata da una grande purezza, per la quale si nutrono sentimenti di ammirazione e di nostalgia. Il ghetto è durato tanto a lungo e ha avuto una tale incidenza che si è interiorizzato. Da allora quasi ogni ebreo porta con sé la sua prigione».
Ritorna perciò la penetrante analisi di Pellicani (II) sulla miseria intellettuale / morale / caratteriale del marxismo: «Ma la malafede è diversa dal cinismo. Essa non consiste affatto nell’ingannare scientemente gli altri, bensì nell’ingannare se stessi. La malafede, prima di essere inganno, è autoinganno [...] La malafede, quindi, è una tecnica di rimozione, grazie alla quale il soggetto protegge ciò di cui ha bisogno per continuare a stimare se stesso e per eliminare quella che Leon Festlinger ha chiamato la “dissonanza cognitiva” [...] Non è azzardato quindi dire che dietro la malafede si può trovare un vero e proprio dramma esistenziale, che non si trasforma in tragedia precisamente perché grazie alla malafede il protagonista del dramma può coltivare certe “illusioni vitali” su di sé e sul mondo. Può accadere così che quando l’orrore di fronte alla vita e alla morte invade l’esistenza di un individuo, questi cerchi di bloccare con tutti i mezzi l’angoscia ontologica che lo assale e che, per fare ciò, sia anche disposto a trasformarsi in un produttore e/o un consumatore di illusioni. Queste diventano per lui l’unica àncora di salvezza: da esse dipendono la sua stabilità psichica e persino la sconfitta della tentazione di porre fine alla sua esistenza. Perciò deve proteggerle a tutti i costi e con tutti i mezzi».
«L’identità ebraica, in misura minore quella israeliana» – scrive poi specificamente Wolffsohn – «viene determinata essenzialmente dall’Olocausto presso tutti gli esseri umani nati dopo [il 1945], anche e soprattutto per gli ebrei nati dopo. In un mondo sempre più irreligioso il giudaismo non definisce più, per la maggioranza degli ebrei, l’identità ebraica; a coniare la loro identità è la storia, la storia dolorosa del loro popolo, soprattutto dell’Olocausto. Per rigiudaizzare attraverso la storia ebraica la propria identità religiosa degiudaizzata, essi devono addirittura aggrapparsi all’Olocausto [sie müssen sich an den Holocaust geradezu klammern]».
Concetto espresso anche da Leon Wieseltier (che riporta l’affermazione di un grande finanziatore del Simon Wiesenthal Center: «Israele, l’educazione giudaica e tutte le altre ben note parole d’ordine [ebraiche] non sembrano più funzionare per stimolare gli ebrei ad essere solidali fra loro. Funziona solo l’Olocausto»), dal goy Alessio Altichieri (che concorda con Cesare Segre sulla centralità, per l’ebraismo, del «senso di una storia comune di sofferenze») e da Jack Wertheimer, docente di Storia Ebraica allo Jewish Theological Seminary of America, per il quale «l’Olocausto conferisce forma tragica all’eroismo degli ebrei, che hanno pagato il prezzo più alto per mantenere il loro specifico modo di essere [the Holocaust dramatizes the heroism of Jews who paid the ultimate price for maintaining their distinctive ways]» e dal big boss Vittorio Dan Segre (IV), critico contro «quelle minoranze, spesso fanatiche, che per il mantenimento dell’identità ebraica curano la costante presenza di un nemico esterno».
Nulla quindi di che stupirsi dello squilibrato grido à la Matas, di Robert Wistrich, docente di Storia Ebraica all’Università di Gerusalemme, in chiusura della voce «Negazionismo» nel Dizionario dell’Olocausto:
«Dal punto di vista ebraico, la negazione dell’Olocausto è considerata come una forma particolarmente perversa di incitamento all’odio – come l’aspetto più aggiornato di giustificazione razionale dell’odio contro gli ebrei, a stento celato sotto la maschera della revisione storica. Non per nulla i negazionisti sono stati chiamati assassini della memoria, settari autori di una sorta di genocidio simbolico [sic] contro il popolo ebreo. Dietro questo attacco senza vergogna alla memoria degli ebrei, tuttavia, vi è una negazione ancora più grave delle premesse fondamentali di una società fondata sulla ragione, un appiattimento di tutti i valori e una distruzione della realtà storica».
Ancora più chiaro, intervistato dal confrère Errol Morris nel documentario Mr. Death – The Rise and Fall of Fred A. Leuchter Jr., “Mister Morte – Ascesa e caduta di Fred A. Leuchter Jr.” (il tecnico delle gasazioni giudiziarie americane, autore della prima perizia scientifica sulla chimica delle «camere a gas» di Auschwitz), presentato nel gennaio 1999 al Sundance Film Festival di Park City, Utah, lo sterminazionista van Pelt: «Se si dimostrasse che i revisionisti dell’Olocausto hanno ragione, perderemmo la percezione che abbiamo della Seconda Guerra Mondiale, perderemmo la percezione che abbiamo della democrazia. La Seconda Guerra Mondiale fu una guerra morale, una guerra tra il Bene e il Male. Se da questo quadro rimuovessimo il punto nodale della guerra, il nocciolo che risponde al nome diAuschwitz, allora ogni altra cosa ci diverrebbe incomprensibile. Finiremmo tutti in manicomio» (01:23:30, tempo in minuti, secondi e inquadratura).
Altrettanto quasi incredibile – due anni prima su Weltwoche 30 gennaio 1997 – il detto Avraham Burg: «Nehmen wir an, daß eines Tages Frieden herrscht; dann werden sich Juden und Israelis fragen müssen: Können wir als Juden ohne den Feind überleben? Können wir überleben ohne einen Hitler, der für uns definiert, wer wir sind?, Supponiamo che un giorno regni la pace; ebrei e israeliani dovranno chiedersi: Possiamo sopravvivere, come ebrei, senza il nemico? Possiamo sopravvivere senza un Hitler che definisca, per noi, chi noi siamo?».
«L’idea di “popolo eletto”, che in apparenza è perentoria» – scrive l’«italico» ex sessantottino Stefano Levi Della Torre – «invece è tremula e costitutivamente senza fondamento [...] Martin Buber ha osservato che gli ebrei sono il gruppo umano a cui è richiesto più insistentemente di definirsi e di giustificare la propria esistenza. È una richiesta che però non viene solo dall’esterno, ma anche dall’interno (io stesso sto cercando di rispondere a una tale domanda). È curioso che una delle identità collettive più antiche abbia una zona indefinibile nel suo centro. Questo punto indecifrabile si potrebbe forse riassumere così: un cuore antico che si fonda sul futuro. Dalla Torah scritta e orale si potrebbe dedurre che gli ebrei più che un popolo sono la promessa di un popolo
[...] L’”elezione” è dunque “necessaria” in quanto implica una missione universale; e il sentirsi necessari, e perciò insostituibili ed esclusivi, è un fattore potente dell’ostinazione a vivere e durare».
Come «apartness was the price of uniqueness, la separatezza fu il prezzo dell’unicità» (Rabbi W. Gunther Plaut) e come «la sofferenza è dunque la chiave del necessario bipolarismo che ha permesso a Israele di scoprire la propria identità e di disidentificarsi dall’Egitto» (Rabbi Adin Steinsaltz) e cioè da tutti portatori del Male (il più grande e recente dei quali è stato il «nazismo»), così l’Unicità viene oggi conferita dalla Sofferenza Somma, dall’Evento Imparagonabile: «Unique suffering confers unique entitlement, Una sofferenza unica conferisce una facoltà e un diritto unici [...]
Non la sofferenza degli ebrei, ma il fatto che ebrei soffrirono è ciò che rese unico l’Olocausto.
Detto altrimenti: l’Olocausto è speciale perché gli ebrei sono speciali» (Finkelstein), per cui la pretesa all’Unicità Olocaustica non è che «a distasteful secular version of chosenness, una sgradevole versione secolarizzata dell’elezione» (il detto Schorsch, presidente dello Jewish Theological Seminary). «Togliere il privilegio [sic] della maledizione» – completa il top-giornalista «francese» Jean Daniel né Bensaïd, 61 ricalcando il concetto di «orgoglio dello sterminio» giustamente fustigato dal revisionista omeopatico Ernst Nolte (II) – «significa anche togliere quello dell’elezione».
Integrationsfunktion, «funzione integrativa», definisce Wolffsohn tale maggiore e conclusiva valenza, quella stessa che ha fatto notare nel Seicento a Baruch Spinoza come sia stato proprio l’odio delle genti ciò che ha impedito il dissolvimento degli ebrei nella diaspora, quella stessa che ha fatto apprezzare nel 1895 a Theodor Herzl il senso educativo dell’«antisemitismo», fenomeno funzionale alla fortificazione del gruppo ebraico e non viatico alla sua dissoluzione: «Io lo considero un movimento utile per il carattere degli ebrei [...] Soltanto le avversità hanno il potere di educare».
Storicamente, aggiunge MacDonald (II), l’ostilità antiebraica è sempre stata «un potente strumento per ottenere il ricompattamento del gruppo e legittimare la continuità del giudaismo. I capi dell’ebraismo sono stati sempre ben consci di tale funzione dell’antisemitismo. Ad esempio, nel 1929, il dottor Kurt Fleischer, capo dell’ala liberale della comunità ebraica berlinese, asserì che “l’antisemitismo è il flagello che Dio ci ha mandato per guidarci compatti e saldarci tra noi”. I capi religiosi dell’ebraismo hanno dunque amplificato o perlomeno fortemente enfatizzato le dimensioni dell’antisemitismo per rinforzare la solidarietà del gruppo [have also exaggerated or at least strongly emphasized the extent of anti-Semitism in order to reinforce group solidarity].
“La ADL, al pari del losangelino Simon Wiesenthal Center, ha costruito il suo appello al finanziamento sull’abilità di raffigurare gli ebrei come circondati da nemici sempre sul punto di lanciare minacciose campagne antisemite. La ADL ha uno staff professionale per amplificare i pericoli, e talora lascia che nel mondo ebraico persistano pregiudizi razziali o politici al fine di influenzare su come esso rappresenterà i potenziali pericoli” (Michael Lerner, direttore di Tikkun).
La coscienza religiosa ebraica s’incentra per considerevole ampiezza sulla memoria della persecuzione. La persecuzione è un tema centrale di solennità come la Pasqua, Chanukkah, Purim e lo Yom Kippur [...] Lo storico [«inglese»] sir Louis B. Namier si è spinto talmente lontano da affermare che non ci fu mai una storia ebraica, ma “solo un martirologio ebraico”. Quando l’eminente sociologo Michael Walzer afferma che “mi insegnarono la storia ebraica come un lungo racconto di esilio e persecuzione… la storia dell’Olocausto si legge a ritroso”, egli sta esprimendo non solo la percezione che della propria storia ha la massima parte degli ebrei, ma anche rappresentando una potente tendenza della storiografia accademica ebraica, la cosiddetta tradizione “lacrimevole” della storiografia ebraica. Negli ultimi anni, l’Olocausto ha assunto un ruolo primario in questa autoconcettualizzazione».
Nulla allora di che stupirsi se gli ebrei – eterni capri espiatori, eterni innocenti, eterni Servi Sofferenti dell’Altissimo – che antepongono la Fantasmatica Olocaustica e la realtà di Israele alle favole dell’Esodo e del conferimento della Torah tocchino l’83%, cinque volte più numerosi di coloro che sostengono il contrario. Nulla ancora di che stupirsi delle rivoluzionarie opinioni dell’ortodosso Marvin Hier (iperattivo nel marzo 1993 a rampognare il progetto di beatificazione di Pio XII, da lui definito «il Papa del silenzio» per non avere mai accennato alla Shoah): «The Holocaust is a tragedy most Jews can relate to, while keeping kosher or observing [the Sabbath] is alien, L’Olocausto è una tragedia che può unire quasi tutti gli ebrei, mentre mangiare kasher od osservare il Sabato è straniero/marginale».
Parimenti su sponda «laica» ammonisce Max Lerner, columnist del Washington Times i cui articoli vengono ripresi da decine di quotidiani: «Quello che è avvenuto è che il significato dell’Olocausto è oggi la principale forza unificatrice degli ebrei, di qualunque nazionalità siano – ebrei osservanti o no, sionisti o no, filo-israeliani o no. Chi tocca l’Olocausto, tocca tutti costoro. Volenti o nolenti essi sono divenuti i Guardiani dell’Olocausto, attenti a che la sua memoria non venga dissacrata, attenti a far rispettare [anche «costringere a, imporre, rafforzare»: to enforce] il “mai più” implicito in esso. In un senso sinistro [in a grim sense], non sono stati loro a scegliere tale ruolo: è il ruolo che li ha scelti». Come l’Olocausto, lo Stato Ebraico, conclude Leo W. Schwarz, ha in sé un dinamismo di ineguagliabile potenza, talché «troveremmo impossibile catalogare “scientificamente” l’intero complesso di forze, emozioni e idee cui ha dato vita».
Complesso di suggestioni assolutamente centrale per l’intero ebraismo, complesso ormai disancorato dal concreto scorrere degli eventi per assurgere a dimensionifantastoriche per le quali la pretesa degli studiosi revisionisti di indagare usando i parametri storici applicabili a qualsiasi altro evento costituisce, semplicemente, un’intollerabile
bestemmia. Come scrive il doctor of philosophy Halberstam: «Quando gli American Jews parlano di Dio e dei suoi rapporti con gli ebrei, il loro pensiero corre subito all’Olocausto. Detto altrimenti: l’Olocausto ha trasformato in teologo ogni ebreo [...] La questione centrale nella teologia dell’Olocausto è la teodicea, il problema del male: Come può un Dio che ama, un Dio assolutamente buono, permettere il male nel mondo? [...] L’ortodossia tradizionale riafferma che la Shoah è stata un altro segno dello scontento di Dio verso i suoi ebrei ribelli – soffriamo a causa dei nostri peccati. Questa devastazione è stata, forse, la punizione più terribile in una sequela di disastri, ma non un qualcosa di teologicamente distinto da essi. Altri teologi, come Richard Rubenstein, vanno in tutt’altra direzione. Auschwitz, dice Rubenstein, fu semplicemente troppo. Parlare di un Dio che ama dopo che un milione e mezzo di bambini ebrei furono bruciati e gasati a morte [sic, in successione: «after the burning and gassing to death»] è stato semplicemente osceno – il Dio della tradizione ebraica è morto nei campi di sterminio. Il poeta Yaakov Gladstein ha scritto: “La Torah ci fu data sul Sinai e ci fu ripresa a Lublino”».
In tal modo, «se c’è qualcosa che marchia uno come nemico degli ebrei, è la sua negazione dell’Olocausto. È l’estrema bestemmia. Nessun altro atteggiamento offende a tal punto la sensibilità degli ebrei contemporanei. Si può passar sopra e sottilizzare su ogni altra dichiarazione dalla sinistra alla destra, non su chi minimizza la Shoah [...] Per gli ebrei non è un semplice altro punto di vista, ma la dimostrazione di una mancanza di sensibilità che sconfina nella crudeltà. Raramente un ebreo scende a discutere su questo aspetto, sebbene qualcuno sia pericolosamente arrivato a dare aiuto e sostegno ai negazionisti [...] Poiché, da parte degli ebrei, la Shoah è oggi lo sfondo di ogni discorso – dozzine di libri sulla calamità continuano ad essere editi ogni anno – dobbiamo esaminare in dettaglio i limiti e le costrizioni a tali sfide [...] Per molti ebrei della mia età, l’Olocausto è la nostra introduzione al giudaismo [...] Ci costringe a pensare da ebrei, per molti di noi, per la prima volta [...] Insieme alla creazione dello Stato di Israele, la Shoah è il massimo evento degli ultimi due millenni di storia ebraica, ed è accaduta soltanto una generazione fa. Per diversi aspetti la Shoah è indubbiamente il peggiore evento della storia umana, ed è accaduto ai nonni, agli zii, alle zie e ai cugini degli ebrei americani».
Nulla possono quindi contare, per l’agire/sentire degli American Jews e di tutti i figli di Giacobbe, i moniti espressi su Haaretz, il 16 marzo 1988 in “Dimenticare”, dall’ex oloscampato decenne auschwitziano Yehuda Elkana, direttore a Tel Aviv dell’Istituto per la Storia della Scienza e della Filosofia, e a Gerusalemme dell’Istituto Van Leer: «Un clima in cui un’intera nazione fa dipendere il proprio rapporto col presente e la propria visione del futuro dagli insegnamenti del passato è un pericolo per il futuro di ogni società che, come in ogni altro paese, vuol vivere in relativa tranquillità e sicurezza [...] anche la stessa democrazia è minacciata, se il ricordo delle vittime del nazismo ha un ruolo attivo nel processo politico. Tutti i regimi fascisti con le loro ideologie l’hanno capito [...] Quando si adopera la sofferenza del passato come argomento politico, è come se si chiamassero i morti ad allearsi nel processo democratico dei vivi [...]
Il pericolo maggiore per il futuro di Israele lo vedo nel fatto che l’Olocausto è stato inculcato sistematicamente nella coscienza dell’opinione pubblica israeliana; e questo colpisce particolarmente la gran parte della popolazione che non ha vissuto l’Olocausto, come anche la generazione dei figli nati e cresciuti in questo paese. Per la prima volta capisco quali tristi conseguenze comporta il fatto che ogni bimbo israeliano venga inviato a Yad Vashem, e non una sola volta. Cosa pensiamo di ottenere, iniziando a tali esperienze dei fragili bimbi? La nostra ragione, i nostri stessi cuori erano chiusi e non volevano capire, ma da loro abbiamo preteso: “Ricordatevi!” A che scopo? Cosa deve farne un bambino, di tali ricordi? Probabilmente, molti di loro intendono queste immagini orrorifiche come appelli all’odio.
Il “Ricordatevi” ha potuto essere interpretato come invito ad un cieco odio perenne. Può ben essere che la pubblica opinione mondiale si ricordi ancora a lungo. Non sono certo, ma in ogni caso un tale far ricordare non dovrebbe essere nostro compito. Ogni nazione, anche la tedesca, deve decidere da sé, nel contesto delle sue riflessioni, se vuole ricordare. Noi invece dobbiamo dimenticare. Per i capi della nazione non vedo compito politico o pedagogico maggiore del cominciare davvero a dedicarsi a formare il futuro, e non a occuparsi mattina e sera dei simboli, delle commemorazioni e dell’insegnamento dell’Olocausto. Dobbiamo respingere dalla nostra vita la dittatura della memoria storica».
Ed ancora, intervistato nel marzo 1994: «Bisogna rimettere in discussione il concetto di umanesimo, poiché esso postula l’esistenza di un qualcosa come la “naturaumana”, concetto occidentale, eredità del secolo diciottesimo e dei Lumi, al quale, per quanto mi tocca, non credo affatto [...] Il culto del genocidio, particolarmente per quelli che non l’hanno vissuto, non ha fatto altro che generare tra gli ebrei un’insopportabile hybris morale [gli ortodossi starnutirebbero: chutzpah]. Peggio, ha imbrigliato tutta le creatività, sostituendola con un’arroganza che pretende di legittimarsi attraverso un’eterna persecuzione.
In Israele più la memoria della Shoah è ossessiva, col suo corteo di manipolazioni politiche, più il livello intellettuale si abbassa, nelle università, nella musica, nelle arti. La letteratura soltanto è risparmiata, ma per quanto? [...] Sono i singoli che devono gestire la loro memoria, non la società.
Che giova, ad esempio, alle vittime l’apertura di luoghi turistici, a Washington come a Los Angeles, sotto forma di musei dell’Olocausto? Io non so se Israele necessitasse davvero del processo Eichann. Ciò che però so è che quel processo ci ha causato dei danni, ha risvegliato in noi lo spirito di vendetta. Peggio ancora, ci ha illuso che questa vendetta fosse possibile. Per me sono assurde le visite dei liceali, organizzate oggi dalle scuole israeliane ad Auschwitz. Provocano devastazioni morali. Rafforzano, tra i giovani, l’impressione che il mondo sia contro di loro. Con tale culto della memoria il mio paese, Israele, ha inoltre avuto un’influsso estremamente nefasto su tutte le comunità diasporiche»
(in realtà, Rabbi Michael Goldberg concorda serafico che «the prosecution’s chief aim was essentially an educational one, sostanzialmente lo scopo principale dell’accusa fu di educare. Si cercò, attraverso la testimonianza dei sopravvissuti, di far sì che i giovani israeliani si identificassero con le vittime; alla fine lo scopo fu raggiunto»).
Iconoclasta il pur apprezzabile Elkana? Ma nient’affatto, ché un vero ebreo non può essere, per definizione, iconoclasta, ma solo apostata. Ed Elkana apostata proprio non è; cerca solo di difendere gli interessi del suo popolo, minacciati dalla sempre meno tollerabile arroganza dei suoi portaparola. Qualche revisionista potrebbe scorgere nelle sue parole un segno della vittoria delle tesi tanto a lungo sofferte dagli spiriti liberi; la conclusione non è tuttavia così semplice, poiché nessun vero ebreo sarebbe ingenuo a tal punto.
Nessuna ammissione fa infatti, il nostro Elkana, sulla sostanza del problema.
Diaspora, Olocausto e Stato d’Israele – vale a dire ebraismo, giudaismo e sionismo – sono non solo concetti ma realtà inseparabili. Chi, per difetto d’informazione, debolezza intellettuale, tatticismo operativo o nell’illusione di fuggire la ridicola e devastante accusa di «antisemitismo» (vedi, per tutti, il Theodorakis dell’intervista rilasciata ad Ari Shavit) si voglia unicamente antisionista e non anche antiebraico e antigiudaico, non solo si scontrerà sempre con la più che giustificatadiffidenza degli Arruolati, ma soprattutto pregiudicherà ogni sforzo per comprendere l’essenza ideologica e l’azione politica del giudaismo. E quindi, per esprimere un fondato giudizio sul passato, capire il presente, discernere le prospettive per l’avvenire.
Gianantonio Valli
(Estratto da: Holocaustica religio)
Nota 61. Jean Daniel/Bensaïd, nato in Algeria nel 1920, è massone, docente di filosofia e scrittore, corrispondente di New Republic, giornalista a Le Monde e L’Observateur, fondatore e direttore del settimanale Le Nouvel Observateur, organo della «gauche caviar, sinistra al caviale» (similmente detta: radical chic o «champagne left, sinistra allo champagne» o «lobster liberals, progressisti all’aragosta»), articolista sul confratello italiano la Repubblica, membro del direttivo della primariaAgence France Presse, amministratore del quotidiano Le Matin de Paris e del Museo del Louvre, intimo «consigliere» del presidente francese François Mitterrand.
Bibliografia
Salvadori R.G. (I), 1799, Gli ebrei italiani nella bufera antigiacobina, Giuntina, 1999
Pellicani L. (II), Miseria del marxismo – Da Marx al Gulag, SugarCo, 1984
Segre V.D. (IV), Le metamorfosi di Israele, UTET Libreria, 2006
Nolte E. (II), Intervista sulla questione tedesca, Laterza, 1993
MacDonald K. (II), Separation and Its Discontents – Toward an Evolutionary Theory of Anti-Semitism,Praeger, 1998
Articoli precedenti sulle “Valenze dell’olocausto”