L'olocausto come simbolo coagulante della nuova identità giudaica



la creazione di un Nuovo Ghetto psico­lo­gico a somi­glianza del­l’antico, cercato/ac­cet­tato per le stesse ragio­ni, che si prolunga nella paranoica visione dell’«in­giusto assedio» degli eletti da parte di ogni popolo non-ebraico, in quella «psicosi del conflitto con gli arabi e col mondo inte­ro, che ormai fa parte del nostro DNA» (lo scrittore A.B. Yehoshua).
Al pari dell’U­ni­ca Sof­feren­za, anche «this fear, this existential insecurity, is authentic and it sets Jews apart, questa paura, questa insicu­rezza esistenzia­le, è autentica e differenzia gli ebrei dagli altri popoli», l’ebreo ateo Michael Willig commenta a Joshua Halberstam. «La souffrance comme identité», così la «francese» Esther Benbassa titola il suo più recente saggio (Fayard, 2007). Ben s’addicono quindi a tale aspetto le considerazioni svolte, ovviamente per altro conte­sto, dallo storico «italiano» Roberto G. Salvadori (I): «Non mi pare ci siano dubbi: nell’e­tà del ghetto la garanzia dell’identità ebraica sta nel forte legame con la religione avita. Il rituale riempie totalmente la vita della comunità e dei singoli,anche di quelli non credenti (ammesso e non concesso che, in quel periodo, ne esistano­). 

Ancora oggi, in una certa tradizione reli­giosa ebraica ortodossa l’età del ghetto viene vista, sì, come estremamente dolorosa, ma anche come contrassegnata da una grande purezza, per la quale si nutrono sentimenti di ammirazione e di nostalgia. Il ghetto è durato tanto a lungo e ha avuto una tale incidenza che si è interiorizzato. Da allora quasi ogni ebreo porta con sé la sua prigione».

Ritorna perciò la penetrante analisi di Pellicani (II) sulla miseria intel­lettuale / morale / caratteria­le del marxismo: «Ma la malafede è diversa dal cinismo. Essa non consiste affatto nell’in­gannare sciente­mente gli altri, bensì nell’ingannare se stessi. La malafede, prima di essere inganno, è autoinganno [...] La malafe­de, quindi, è una tecnica di rimozione, grazie alla quale il soggetto protegge ciò di cui ha bisogno per continuare a stimare se stesso e per eliminare quella che Leon Festlin­ger ha chiamato la “disso­nanza cogniti­va” [...] Non è azzardato quindi dire che dietro la malafede si può trovare un vero e proprio dramma esi­sten­ziale, che non si trasfor­ma in tragedia precisa­mente perché grazie alla malafede il protagonista del dramma può coltivare certe “illusioni vitali” su di sé e sul mondo. Può accadere così che quando l’orro­re di fronte alla vita e alla morte invade l’esistenza di un indivi­duo, questi cerchi di bloccare con tutti i mezzi l’ango­scia ontologi­ca che lo assale e che, per fare ciò, sia anche disposto a trasfor­marsi in un produttore e/o un consumatore di illusioni. Queste diventano per lui l’unica àncora di salvezza: da esse dipen­dono la sua stabilità psichica e persino la sconfitta della tentazione di porre fine alla sua esistenza. Perciò deve proteggerle a tutti i costi e con tutti i mezzi».

«L’identità ebraica, in misura minore quella israeliana» – scrive poi specificamen­te Wolffsohn – «viene determinata essen­zialmente dall’Olo­causto presso tutti gli esse­ri umani nati dopo [il 1945], anche e soprattut­to per gli ebrei nati dopo. In un mondo sempre più irreli­gio­so il giudaismo non defini­sce più, per la maggioranza degli ebrei, l’identità ebraica; a coniare la loro identità è la storia, la storia dolorosa del loro popolo, soprattutto dell’Olocau­sto. Per rigiudaizzare attraverso la storia ebraica la propria identità religio­sa degiudaizzata, essi devono addirittura aggrapparsi all’Olo­causto [sie müssen sich an den Holocaust geradezu klam­mern]».

Concetto espresso anche da Leon Wieseltier (che riporta l’affer­mazione di un grande finanziatore del Simon Wiesenthal Center: «Isra­e­le, l’educazione giudaica e tutte le altre ben note parole d’ordine [ebraiche] non sem­brano più funzionare per stimolare gli ebrei ad essere solidali fra loro. Funziona solo l’Olocausto»), dal goy Alessio Altichieri (che concorda con Cesare Segre sul­la centra­lità, per l’ebraismo, del «senso di una storia comune di sofferenze») e da Jack Werthei­mer, docente di Storia Ebraica allo Jewish Theologi­cal Semi­nary of America, per il quale «l’Olocausto conferi­sce forma tragica all’eroi­smo degli ebrei, che hanno pagato il prezzo più alto per mante­nere il loro specifico modo di essere [the Holocaust dramatizes the heroism of Jews who paid the ultimate price for maintaining their distinctive ways]» e dal big boss Vittorio Dan Segre (IV), critico contro «quelle minoranze, spes­so fanatiche, che per il manteni­mento dell’identità ebraica curano la costante presenza di un nemico esterno».

Nulla quindi di che stupirsi dello squilibrato grido à la Matas, di Robert Wistrich, docente di Storia Ebraica all’Università di Gerusalemme, in chiusura della voce «Negazio­nismo» nel Dizionario dell’Olocausto:

«Dal punto di vista ebraico, la negazione dell’Olocausto è considerata come una forma particolar­mente perversa di incitamento all’odio – come l’aspetto più aggiornato di giustificazione razionale dell’odio contro gli ebrei, a stento celato sotto la maschera della revisione storica. Non per nulla i negazionisti sono stati chia­mati assassini della memoria, settari autori di una sorta di genocidio simbolico [sic] contro il popolo ebreo. Dietro questo attacco senza vergogna alla memo­ria degli ebrei, tuttavia, vi è una negazione ancora più grave delle premesse fondamentali di una società fondata sulla ragione, un appiattimento di tutti i valori e una distruzione della realtà storica».
Ancora più chiaro, intervistato dal confrère Errol Morris nel docu­menta­rio Mr. Death – The Rise and Fall of Fred A. Leuchter Jr., “Mister Morte – Ascesa e caduta di Fred A. Leuchter Jr.” (il tecnico delle gasazioni giudizia­rie america­ne, autore della prima perizia scientifica sulla chimica delle «camere a gas» di Ausch­witz), presentato nel gennaio 1999 al Sundance Film Festival di Park City, Utah, lo sterminazio­nista van Pelt: «Se si dimostrasse che i revisionisti dell’Olo­causto hanno ragioneperde­remmo la percezione che abbiamo della Seconda Guerra Mon­diale, perderemmo la per­ce­zio­ne che ab­bia­mo della democra­zia. La Secon­da Guerra Mondiale fu una guerra mora­le, una guerra tra il Bene e il Male. Se da questo quadro rimuo­vessimo il punto nodale della guerra, il nocciolo che risponde al nome diAusch­witz, allora ogni altra cosa ci diverrebbe incomprensi­bileFinirem­mo tutti in manicomio» (01:23:30, tempo in minuti, secondi e inquadra­tura).

Altrettanto quasi incredibile – due anni prima su Weltwoche 30 gen­naio 1997 – il detto Avraham Burg: «Nehmen wir an, daß eines Tages Frieden herrscht; dann wer­den sich Juden und Israelis fragen müssen: Können wir als Juden ohne den Feind überleben? Können wir überleben ohne einen Hitler, der für uns defi­niert, wer wir sind?Supponiamo che un giorno regni la pace; ebrei e israeliani dovranno chiedersi: Possiamo sopravvi­ve­re, come ebrei, senza il nemico? Possiamo sopravvi­vere senza un Hitler che definisca, per noi, chi noi siamo?».

«L’idea di “popolo eletto”, che in apparenza è perentoria» – scrive l’«itali­co» ex sessantot­ti­no Stefano Levi Della Torre – «invece è tremula e costitu­ti­va­mente senza fondamen­to [...] Martin Buber ha osservato che gli ebrei sono il grup­po umano a cui è richie­sto più insistentemente di definirsi e di giustifi­care la propria esistenza. È una richiesta che però non viene solo dall’e­sterno, ma anche dall’interno (io stesso sto cercando di rispondere a una tale doman­da). È curioso che una delle i­dentità col­letti­ve più antiche abbia una zona indefinibile nel suo centro. Questo punto indecifra­bile si potrebbe forse riassu­mere così: un cuore antico che si fonda sul fu­turo. Dalla Torah scritta e orale si potrebbe dedurre che gli ebrei più che un popolo sono la pro­messa di un popolo 

[...] L’”elezione” è dunque “necessa­ria” in quanto implica una missione universale; e il sentirsi necessari, e perciò insostitui­bili ed esclusivi, è un fattore potente dell’ostina­zione a vivere e durare».

Come «apartness was the price of uniqueness, la separatezza fu il prezzo dell’unicità» (Rabbi W. Gunther Plaut) e come «la soffe­renza è dunque la chiave del necessario bi­polarismo che ha per­mes­so a Israele di scoprire la propria identità e di disidentifi­car­si dall’Egitto» (Rabbi Adin Steinsaltz) e cioè da tutti portatori del Male (il più grande e recente dei quali è stato il «nazismo»), così l’Unicità viene oggi conferita dalla Sofferenza Somma, dal­l’Evento Imparagona­bile: «Unique suffering confers unique entitle­ment, Una sofferenza unica conferisce una facoltà e un diritto unici [...]

Non la sofferen­za degli ebrei, ma il fatto che ebrei soffrirono è ciò che rese unico l’Olocau­sto.

Detto altri­menti: l’Olocausto è speciale perché gli ebrei sono speciali» (Fin­kelstein), per cui la pretesa all’Uni­cità Olocaustica non è che «a distaste­ful secular version of chosenness, una sgradevole versione secolarizzata del­l’e­le­zione» (il detto Schorsch, presiden­te dello Jewish Theologi­cal Seminary). «Togliere il pri­vilegio [sic] della male­di­zio­ne» – completa il top-giornalista «francese» Jean Daniel  Bensaïd, 61  ricalcando il concetto di «orgoglio dello sterminio» giustamente fustigato dal revisioni­sta omeopatico Ernst Nolte (II) – «significa an­che to­gliere quello dell’elezione».

      Integrationsfunktion, «funzione integrativa», definisce Wolff­sohn tale mag­giore e conclusiva valen­za, quella stessa che ha fatto notare nel Seicento a Baruch Spinoza come sia stato proprio l’odio delle genti ciò che ha impedito il dissolvimento degli ebrei nella diaspora, quella stessa che ha fatto apprezzare nel 1895 a Theodor Herzl il sen­so educativo del­l’«an­ti­semiti­smo», fenomeno funzio­nale alla forti­fi­cazio­ne del gruppo ebraico e non viatico alla sua dissoluzione: «Io lo considero un movimen­to uti­le per il caratte­re degli ebrei [...] Soltanto le avversità hanno il potere di educa­re».

Storicamente, aggiunge MacDonald (II), l’ostilità antiebraica è sempre stata «un poten­te strumento per ottenere il ricompatta­mento del gruppo e legittimare la continuità del giudaismo. I capi dell’e­braismo sono stati sempre ben consci di tale funzione dell’antise­miti­smo. Ad esempio, nel 1929, il dottor Kurt Fleischer, capo del­l’ala liberale della comunità ebraica berline­se, asserì che “l’antise­mitismo è il flagello che Dio ci ha mandato per guidarci compatti e saldarci tra noi”. I capi religiosi dell’ebraismo hanno dunque amplificato o perlomeno fortemente enfatizzato le dimen­sioni del­l’antise­mitismo per rinfor­za­re la solidarietà del gruppo [have also exaggerated or at least strongly emphasized the extent of anti-Semitism in order to reinforce group solidarity].
“La ADL, al pari del losangelino Simon Wiesenthal Cen­ter, ha costruito il suo appello al finanzia­mento sull’abilità di raffigurare gli ebrei come circondati da nemici sempre sul punto di lanciare minacciose campagne antise­mite. La ADL ha uno staff professionale per ampli­ficare i pericoli, e talora lascia che nel mondo ebraico persistano pregiudizi razziali o politici al fine di influenza­re su come esso rappresenterà i potenziali pericoli” (Michael Lerner, direttore di Tikkun).
La coscienza religiosa ebraica s’incentra per considere­vole ampiez­za sulla memoria della persecu­zione. La per­secuzio­ne è un tema centrale di solennità come la Pasqua, Chanuk­kah, Purim e lo Yom Kippur [...] Lo storico [«inglese»] sir Louis B. Namier si è spinto talmente lontano da affermare che non ci fu mai una storia ebraica, ma “solo un marti­rologio ebraico”. Quando l’eminente sociologo Michael Walzer afferma che “mi insegnarono la storia ebraica come un lungo racconto di esilio e persecu­zio­ne… la storia dell’Olo­causto si legge a ritroso”, egli sta esprimen­do non solo la percezione che della propria storia ha la massima parte degli ebrei, ma anche rappre­sentan­do una potente tendenza della storiografia accademica ebraica, la cosiddetta tradizione “lacri­mevole” della storiografia ebraica. Negli ultimi anni, l’Olocausto ha assunto un ruolo primario in questa autoconcettualizzazione».

Nulla allo­ra di che stupirsi se gli ebrei – eterni capri espiatori, eterni innocenti, eterni Servi Sofferenti dell’Altissimo – che ante­pongono la Fanta­smatica Olocaustica e la realtà di Israele alle favole dell’Eso­do e del confe­ri­mento del­la Torah tocchino l’83%, cinque volte più numerosi di coloro che so­sten­gono il contra­rio. Nulla ancora di che stupirsi delle rivoluzionarie opi­nio­ni dell’orto­dosso Marvin Hier (­iperatti­vo nel marzo 1993 a rampognare il progetto di beatificazio­ne di Pio XII, da lui defi­ni­to «il Papa del silenzio» per non avere mai ac­cennato alla Shoah): «The Holo­caust is a tragedy most Jews can relate to, while kee­ping kosher or obser­ving [the Sabbathis alien, L’Olo­causto è una tragedia che può unire quasi tutti gli ebrei, mentre mangiare kasher od osservare il Sabato è straniero/margina­le».

Parimenti su spon­da «laica» ammonisce Max Lerner, co­lumnist del Wa­shin­gton Times i cui articoli vengono ripresi da decine di quotidiani: «Quello che è avvenuto è che il significato dell’Olo­cau­sto è oggi la principale forza unificatri­ce degli ebrei, di qualunque nazio­na­lità siano – ebrei osservanti o no, sioni­sti o no, filo-israeliani o no. Chi tocca l’Olocau­sto, tocca tutti costoro. Volenti o nolenti essi sono divenu­ti i Guardiani dell’Olo­cau­sto, at­tenti a che la sua memoria non venga dis­sa­crata, attenti a far rispettare [anche «co­strin­gere a, imporre, rafforza­re»: to enforce] il “mai più” implicito in esso. In un senso sinistro [in a grim sense], non sono stati loro a scegliere tale ruolo: è il ruolo che li ha scelti». Come ­l’Olocau­sto, lo Stato Ebraico, conclude Leo W. Schwarz, ha in sé un dinamismo di ine­guagliabi­le potenza, talché «trove­rem­mo impossibi­le catalo­gare “scientifica­mente” l’intero complesso di forze, emozioni e idee cui ha dato vita».

Complesso di suggestioni assolutamente centrale per l’intero ebraismo­, com­ples­so ormai disancorato dal concreto scorrere degli eventi per assurgere a dimensionifan­ta­storiche per le quali la pretesa degli studiosi revisionisti di indagare usando i parametri storici applicabili a qualsiasi altro evento costitui­sce, semplice­men­te, un’intollerabile 
bestemmia. Come scrive il doctor of phi­lo­sophy Halberstam: «Quando gli American Jews parla­no di Dio e dei suoi rapporti con gli ebrei, il loro pensiero corre subito all’Olo­cau­sto. Detto altrimenti: l’Olocau­sto ha tra­sformato in teologo ogni ebreo [...] La questione centrale nella teologia dell’Olo­causto è la teodicea, il problema del male: Come può un Dio che ama, un Dio asso­lu­­tamente buono, per­mettere il male nel mon­do? [...] L’orto­dossia tradizionale riaf­fer­ma che la Shoah è stata un altro segno dello scontento di Dio verso i suoi ebrei ribelli – soffriamo a causa dei nostri peccati. Questa devastazione è stata, forse, la punizione più terribile in una sequela di disastri, ma non un qualcosa di teologica­mente distinto da essi. Altri teologi, come Richard Ruben­stein, vanno in tutt’altra direzione. Auschwitz, dice Ruben­stein, fu semplice­mente troppo. Parlare di un Dio che ama dopo che un mi­lione e mezzo di bambini ebrei furono brucia­ti e gasati a morte [sic, in successio­ne: «after the burning and gassing to death»] è stato semplice­mente osceno – il Dio della tradi­zione ebraica è morto nei campi di stermi­nio. Il poeta Yaakov Gladstein ha scritto: “La Torah ci fu data sul Sinai e ci fu ripresa a Lubli­no”».

In tal modo, «se c’è qualcosa che marchia uno come nemico degli ebrei, è la sua negazione dell’Olocau­sto. È l’estrema bestemmia. Nessun altro atteg­giamento offende a tal punto la sensi­bilità degli ebrei contempo­ra­nei. Si può passar sopra e sottiliz­zare su ogni altra dichiarazio­ne dalla sinistra alla destra, non su chi minimizza la Shoah [...] Per gli ebrei non è un sem­plice altro punto di vista, ma la dimostrazione di una man­canza di sensibilità che sconfi­na nella crudeltà. Raramente un ebreo scende a discutere su questo aspetto, sebbene qualcuno sia peri­colosa­mente arrivato a dare aiuto e sostegno ai negazio­nisti [...] Poiché, da parte degli ebrei, la Shoah è oggi lo sfondo di ogni discorso – dozzine di libri sulla cala­mità continuano ad essere editi ogni anno – dobbiamo esaminare in dettaglio i limiti e le costrizioni a tali sfide [...] Per molti ebrei della mia età, l’Olocausto è la nostra introduzione al giudaismo [...] Ci costrin­ge a pensare da ebrei, per molti di noi, per la prima volta [...] Insieme alla creazione dello Stato di Israele, la Shoah è il massi­mo evento degli ultimi due millen­ni di storia ebraica, ed è acca­duta soltanto una generazione fa. Per diversi aspetti la Shoah è indubbiamente il peggiore even­to della storia umana, ed è acca­du­to ai nonni, agli zii, alle zie e ai cugini degli ebrei america­ni».

Nulla possono quindi contare, per l’agire/sentire degli American Jews e di tutti i figli di Giacobbe, i moniti espressi su Haaretz, il 16 marzo 1988 in “Dimenti­care”, dall’ex oloscam­pa­to decenne ausch­witziano Yehuda Elka­na, direttore a Tel Aviv del­l’I­stituto per la Storia della Scienza e della Filosofia, e a Gerusalemme dell’Isti­tuto Van Leer: «Un clima in cui un’inte­ra nazione fa dipendere il proprio rapporto col presente e la propria visione del futuro dagli insegnamenti del passato è un pericolo per il futuro di ogni società che, come in ogni altro paese, vuol vivere in relativa tranquillità e sicurez­za [...] anche la stessa democrazia è minacciata, se il ricordo delle vittime del nazi­smo ha un ruolo attivo nel processo politico. Tutti i regimi fascisti con le loro ideologie l’hanno capito [...] Quando si adopera la sofferenza del passato come argomento poli­tico, è come se si chiamassero i morti ad allearsi nel processo democra­tico dei vivi [...]


Il perico­lo maggiore per il futuro di Israele lo vedo nel fatto che l’Olocausto è stato inculcato sistematicamente nella coscienza dell’opinione pubblica israeliana; e questo colpisce particolar­mente la gran parte della popolazione che non ha vissuto l’Olocau­sto, come anche la generazione dei figli nati e cresciuti in questo paese. Per la prima volta capisco quali tristi conseguenze comporta il fatto che ogni bimbo israe­liano venga inviato a Yad Va­shem, e non una sola volta. Cosa pensia­mo di ottene­re, iniziando a tali esperienze dei fragili bimbi? La nostra ragione, i nostri stessi cuori erano chiusi e non volevano capire, ma da loro abbiamo preteso: “Ricor­date­vi!” A che scopo? Cosa deve farne un bambino, di tali ricordi? Probabil­mente, molti di loro intendono queste immagini orrorifiche come appelli al­l’odio.

Il “Ricordatevi” ha po­tu­to essere interpre­tato come invito ad un cieco odio perenne. Può ben essere che la pubblica opinione mondiale si ricordi ancora a lungo. Non sono certo, ma in ogni caso un tale far ricordare non dovrebbe essere nostro compito. Ogni nazio­ne, anche la tedesca, deve decidere da sé, nel contesto delle sue riflessio­ni, se vuole ricordare. Noi invece dobbiamo dimenticare. Per i capi della nazione non vedo compito politico o pedago­gico maggio­re del comin­cia­re dav­ve­ro a dedi­carsi a formare il futuro, e non a occu­par­si mattina e sera dei simboli, delle commemora­zioni e dell’in­se­gnamento del­l’Olo­causto. Dob­bia­mo respin­gere dal­la nostra vita la dittatura della memoria storica».

Ed ancora, inter­vi­stato nel marzo 1994: «Bisogna rimettere in di­scus­sione il concetto di umanesi­mo, poiché esso postula l’esisten­za di un qualcosa come la “naturaumana”, concetto occi­dentale, eredità del secolo diciottesi­mo e dei Lumi, al quale, per quanto mi tocca, non credo affatto [...] Il culto del genoci­dio, particolar­mente per quelli che non l’hanno vissuto, non ha fatto altro che generare tra gli ebrei un’insopportabile hybris morale [gli ortodossi starnuti­rebbero: chutzpah]. Peggio, ha imbri­gliato tutta le creatività, sosti­tuen­dola con un’arroganza che pretende di legittimarsi attraverso un’eterna persecuzio­ne. 

In Israele più la memoria della Shoah è ossessiva, col suo corteo di mani­po­lazioni politiche, più il livello intellettuale si abbassa, nelle università, nella musica, nelle arti. La letteratura soltanto è risparmia­ta, ma per quanto? [...] Sono i singoli che devono gestire la loro memoria, non la società.

Che giova, ad esempio, alle vitti­me l’apertu­ra di luoghi turistici, a Washing­ton come a Los Angeles, sotto forma di musei del­l’O­locausto? Io non so se Israele neces­sitasse davvero del processo Eichann. Ciò che però so è che quel proces­so ci ha causato dei danni, ha risve­gliato in noi lo spirito di vendetta. Peggio ancora, ci ha illuso che questa vendetta fosse possibile. Per me sono assurde le visite dei liceali, organizzate oggi dalle scuole israeliane ad Auschwitz. Provocano devastazioni morali. Rafforza­no, tra i giovani, l’impressione che il mondo sia contro di loro. Con tale culto della me­moria il mio paese, Israe­le, ha inoltre avuto un’influsso estrema­mente nefasto su tutte le comunità diaspori­che»

(in realtà, Rabbi Michael Goldberg concorda serafico che «the prosecution’s chief aim was essentially an edu­ca­tio­nal one, sostan­zial­mente lo scopo principale dell’accusa fu di educare. Si cercò, attraverso la testimo­nianza dei soprav­vis­suti, di far sì che i giovani israeliani si identificas­sero con le vittime; alla fine lo scopo fu raggiunto»).

Iconoclasta il pur apprezzabile Elkana? Ma nient’affatto, ché un vero ebreo non può essere, per defini­zio­ne, iconoclasta, ma solo apostata. Ed El­kana apo­stata proprio non è; cerca solo di difendere gli inte­ressi del suo po­po­lo, minacciati dalla sempre meno tollerabi­le arro­gan­za dei suoi portapa­ro­la. Qualche revi­sionista potrebbe scorgere nelle sue parole un segno della vittoria delle tesi tanto a lungo sofferte dagli spiriti liberi; la conclusione non è tuttavia così semplice, poiché nessun vero ebreo sarebbe ingenuo a tal punto. 

Nessuna ammissione fa infatti, il nostro Elkana, sulla sostanza del problema.
Dia­spora, Olocausto e Stato d’Israele – vale a dire ebrai­smo, giu­daismo e sioni­smo – sono non solo concetti ma realtà insepara­bili. Chi, per difetto d’infor­mazione, debolezza intellet­tua­le, tatticismo operativo o nell’illu­sione di fuggire la ridicola e devastante accusa di «antisemi­ti­smo» (vedi, per tutti, il Theo­dorakis del­l’intervi­sta rilasciata ad Ari Shavit) si voglia unicamente antisionista e non anche anti­ebrai­co e an­ti­giudai­co, non solo si scon­trerà sempre con la più che giusti­ficatadiffi­denza degli Arruola­ti, ma soprattutto pregiudi­cherà ogni sforzo per com­prende­re l’es­senza ideo­lo­gica e l’azione po­litica del giudai­smo. E quindi, per esprimere un fondato giu­di­zio sul passato, capi­re il presente, di­scer­ne­re le prospettive per l’avve­ni­re.

Gianantonio Valli   

(Estratto da: Holocaustica religio)


Nota 61.   Jean Daniel/Bensaïd, nato in Algeria nel 1920, è masso­ne, docente di filoso­fia e scrittore, corrispon­den­te di New Republic, giornalista a Le Monde e L’Ob­ser­va­teur, fondatore e direttore del settimanale Le Nouvel Observa­teur, organo della «gauche caviar, sinistra al caviale» (similmente detta: radical chic o «cham­pagne left, sinistra allo champagne» o «lobster liberals, progressisti all’arago­sta»), articolista sul confra­tel­lo italiano la Repubblica, membro del direttivo della pri­ma­riaAgence France Pres­se, amministra­tore del quotidiano Le Matin de Paris e del Museo del Louvre, intimo «consigliere» del presidente francese François Mit­ter­rand.

Bibliografia
Salvadori R.G. (I), 1799, Gli ebrei italiani nella bufera antigiacobina, Giuntina, 1999
Pellicani L. (II), Miseria del marxismo – Da Marx al Gulag, SugarCo, 1984
Segre V.D. (IV), Le metamorfosi di Israele, UTET Libreria, 2006
Nolte E. (II), Intervista sulla questione tedesca, Laterza, 1993
MacDonald K. (II), Separation and Its Discontents – Toward an Evolutionary Theory of Anti-Semitism,Praeger, 1998

Articoli precedenti sulle “Valenze dell’olocausto

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