Forse sarà stata la lettura di una storia ebraica, raccontata da Osho, mentre stavo semisdraiato sulla brandina, in cui si parlava di un tipo talmente insonnolito nella vita che non riusciva mai a distinguere il sogno dalla veglia... Poi si ritrova nel vuoto assoluto, in cui tutto il suo mondo era scomparso, anche la sua forma non c'era più, si ritrova insomma a dover affrontare, nella sua totale meraviglia ed ignoranza, una condizione in cui non sa nemmeno di essere morto (o vivo...?).
Oggi, a proposito di stato fra sonno e veglia, mi vedevo in un semi-sogno in cui essendo consapevole di stare per addormentarmi e non volendo perdere la lucidità dello stato di veglia cercavo di fare uno sforzo per tirar fuori un braccio dal letto in modo che il fresco mi mantenesse sveglio... e così è accaduto che mi sono "svegliato"...
Paolo D'Arpini
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Due storie nella storia.
Prima storia, narrata da Gilda Bocconi:
Non ricordo esattamente quando andai per la prima volta a Calcata ma ho ben presente il senso di vertigine che ebbi nel passare sul ponte sospeso nel vuoto e poi sulla via stretta fra il dirupo e la parete rocciosa, messi i piedi in terra, l’accogliente piazzetta mi rassicurò definitivamente. Passai sotto la porta e in poco tempo, oltrepassato il paese medio ed entrata in quello antico, mi sono trovata di nuovo affacciata sul nulla, in posizione aerea in uno sfolgorio di verde e di sole. Rimasi incantata dal contrasto fra il borgo piuttosto piccolo, raccolto, dalle architetture graziose, quasi un nido, e gli aspri e selvaggi orridi della valle del Treja.
Narce si ergeva ardita proprio di fronte, Narce, la favolosa Narce! Croce e delizia di una generazione di archeologi italiani ed inglesi. In quel periodo frequentavo i corsi di proto-storiaeuropea e, benché non avessi partecipato agli scavi, vivevo l’atmosfera bollente delle dispute e delle gelosie che aveva suscitato quel ritrovamento importantissimo. L’insediamento testimoniava infatti una continuità di vita dal Medio Bronzo (XIV° sec. a.C.) al VI° secolo a. C.. In seguito gli abitanti si erano spostati anche su Pizzo Piede, Montelisanti e sull’attuale Calcata. Era la prova dell’autoctonia degli Etruschi e dei Falisci, accettando però l’ipotesi dell’arrivo di piccoli gruppi, mercanti e artigiani, provenienti soprattutto dal mondo egeo-anatolico.
Tornai a Calcata in seguito, quando seppi come il Comitato per Calcata Viva fosse riuscito a far togliere il vincolo di inabitabilità. Capena, nella quale nel frattempo mi ero trasferita aveva gli stessi problemi. Fu allora che conobbi anche il Circolo vegetariano e Paolo D’Arpini. Il Circolo si trova sulla destra, prima di passare sotto l’arco, e spesso vi si poteva incontrare Paolo seduto su una scaletta, un pò nascosto dai fiori (o dalle erbacce), contornato da cipolline, broccoletti e melucce piccole ma buone, quasi sempre calmo e olimpico (perché le tempeste lui le nasconde socchiudendo gli occhi), con un berretto alla ‘garibaldina’, sornione guarda chi passa, quando ti riconosce si alza sorridente e ti fa entrare al Circolo. Malgrado l’aspetto egli ha portato avanti molte iniziative per la valorizzazione della valle del Treja: la lotta per impedire una discarica inquinante, la difesa dell’identità locale, con il bioregionalismo, e altre attività per la libertà individuale.
Ricordo ancora con piacere le riunioni che spesso terminavano con un convivio sempre accompagnato da un ottimo vinello e da dolcetti paesani. A quel tempo ero una accanita fumatrice ed ho sofferto perché al Circolo non si può fumare, spesso (per rifarmi) andavo in un baretto vicino, simpatico e all’antica, gestito da una famiglia, dove potevo fumare voluttuosamente. Comunque Paolo è un vulcano di idee, con lui puoi anche non essere d’accordo su certe cose, infatti egli accetta volentieri il dibattito ed il confronto. Osservando lo stemma di Calcata, ho cercato di spiegarmi meglio questo nome (ed il suo significato). In effetti la forma è quella di un tallone, tallone di calcare, cioè roccia, ma forse il nome è estensibile anche ad un altro vicino insediamento diruto, in cui vi sono i resti della chiesa di Santa Maria di Calcata.
Nell’antichità era indicato come ‘tallone’ anche la pietra al centro dei circoli sacri, ove erano celebrati i riti ed i sacrifici, certo nella zona son stati ritrovati diversi templi sin ora di epoca ellenistica (IV° sec. a.C.) mentre sappiamo che Narce (Fescennium?) risale all’età del bronzo. Chissà se proprio nell’attuale Calcata fosse situata l’antica area sacra? Probabilmente resta solo un’ipotesi, una sensazione, così come Paolo ’sente’ ed immagina gli antichi falisci della valle del Treja nello spirito arguto e smaliziato dei "Fescennini" e le preghiere alla Dea Madre, manifestazione della natura e della vita.
Gilda Bocconi
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Seconda storia, narrata da Etain Addey:
Non voglio andare al convegno della Rete Bioregionale Italiana in macchina. E qui già mi scontro con un paradosso della vita "semplice": se parto con le ruote vado e torno in tre giorni, se scelgo di andare a piedi devo lasciare al mio compagno di vita semplice tutta la mungitura e i lavori di formaggio, orto, potatura e animali. Questa volta il convegno ha luogo a Calcata, un piccolo borgo a nord di Roma. Ne sento parlare da anni, ma non l'ho mai visto, né conosco di persona Paolo D'Arpini del Circolo Vegetariano che ci ospita; finora ho solo letto i suoi scritti.
Quando si va a piedi, la destinazione e le persone che ci si trovano assumono un'importanza insolita nella mente del viaggiatore. "Come viaggiano le truppe nemiche?" chiese un generale romano. "A piedi: quindi abbiamo il tempo per preparare le difese." Così mi scrisse Paolo quando gli comunicai la mia intenzione di venire a piedi e quindi per le vie della Tuscia mi sento un poco barbara.
I ritmi della natura.
La prima notte la passo arrotolata nel sacco a pelo sulla balconata del Palazzo dei Papi ad Orvieto. È dura la pietra, ma in compenso ho una vista del palazzo che nessun papa, chiuso dentro, ha mai goduto: ogni volta che apro gli occhi nelle ore piccole (e c'è un orologio su una torre vicina che suona i quarti) rimango di nuovo meravigliata dalla bellezza delle mura di pietra rosa con i delicati lavori degli scalpellini del trecento. Non riesco a capire che tipo di industria, ai piedi della rupe di roccia vulcanica di Orvieto, continua a rombare sempre nel silenzio della notte. Prima dell'alba parto nella direzione di Viterbo, passando per Grotte di Santo Stefano.
Piano piano comincio a rendermi conto che l'intero paesaggio è una magia di rupi scoscese e paesini arrampicati sopra canyon - Orvieto è il luogo più famoso, ma dall'età del bronzo questa terra è abitata da gente che ha usato la roccia per difesa e rifugio. Arrivata a Grotte di Santo Stefano, non riesco a capire perché non trovo il centro del paese ma poi mi spiegano che fino al 1600 la gente viveva nelle grotte, e solo in secoli recenti ha costruito le case, che in un certo senso sono rimaste "periferiche" rispetto alle grotte.
Piove un po' troppo per dormire per terra e due donne anziane proprietarie di un bar mi dicono che non c'è un posto per dormire qui. "Strano" - fa una all'altra - una volta qui c'era tutto - si dormiva, si mangiava, si ballava, c'era pure il cinema e eravamo si può dire poveri... ma adesso che stiamo meglio non c'è niente". E difatti, come tante comunità nella società consumistica, è rimasta tagliata fuori: per qualsiasi cosa bisogna andare o a Orvieto o a Viterbo, e lungo la strada che porta alla statale vedo la gente correre in macchina a velocità da suicidio per scappare dal loro luogo svuotato e risucchiato dai grossi centri commerciali. Anche io percorro una lunga strada fino a Viterbo, e vedo una campagna di bella terra agricola affollata da ville appena costruite con entrate monumentali e recinti di plastica, quasi tutte di cattivo gusto e comunque, se non fosse per feroci cani doberman, vuote. Un degrado dovuto al benessere.... (continua)
Etain Addey
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