L’extraterrestre è mio fratello
“E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Cita Dante – il celebre verso che chiude l’ultimo canto dell’Inferno – per descrivere la missione dell’astronomia. Che è anzitutto quella di “restituire agli uomini la giusta dimensione di creature piccole e fragili davanti allo scenario incommensurabile di miliardi e miliardi di galassie”. E se poi scoprissimo di non essere i soli ad abitare l’universo? L’ipotesi non lo inquieta più di tanto. È possibile credere in Dio e negli extraterrestri. Si può ammettere l’esistenza di altri mondi e altre vite, anche più evolute della nostra, senza per questo mettere in discussione la fede nella creazione, nell’incarnazione, nella redenzione. Parola di astronomo e di sacerdote. Parola di José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana.
Argentino, quarantacinque anni, gesuita, dall’agosto del 2006 padre Funes ha le chiavi della storica sede nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, che Pio XI concesse all’osservatorio vaticano nel 1935. Fra circa un anno le restituirà, per ricevere quelle del monastero delle basiliane situato al confine tra le Ville Pontificie e Albano, dove si trasferiranno gli studi, i laboratori e la biblioteca della Specola. Unisce modi cortesi e pacati a quel leggero distacco dalle cose terrene di chi è abituato a tenere gli occhi rivolti verso l’alto. Un po’ filosofo e un po’ investigatore, come tutti gli astronomi. Contemplare il cielo è per lui l’atto più autenticamente umano che si possa fare. Perché – spiega a “L’Osservatore Romano” – “dilata il nostro cuore e ci aiuta a uscire dai tanti inferni che l’umanità si è creata sulla terra: le violenze, le guerre, le povertà, le oppressioni”.
Argentino, quarantacinque anni, gesuita, dall’agosto del 2006 padre Funes ha le chiavi della storica sede nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, che Pio XI concesse all’osservatorio vaticano nel 1935. Fra circa un anno le restituirà, per ricevere quelle del monastero delle basiliane situato al confine tra le Ville Pontificie e Albano, dove si trasferiranno gli studi, i laboratori e la biblioteca della Specola. Unisce modi cortesi e pacati a quel leggero distacco dalle cose terrene di chi è abituato a tenere gli occhi rivolti verso l’alto. Un po’ filosofo e un po’ investigatore, come tutti gli astronomi. Contemplare il cielo è per lui l’atto più autenticamente umano che si possa fare. Perché – spiega a “L’Osservatore Romano” – “dilata il nostro cuore e ci aiuta a uscire dai tanti inferni che l’umanità si è creata sulla terra: le violenze, le guerre, le povertà, le oppressioni”.
Come nasce l’interesse della Chiesa e dei Papi per l’astronomia?
Le origini si possono far risalire a Gregorio XIII, che fu l’artefice della riforma del calendario nel 1582. Padre Cristoforo Clavio, gesuita del Collegio romano, fece parte della commissione che studiò questa riforma. Tra Settecento e Ottocento sorsero ben tre osservatori per iniziativa dei Pontefici. Poi nel 1891, in un momento di conflitto tra il mondo della Chiesa e il mondo scientifico, Papa Leone XIII volle fondare, o meglio rifondare, la Specola Vaticana. Lo fece proprio per mostrare che la Chiesa non era contro la scienza ma promuoveva una scienza “vera e solida”, secondo le sue stesse parole. La Specola è nata dunque con uno scopo essenzialmente apologetico, ma col passare degli anni è divenuta parte del dialogo della Chiesa col mondo.
Lo studio delle leggi del cosmo avvicina o allontana da Dio?
L’astronomia ha un valore profondamente umano. È una scienza che apre il cuore e la mente. Ci aiuta a collocare nella giusta prospettiva la nostra vita, le nostre speranze, i nostri problemi. In questo senso – e qui parlo come prete e come gesuita – è anche un grande strumento apostolico che può avvicinare a Dio.
Eppure molti astronomi non perdono occasione per fare pubblica professione di ateismo.
Direi che è un po’ un mito ritenere che l’astronomia favorisca una visione atea del mondo. Mi sembra che proprio chi lavora alla Specola offra la testimonianza migliore di come sia possibile credere in Dio e fare scienza in modo serio. Più di tante parole conta il nostro lavoro. Contano la credibilità e i riconoscimenti ottenuti a livello internazionale, le collaborazioni con colleghi e istituzioni di ogni parte del mondo, i risultati delle nostre ricerche e delle nostre scoperte. La Chiesa ha lasciato un segno nella storia della ricerca astronomica.
Ci faccia qualche esempio.
Basterebbe ricordare che una trentina di crateri della luna portano i nomi di antichi astronomi gesuiti. E che un asteroide del sistema solare è stato intitolato al mio predecessore alla direzione della Specola, padre George Coyne. Si potrebbe richiamare inoltre l’importanza di contributi come quelli di padre O’Connell all’individuazione del “raggio verde” o di fratello Consolmagno al declassamento di Plutone. Per non parlare dell’attività di padre Corbally – vicedirettore del nostro centro astronomico di Tucson – che ha lavorato con un team della Nasa alla recente scoperta di asteroidi residui della formazione di sistemi binari di stelle.
L’interesse della Chiesa per lo studio dell’universo si può spiegare col fatto che l’astronomia è l’unica scienza che ha a che fare con l’infinito e quindi con Dio?
Per essere precisi, l’universo non è infinito. È molto grande ma è finito, perché ha un’età: circa quattordici miliardi di anni, secondo le nostre conoscenze più recenti. E se ha un’età, significa che ha un limite anche nello spazio. L’universo è nato in un determinato momento e da allora si espande continuamente.
Da che cosa ha avuto origine?
Quella del big bang resta, a mio giudizio, la migliore spiegazione dell’origine dell’universo che abbiamo finora dal punto di vista scientifico.
E da allora che cosa è successo?
Per trecentomila anni la materia, l’energia, la luce sono rimaste unite in una sorta di miscela. L’universo era opaco. Poi si sono separate. Così noi adesso viviamo in un universo trasparente, possiamo vedere la luce: quella delle galassie più lontane, per esempio, che è arrivata a noi dopo undici o dodici miliardi di anni. Bisogna ricordare che la luce viaggia a trecentomila chilometri al secondo. Ed è proprio questo limite a confermarci che l’universo oggi osservabile non è infinito.
La teoria del big bang avvalora o contraddice la visione di fede basata sul racconto biblico della creazione?
Da astronomo, io continuo a credere che Dio sia il creatore dell’universo e che noi non siamo il prodotto della casualità ma i figli di un padre buono, il quale ha per noi un progetto d’amore. La Bibbia fondamentalmente non è un libro di scienza. Come sottolinea la Dei verbum, è il libro della parola di Dio indirizzata a noi uomini. È una lettera d’amore che Dio ha scritto al suo popolo, in un linguaggio che risale a duemila o tremila anni fa. All’epoca, ovviamente, era del tutto estraneo un concetto come quello del big bang. Dunque, non si può chiedere alla Bibbia una risposta scientifica. Allo stesso modo, noi non sappiamo se in un futuro più o meno prossimo la teoria del big bang sarà superata da una spiegazione più esauriente e completa dell’origine dell’universo. Attualmente è la migliore e non è in contraddizione con la fede. È ragionevole.
Ma nella Genesi si parla della terra, degli animali, dell’uomo e della donna. Questo esclude la possibilità dell’esistenza di altri mondi o esseri viventi nell’universo?
A mio giudizio questa possibilità esiste. Gli astronomi ritengono che l’universo sia formato da cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali è composta da cento miliardi di stelle. Molte di queste, o quasi tutte, potrebbero avere dei pianeti. Come si può escludere che la vita si sia sviluppata anche altrove? C’è un ramo dell’astronomia, l’astrobiologia, che studia proprio questo aspetto e che ha fatto molti progressi negli ultimi anni. Esaminando gli spettri della luce che viene dalle stelle e dai pianeti, presto si potranno individuare gli elementi delle loro atmosfere – i cosiddetti biomakers - e capire se ci sono le condizioni per la nascita e lo sviluppo della vita. Del resto, forme di vita potrebbero esistere in teoria perfino senza ossigeno o idrogeno.
Si riferisce anche ad esseri simili a noi o più evoluti?
È possibile. Finora non abbiamo nessuna prova. Ma certamente in un universo così grande non si può escludere questa ipotesi.
E questo non sarebbe un problema per la nostra fede?
Io ritengo di no. Come esiste una molteplicità di creature sulla terra, così potrebbero esserci altri esseri, anche intelligenti, creati da Dio. Questo non contrasta con la nostra fede, perché non possiamo porre limiti alla libertà creatrice di Dio. Per dirla con san Francesco, se consideriamo le creature terrene come “fratello” e “sorella”, perché non potremmo parlare anche di un “fratello extraterrestre”? Farebbe parte comunque della creazione.
E per quanto riguarda la redenzione?
Prendiamo in prestito l’immagine evangelica della pecora smarrita. Il pastore lascia le novantanove nell’ovile per andare a cercare quella che si è persa. Pensiamo che in questo universo possano esserci cento pecore, corrispondenti a diverse forme di creature. Noi che apparteniamo al genere umano potremmo essere proprio la pecora smarrita, i peccatori che hanno bisogno del pastore. Dio si è fatto uomo in Gesù per salvarci. Così, se anche esistessero altri esseri intelligenti, non è detto che essi debbano aver bisogno della redenzione. Potrebbero essere rimasti nell’amicizia piena con il loro Creatore.
Insisto: se invece fossero peccatori, sarebbe possibile una redenzione anche per loro?
Gesù si è incarnato una volta per tutte. L’incarnazione è un evento unico e irripetibile. Comunque sono sicuro che anche loro, in qualche modo, avrebbero la possibilità di godere della misericordia di Dio, così come è stato per noi uomini.
Il prossimo anno si celebra il bicentenario della nascita di Darwin e la Chiesa torna a confrontarsi con l’evoluzionismo. L’astronomia può offrire un contributo a questo confronto?
Come astronomo posso dire che dall’osservazione delle stelle e delle galassie emerge un chiaro processo evolutivo. Questo è un dato scientifico. Anche qui io non vedo contraddizione tra quello che noi possiamo imparare dall’evoluzione – purché non diventi un’ideologia assoluta – e la nostra fede in Dio. Ci sono delle verità fondamentali che comunque non mutano: Dio è il creatore, c’è un senso alla creazione, noi non siamo figli del caso.
Su queste basi, è possibile un dialogo con gli uomini di scienza?
Direi che anzi è necessario. La fede e la scienza non sono inconciliabili. Lo diceva Giovanni Paolo II e lo ha ripetuto Benedetto XVI: fede e ragione sono le due ali con cui si eleva lo spirito umano. Non c’è contraddizione tra quello che noi sappiamo attraverso la fede e quello che apprendiamo attraverso la scienza. Ci possono essere tensioni o conflitti, ma non dobbiamo averne paura. La Chiesa non deve temere la scienza e le sue scoperte.
Come invece è avvenuto con Galileo.
Quello è certamente un caso che ha segnato la storia della comunità ecclesiale e della comunità scientifica. È inutile negare che il conflitto ci sia stato. E forse in futuro ce ne saranno altri simili. Ma penso che sia arrivato il momento di voltare pagina e guardare piuttosto al futuro. Questa vicenda ha lasciato delle ferite. Ci sono stati malintesi. La Chiesa in qualche modo ha riconosciuto i suoi sbagli. Forse si poteva fare di meglio. Ma ora è il momento di guarire queste ferite. E ciò si può realizzare in un contesto di dialogo sereno, di collaborazione. La gente ha bisogno che scienza e fede si aiutino a vicenda, pur senza tradire la chiarezza e l’onestà delle rispettive posizioni.
Ma perché oggi è così difficile questa collaborazione?
Credo che uno dei problemi del rapporto tra scienza e fede sia l’ignoranza. Da una parte, gli scienziati dovrebbero imparare a leggere correttamente la Bibbia e a comprendere le verità della nostra fede. Dall’altra, i teologi e gli uomini di Chiesa dovrebbero aggiornarsi sui progressi della scienza, per riuscire a dare risposte efficaci alle questioni che essa pone continuamente. Purtroppo anche nelle scuole e nelle parrocchie manca un percorso che aiuti a integrare fede e scienza. I cattolici spesso rimangono fermi alle conoscenze apprese al tempo del catechismo. Credo che questa sia una vera e propria sfida dal punto di vista pastorale.
Cosa può fare in questo senso la Specola?
Diceva Giovanni XXIII che la nostra missione deve essere quella di spiegare agli astronomi la Chiesa e alla Chiesa l’astronomia. Noi siamo come un ponte, un piccolo ponte, tra il mondo della scienza e la Chiesa. Lungo questo ponte c’è chi va in una direzione e chi va in un’altra. Come ha raccomandato Benedetto XVI a noi gesuiti in occasione dell’ultima congregazione generale, dobbiamo essere uomini sulle frontiere. Credo che la Specola abbia questa missione: essere sulla frontiera tra il mondo della scienza e il mondo della fede, per dare testimonianza che è possibile credere in Dio ed essere buoni scienziati.
Francesco M. Valiante - L’Osservatore Romano 14 maggio 2008
(Fonte: www.associazionelatorre.com)
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