Giulio Meotti: "Ebrei contro Israele" - Recensione



Se c’è un argomento in grado di mettere in subbuglio il mondo ebraico è la posizione pubblica dei suoi intellettuali nei confronti del sionismo e dello Stato di Israele. Su questo tema esplosivo, fonte da sempre di scontri durissimi all’interno delle comunità italiane, ha messo le mani il giornalista del Foglio Giulio Meotti con un pamphlet al vetriolo intitolato Ebrei contro Israele (editore Belforte 111 pagine, 14 euro), in cui denuncia il presunto «odio di sé» di tanti scrittori, giornalisti e uomini di cultura ebrei che avrebbero assunto verso lo Stato ebraico né più né meno che il punto di vista dei suoi nemici.

Il libro, che ho letto in anteprima, va molto al di là dell’Italia, mettendo nel mirino intellettuali e politici ebrei del presente e del passato di diversi paesi (dall’austriaco Bruno Kreisky alla tedesca Hannah Arendt, dall’americano Henry Kissinger al francotedesco Daniel Cohn-Bendit) e perfino alcuni di nazionalità israeliana, come gli scrittori David Grossmann e Amos Oz, o il musicista Daniel Baremboim. Ma non c’è dubbio che saranno i nomi di quelli italiani ad alimentare nelle prossime settimane le polemiche sia dentro che fuori delle comunità. Tanto più che negli ultimi mesi alcuni di loro sono stati più volte protagonisti di aspri confronti con i rappresentanti dell’ebraismo ufficiale.

Il giudizio di Meotti (non ebreo animato da una grande passione per Israele) è molto severo nei confronti di personaggi di spicco come Gad Lerner, Moni Ovadia e altri esponenti del J-Call (European Jewish Call for Reason), abituati a criticare Israele per l’occupazione dei territori palestinesi e quasi mai, a giudizio dell’autore, a considerare i rischi, la sofferenza, i lutti affrontati ogni giorno dagli israeliani.

«Non c’è compiacenza» dice ad esempio Meotti a proposito dell’ultimo libro di Lerner, Scintille «per il grado di felice integrazione di etnie, lingue ed esperienze diverse in Israele, per la forza delle sue istituzioni e della cultura laica e religiosa. Non c’è traccia di generosità verso l’esperimento sionista, un paese che respira fra la vita e la morte da sessant’anni e che fin dai propri albori ha combattuto duramente restando una grandissima democrazia».

Faranno discutere di sicuro le stroncature di due scrittori particolarmente amati dalla sinistra italiana come Natalia Ginzburg e Primo Levi. A entrambi Meotti rimprovera, fra l’altro, di aver avallato e contribuito a diffondere la formula retorica delle «vittime che si fanno carnefici», per anni usata e abusata dalla stampa italiana. Più in generale si imputa più o meno a tutti costoro una fondamentale mancanza di empatia verso l’unico baluardo che separa il popolo ebraico dal rischio della sua sparizione. In effetti la rassegna delle affermazioni critiche verso Israele dei vari personaggi, quasi sempre riportate fra virgolette, fa una certa impressione, anche se non avrebbe nuociuto al libro qualche distinguo fra le diverse figure e i contesti in cui sono state pronunciate le frasi incriminate.

In realtà, con la vistosa eccezione di Henry Kissinger, il libro è soprattutto una carrellata di posizioni assunte nel corso dei decenni dagli ebrei di sinistra, molte delle quali denunciano chiaramente l’armamentario ideologico e i riflessi mentali di quella cultura. A partire dal bisogno di essere accettati e considerati politicamente corretti dai propri lettori o amici (ebrei e non ebrei) della stessa parte politica. Ecco, in questa difficoltà a resistere alla pressione culturale esterna è forse la vera debolezza degli ebrei ipercritici nei confronti di Israele. Anche se non andrebbe neppure dimenticata (meno drammaticamente) la tendenza alla controversia e al dibattito che fa parte del panorama ebraico di ogni epoca in tutte le parti del mondo. Da cui il detto «due ebrei, tre opinioni».

Stefano Caviglia

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