La schiavitù del male di Niccolò Machiavelli, maestro del consequenzialismo e del relativismo


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“L’ho fatto sì, ma a fin di bene”. Come dire che noi giudichiamo gli altri per ciò che fanno, ma vogliamo essere giudicati per le nostre intenzioni. La confusione nasce dal consequenzialismo, la credenza che i fini giustifichino i mezzi. E, a dispetto che questo principio sia stato condannato dai tempi di S. Paolo (Rom. 3, 8), molti anche tra i cristiani ci credono pacificamente. In politica, il consequenzialismo non è un errore di questo o quel partito, ma li riguarda tutti, dalla sinistra impegnata sull’aborto alla destra che difende la tortura. Nella seconda guerra mondiale l’Asse usò la scusa consequenzialista per bombardare Londra, Rotterdam, Pearl Harbor e Nanchino e gli Alleati incenerirono innocenti allo stesso modo a Dresda, Tokyo, Hiroshima e Nagasaki. Ne abbiamo parlato un paio di anni fa ricordando G.E.M. Anscombe, una delle più grandi filosofe di tutti i tempi, maestra di etica che si oppose a Truman; oggi ci ritorniamo nell’anniversario della morte d’un cattivo maestro, che di Truman sarebbe stato un consigliere adatto: Niccolò Machiavelli (1469-1527).

Generalmente, il trucco con cui assopiamo la coscienza quando facciamo il male a buon fine è la pretesa che il fine compensi in abbondanza il male che facciamo, come se noi – o qualsiasi altri al mondo – fossimo in grado di calcolare tutte le conseguenze delle nostre azioni. Se il fine buono che ci prefiggiamo è raggiunto, ci vantiamo dicendo che è andato tutto per il meglio. Se invece la manovra non funziona e siamo sorpresi con le dita nella marmellata, allora raccontiamo che volevamo fare un regalo alla mamma: sì, non era tutto a posto, ma l’abbiamo fatto con buone intenzioni. Noi non stiamo rubando alla stregua dei cattivi, perché i cattivi rubano per fare il male (per comprarsi la droga, ad esempio), mentre noi rubiamo per fare il bene. È gratificante costruirci nella mente tutta una serie di “caratteri” veramente cattivi – nazisti, pedofili, terroristi tagliatori di teste, assassini di donne, … – così da assolverci dei nostri peccatucci, senza pentimenti né volontà di conversione.

Il consequenzialismo è il principio lodatissimo da Machiavelli, immeritatamente sottaciuto fondatore della filosofia politica, economica e sociale moderne. Raramente nella storia del pensiero un solo uomo fu responsabile d’una rivoluzione così radicale. Di ciò quegli fu orgogliosamente cosciente, essendosi paragonato a Cristoforo Colombo come scopritore d’un nuovo mondo e a Mosè come capo d’un nuovo popolo eletto, che si sarebbe liberato dalla schiavitù delle vecchie zavorre morali per abitare una terra promessa, potente e pragmatica.

Secondo il pensiero di tutti i filosofi classici, la prima dote del politico è la virtù. Una buona società si poteva concepire solo come insieme di uomini buoni, a cominciare dal primo, “il principe” – oggi diremmo il leader – …, fino a che l’impensabile non fu teorizzato nella splendida Firenze del ‘500 da un suo figlio poliedrico, un genio universale, che propose la politica come l’arte pubblica non più del bene, ma del possibile. L’influenza di Machiavelli fu enorme: sulle sue orme, Hobbes, Locke, Rousseau, Smith, Kant, Hegel, Marx, Nietzsche, Dewey…, tutta la filosofia politica, economica e sociale moderna, compreso il business management, accantonarono la virtù ed abbracciarono la nuova bandiera. Machiavelli paragonò le norme della morale tradizionale alle stelle: belle ma troppo distanti per illuminare il nostro cammino terreno. Ci servono invece lanterne di fattura umana, in altre parole obiettivi a portata di mano. Nella nostra condotta lasciamoci condizionare dalla terra, non dal cielo; da ciò che uomini e società fanno realmente, non da ciò che dovrebbero fare secondo comandamenti astratti.

Il cuore della rivoluzione di Machiavelli stette nel giudicare l’ideale in base all’ordinario, piuttosto che l’inverso. Un ideale è buono solo se è concreto, cioè raggiungibile, possibilmente col minimo sforzo ed eventualmente con ogni mezzo. Per questo Machiavelli è il vero padre del pragmatismo. Non solo “il fine giustifica i mezzi” – una frase ch’egli letteralmente non pronunciò mai, eppure ben sintetizza il suo pensiero – ma anche “i mezzi giustificano il fine”, nel senso che vale la pena di perseguire un fine solo se abbiamo i mezzi per raggiungerlo. Il nuovo Sommo Bene è il successo. Che cosa di più attuale e americano del pensiero di questo fiorentino di mezzo millennio fa?

Machiavelli non ha abbassato l’asticina della morale, l’ha abolita. Il suo insegnamento è che il politico deve “imparare, volendosi mantenere, a poter essere non buono” (Il Principe, 1532), tradendo le promesse, mentendo, ingannando e rubando. Machiavelli superò l’ipocrisia abbassando la predica al comportamento e così conformando l’ideale al pratico, piuttosto che protendendo il pratico all’ideale. Ben prima della famosa pop star, egli cantò “Papa, don’t preach”, papà non farmi prediche. Ve lo immaginate Mosè dire a Dio sul Sinai “Padre, non farmi prediche”?

Per queste vedute, “Il Principe” fu considerato alla sua apparizione un libro scritto dal diavolo. Oggi, nelle scuole di politica o di business invece, il machiavellismo è scienza: scienze politiche, scienze sociali, scienze economiche, scienze della finanza, scienze della comunicazione. I moderni adepti, dalla Bocconi alla Duke alla Harvard, ovviamente non ammettono di negare la moralità, dicono di parlare d’altro, dell’essere invece che del dover essere. Semplicemente, l’etica non sarebbe “scienza”, ma roba per sognatori. I princìpi machiavellici sono elogiati per la loro schiettezza, come se insegnare l’etica ai giovani – i leader di domani – fosse da ipocriti. Di fatto, oggi i professori servi dell’establishment fraintendono l’ipocrisia, che non sta tanto nell’umana incapacità a praticare sempre il bene predicato, ma piuttosto nella diabolica attitudine a predicare ciò che non si crede! L’ipocrisia sta nel propagandare ciò che si crede falso, non nell’inciampare su ciò che si continua a reputare disonesto.

Machiavelli vedeva la vita umana e la storia determinate da due agenti: la “Virtù”, intesa paganamente come forza, determinazione, violenza e la “Fortuna”, cioè il caso. L’equazione del successo è semplice: massimizzare la Virtù e minimizzare la Fortuna. Per questa ottimizzazione individuò due precisi strumenti, atti a controllare il comportamento degli uomini e governare la storia: la penna e la spada, ovvero la propaganda e le armi. Poiché gli uomini sono tutti costituzionalmente egoisti, un modo efficace per ottener da loro il comportamento voluto è la forza, che li costringa ad agire contro natura. Non l’amore, ma la paura li smuove: “È molto più sicuro essere temuto che amato … [in quanto]gli uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da un vinculo di obligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione de propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura piena che non ti abbandona mai”. Machiavelli chiuse il suo testamento politico con un’immagine vividissima: “Meglio essere impetuoso, che rispettoso, perché la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla; e si vede che ella si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettosi, più feroci, e con più audacia la comandano”. In altre parole, il segreto del successo sta in una specie di machismo stupratore. L’applicazione più fedele di quest’insegnamento è data oggi dagli yuppie di Wall Street…

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Machiavelli ritratto da Santi di Tito (seconda metà del XVI sec.)

Naturalmente non bisogna esagerare negli stupri. Se il popolo si ribella, vuol dire che il governo è proprio, ma proprio incompetente, perché – osserva il Nostro – il popolo si accontenta di poco, è passivo e mansueto come un gregge di pecore. Il popolo non è incline a ribellarsi, a meno che non sia provocato. Piuttosto i “grandi” – i ricchi e i potenti – provocano guai, perché sono ambiziosi ed hanno i mezzi per portare avanti le loro ambizioni. Quindi il governo badi a conservare gli interessi dei grandi, senza esagerare nell’oppressione dei piccoli.

In ogni caso, le armi sono importantissime e su ciò Machiavelli fu un falco, verso l’interno come verso l’esterno, “perché non possono essere buone leggi dove non sono buone armi, e, dove sono buone armi conviene che siano buone leggi” e perché rinviare la guerra favorisce quasi sempre il nemico: “Tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno”. Mao Zedong, per il quale la giustizia “esce dalla canna del fucile”, fu un suo seguace moderno. Solo Gesù, il massimo profeta disarmato, è un’eccezione fastidiosa: fu crocifisso e sepolto (e risuscitò?!), eppure il suo messaggio conquistò il mondo con le sole armi intellettuali.
Accoppiando l’ipocrisia alla propaganda, Machiavelli risulta anche il fondatore delle moderne scienze della comunicazione. Il principe, sappiamo, non può permettersi di essere morale, egli sceglie infatti il bene o il male secondo la necessità di conservare il potere; tuttavia, deve almeno apparire morale. To look or not to look questo è il problema degli Amleto moderni! La parvenza è necessaria perché mentre i grandi possono usare appoggi e strumenti immorali, il popolo invece crede ingenuamente nella moralità. Perciò il consiglio machiavellico (questo sì ipocrita) è che i principi tengano sempre ad apparire giusti, pii, umani e fedeli alle promesse…

Infine, da Machiavelli nasce il relativismo moderno. Il ragionamento è semplice: la moralità viene solo dalla società, perché non c’è Dio né legge morale naturale universale data da Dio. Ogni società poi ha avuto origine dalla violenza. La società romana, patria del declamato diritto, ebbe origine dall’assassinio di Remo operato dal fratello Romolo. Tutta la storia umana comincia con l’assassinio di Abele da parte di Caino. Perciò come il fondamento della morale è l’immoralità, così quello della legge è l’illegalità. Anche questo teorema è logicamente ineccepibile, la verità della sua conclusione traendosi, come in ogni teorema matematico, dalla verità delle sue premesse (poiché non c’è Dio…). Se questo ragionamento pervade tutti gli attuali testi di sociologia e di antropologia, è perché i moderni autori condividono implicitamente l’ateismo.

Con argomenti simili Machiavelli criticò la virtù cristiana della carità. Come hai ottenuto i beni che oggi vuoi dispensare, se non attraverso una competizione spietata? Tutti i beni si guadagnano a spese degli altri: se la mia fetta di torta è così grande, vuol dire che quella di altri è più piccola. Anche l’altruismo dunque è figlio dell’egoismo. Ma anche questo, come i precedenti, è un ragionamento corretto entro la validità delle sue premesse materialistiche: più denaro guadagno, meno ne resta per gli altri e più ne distribuisco meno me ne resta, è vero. Ma i beni spirituali non diminuiscono quando sono distribuiti ed io non li tolgo a nessuno quando li acquisto: l’amore, la conoscenza e la saggezza aumentano piuttosto che diminuire quando li condivido. I materialisti non vedono questa differenza, o non se ne curano.

La filosofia brutale di Machiavelli ha conquistato il pensiero moderno, lo ha occupato in maniera così pervasiva che neanche ce ne accorgiamo. È tutto maledettamente logico, date le premesse: nessun Dio, solo l’uomo; nessun’anima, solo corpo; nessuno spirito, solo materia; nessun dovrebbe essere, solo così è. La logica di Machiavelli è la menzogna più felice della modernità. Essa viene oggi prodotta e consumata in quantità industriale, come si deve per un’era tecno-scientifica fondata sul “funziona?” (W. Allen). Essa fa apparire il male un bene desiderabile, o almeno inevitabile; fa apparire la schiavitù del male come libertà e all’inverso “la libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom. 8, 21) come schiavitù. Il “padre della menzogna” (Giov. 8, 34), non ama le piccole bugie, ma la Grande Menzogna, quella che capovolge in un colpo tutte le verità; poi il Maligno s’eclissa alla vista, a negare la verità della sua stessa esistenza, a meno che noi cristiani non facciamo saltare la copertura – l’ateismo implicito – dei suoi agenti, più o meno consapevoli.

Giorgio Masiero

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