Il grande equivoco
Io personalmente non mi vergogno affatto di essere italiano, ritengo la mia identità nazionale una parte molto importante di ciò che definisce la mia identità come uomo. Riguardo all’atteggiamento antipatriottico così diffuso, ritengo che:
Si tratta prima di tutto di una forma di snobismo, di snobismo meschino, da anticonformisti fabbricati in serie, rigorosamente uguali a tutti gli altri anticonformisti, che credono di mostrare chissà quale originalità di pensiero proclamandosi antipatriottici, e non riescono a capire che in questa nostra “serva Italia di dolore ostello”, è per proclamarsi italiani a testa alta, che ci vuole coraggio.
Nel marzo 2010 mi è capitato di leggere il bell’articolo di Maurizio Blondet sul sito della Effedieffe, Senza verità, niente risorgimento, dove le ragioni antirisorgimentali sono esposte con chiarezza e persuasività.
Certo, il risorgimento lati oscuri ne ha avuti e non pochi, e occorrerebbe un’assoluta cecità per non volerlo ammettere.
D’un tratto, ho avuto una sorta di intuizione: Non è che tutti noi, patrioti e antirisorgimentali siamo caduti in un equivoco, confondendo due cose molto diverse che sarebbe ora di tenere ben distinte?
Da un lato il sano, normale, doveroso senso di appartenenza alla propria nazione, la cui identità, unità e indipendenza sono state conculcate per secoli e, per quanto riguarda il fenomeno risorgimentale, l’insorgenza spontanea del nostro popolo stanco dell’oppressione e della dominazione straniere. Dall’altro, un movimento politico di uomini con tutt’altre finalità che a un certo punto si è impadronito del moto popolare distorcendolo a finalità non dichiarate e di tutt’altro genere.
Il caso è forse analogo alla storia dei movimenti socialisti che sono nati dalla ribellione naturale e legittima delle classi lavoratrici di fronte allo sfruttamento e alle ingiustizie della rivoluzione industriale, confiscata poi da una intellighenzia volta a instaurare il sistema di tirannidi e privilegi di tipo sovietico.
La confusione fra le due cose, il normale senso di appartenenza alla nostra nazione e l’inconsapevole complicità con l’internazionalismo massonico volto a scalzare i fondamenti dell’Europa tradizionale (con tinteggiature più o meno risorgimentali), è il grande equivoco che ha pesato sinistramente su tutta la nostra storia, forse secondo solo all’altro grande equivoco immenso e rosso che ha indotto a scambiare l’insieme di tirannidi più sanguinarie della storia per il movimento di liberazione dei lavoratori.
Adesso di quest’ultimo non ci occuperemo, ma vedremo di dissipare una volta per tutte quello che aduggia le radici della nostra storia patria.
Giuseppe Mazzini forse uno dei pochissimi ingenui in buona fede che si sono trovati alla testa del moto risorgimentale, dimostrò un barlume di comprensione quando, riguardo all’insurrezione parigina del 1830 che determinò il passaggio del potere dai castelli alle banche, scrisse (Dei doveri degli uomini):
“Chiamate traditori quegli uomini? Dovreste chiamare traditrici le loro idee.
La verità pura e semplice, è che, almeno dopo il 1848, il moto risorgimentale, tanto nella variante garibaldina quanto in quella cavouriana (il solito gioco delle parti fra destra e sinistra fra le quali non c’è nessuna differenza sostanziale) fu sponsorizzato dalla massoneria internazionale le cui teste si trovavano a Washington, Londra e Parigi. L’unità italiana fu un effetto collaterale di un movimento le cui finalità erano altre, tendente a sostituire in tutta Europa la tradizionale egemonia del sangue delle classi aristocratiche con quella del denaro.
Tutte le volte che l’interesse dell’Italia era in contrasto con quello della loggia, i patrioti scelsero quest’ultimo, dando così un’implicita dimostrazione di quale fosse la loro vera patria. Cominciarono i garibaldini comandati da Nino Bixio reprimendo con estrema durezza l’insurrezione contadina di Bronte; lì c’era la Ducea di Nelson, lì c’erano interessi inglesi da tutelare. Cerchiamo di avere le idee chiare a questo proposito: mille uomini o poco più, quante erano le camicie rosse, non avrebbero mai potuto avere la meglio su di un regno esteso a metà della Penisola come era quello borbonico, senza il consenso e l’attivo sostegno delle popolazioni. Pochi anni dopo esplodeva nel meridione la rivolta popolare fatta passare per brigantaggio, lo scollamento fra le plebi meridionali e lo stato unitario era completo. Questo lo si dovette all’esosa fiscalità piemontese, al servizio di leva obbligatorio, ma prima ancora a Bronte ed episodi dello stesso genere.
Nel 1870 i garibaldini accorrono in Francia ad aiutare Napoleone III contro i Prussiani, quello stesso Napoleone III, per intenderci, che nel 1848 aveva soffocato nel sangue la Repubblica Romana, che nel 1859 aveva abbandonato il Piemonte in guerra con l’Austria concludendo unilateralmente l’armistizio di Villafranca, che nonostante ciò nel 1860 aveva preteso ugualmente l’annessione di Nizza e della Savoia, le cui truppe nel 1867 a Mentana avevano fatto a pezzi gli stessi garibaldini, e che al momento presente era l’ostacolo all’annessione di Roma.
Peggio, molto peggio fecero i diretti eredi di Cavour, la cosiddetta destra storica nel quindicennio 1861-1876, che rinunciarono a priori a qualsiasi progetto di sviluppo industriale e di espansione coloniale perché l’Italia non entrasse in concorrenza con gli interessi inglesi e francesi. Un ritardo che, sommandosi a quelli accumulati nella nostra storia preunitaria, doveva avere conseguenze pesanti per noi per quasi un secolo.
Poiché bene o male, più male che bene, l’Italia era stata fatta, se se ne voleva fare una nazione in grado di avere un posto nel concerto delle potenze degno della sua storia e del suo popolo, occorreva una politica che fosse precisamente l’opposto di quella che la destra storica aveva perseguito: industrializzazione, espansione coloniale e un riavvicinamento al mondo germanico.
L’Austria, contro cui avevamo combattuto la maggior parte delle guerre risorgimentali, non era stato che l’ultimo di una lunga serie di invasori e dominatori stranieri iniziata con gli Eruli di Odoacre e gli Ostrogoti di Teodorico.
Quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio nazionale che diede vita al risorgimento, non fu una rivolta contro gli Austriaci ma contro i Francesi: la ribellione di Verona ai soprusi delle truppe napoleoniche, che doveva portare alla repressione tristemente nota come pasque veronesi; i Francesi erano poi stati di nuovo nostri nemici nel 1848, quando le truppe di Napoleone III erano accorse a soffocare la repubblica romana e a ripristinare lo stato pontificio. Con la Prussia, divenuta impero germanico nel 1871, non avevamo nessun genere di contenzioso; anzi, era grazie ad essa e a Bismark, che avevamo avuto il Veneto nel 1866 e il Lazio con Roma nel 1870.
La Triplice Alleanza stipulata da Germania, Austria-Ungheria e Italia nel 1882 era nella logica delle cose; non solo per l’Italia era essenziale in quanto l’esigenza di una politica coloniale la portava in diretto conflitto con Francia e Inghilterra, ma, considerando le cose in una prospettiva geopolitica e geostrategica, il mondo italo-austro-germanico rappresentava un asse naturale, il nucleo, lo zoccolo duro dell’Europa di fronte alla doppia minaccia alla sua preminenza planetaria che veniva da occidente con Londra e Parigi che recitavano sempre più il ruolo di battistrada e vassalli della potenza d’oltre atlantico, e da oriente nella forma fino al 1917 del panslavismo e, a partire da quella data, del comunismo sovietico.
Non si può che constatare la veridicità dell’affermazione di Julius Evola secondo cui l’Italia si trovò a dover combattere la seconda guerra mondiale dalla parte giusta per aver combattuto la prima dalla parte sbagliata. Semmai, si può osservare che se il primo tempo dell’immane conflitto che lacerò il nostro continente dal 1914 al 1945 si fosse concluso con la sconfitta dei nemici dell’Europa, probabilmente avremmo potuto affrontare il secondo in condizioni molto migliori, o forse esso non sarebbe stato nemmeno necessario, e la partecipazione dell’Italia dalla parte giusta fin dal primo momento, avrebbe forse potuto fare la differenza.
Il capovolgimento di fronte del maggio 1915 per l’Italia non fu soltanto il vergognoso preludio di quell’altro disonorevole voltafaccia avvenuto l’8 settembre 1943, ma obbiettivamente andò contro l’interesse nazionale italiano e nella direzione del suicidio dell’Europa, perché sotto le bandiere dell’Intesa erano raccolte le forze anti-europee, in particolare le due potenze che si spartiranno il nostro continente nel 1945 al termine di uno scontro trentennale di cui le due guerre mondiali non furono che il primo e il secondo tempo.
Ancora oggi gli storici (che solitamente riflettono il punto di vista dei vincitori) dimostrano un singolare imbarazzo nel parlare della prima guerra mondiale, un conflitto che sembrerebbe senza cause. E’ perlomeno strano che quello che secondo ogni logica sarebbe dovuto essere un localizzato conflitto austro-serbo (provocato dall’assassinio del principe ereditario austriaco da parte di un terrorista serbo, non scordiamolo), si sia trasformato all’improvviso in una deflagrazione europea e mondiale in base a null’altro che al meccanismo impazzito delle alleanze.
Ciò non è credibile e, per svelare il mistero, occorre porsi la domanda che si fa ogni buon detective, cui prodest? A chi giova? Chi era interessato a scatenare sul continente europeo un conflitto altamente distruttivo e di lunga durata? Questa domanda ci indirizza verso un indiziato preciso: la Gran Bretagna.
La rivoluzione industriale, lo sappiamo, è iniziata in Gran Bretagna già alla metà del XVIII secolo ed ha assicurato agli Inglesi per tutto l’ottocento un’egemonia planetaria, ma alla fine del XIX secolo l’apparato industriale britannico era ormai obsoleto e perdeva terreno sotto i colpi della concorrenza di due nuove potenze industriali: gli Stati Uniti e la Germania: la scienza tedesca, la tecnica tedesca, l’organizzazione tedesca in particolare erano la meraviglia del tardo XIX secolo. Gli Stati Uniti erano a ogni modo fuori dalla portata del raggio d’azione britannico ed avevano una sfera d’influenza distinta da quella del Vecchio Mondo, ma la Germania era tutto un altro affare, con i Tedeschi si potevano regolare i conti in maniera diretta, anche perché la natura insulare dell’Inghilterra la metteva al riparo dalle conseguenze più distruttive di una guerra continentale.
Queste non sono illazioni: abbiamo una testimonianza precisa che finora gli storici hanno (scientemente o no) ignorato circa il fatto che nei circoli del potere britannico, alle spalle della politica ufficiale, si è preparata la conflagrazione di cui l’attentato di Sarajevo ha costituito l’innesco. Questa testimonianza ci viene da un uomo che scontò con la detenzione la sua opposizione al conflitto, un uomo che molti considerano il maggior filosofo del XX secolo, e che fu certamente uno degli spiriti più indipendenti della sua epoca, il filosofo inglese Bertrand Russell, una testimonianza a dire il vero presentata in una forma abbastanza curiosa, al punto da far pensare che Russell abbia ritenuto che certe cognizioni potessero o possano circolare solo in forma semiclandestina.
In un testo dal buffo titolo, Il terribile giuramento della signorina X, che comprende le non frequenti incursioni di Russell nel campo della narrativa, troviamo un brano molto interessante dal nostro punto di vista, che non contiene esercitazioni letterarie:
Leggendo la storia come non viene mai scritta, ne riporto uno stralcio.
Russell in particolare indica un nome preciso fra i politici britannici che furono responsabili di aver preparato il conflitto all’insaputa della nazione, del parlamento, di gran parte dello stesso governo: sir Edward Grey:
Sir Edward Grey, allora all’opposizione, parlò a favore di quella che poi diventò la politica delle Ententes con la Francia e la Russia, che venne adottata dal governo conservatore circa due anni più tardi e successivamente consolidata da sir Edward Grey quando egli divenne ministro degli esteri. Espressi con decisione il mio parere contro questa politica, che a mio avviso conduceva dritto alla guerra mondiale
Naturalmente, sir Edward Grey non era il solo.
Quando la flotta russa sparò contro dei pescherecci inglesi al Dogger Bank, approvai Arthur Balfour [Il primo ministro di allora] del quale in genere pensavo male, perché trattò l’incidente con spirito conciliante. Non mi accorsi allora che stava soltanto preparando guerre di più vasta portata (…).
Ancora meno mi accorsi che durante le elezioni generali del 1906 quando i liberali venivano appoggiati soprattutto perché meno guerrafondai dei tories, sir Edward Grey, senza che né il parlamento né la nazione e neppure la maggior parte del governo ne fossero al corrente, diede il via a quegli accordi militari e navali con la Francia, che c’impegnavano se non altro per una questione d’onore, a sostenere la Francia in guerra, sebbene sir Edward Grey ripetesse più volte in Parlamento l’affermazione che non eravamo impegnati. Il nostro accordo con la Francia ci impegnava ad appoggiare la conquista francese del Marocco, che era un’avventura imperialista del tutto ingiustificata, e condusse a violente dispute con la Germania.
Il nostro appoggio alla Russia ebbe conseguenze anche peggiori. Il governo russo soppresse spietatamente la rivolta del 1905, soprattutto in Polonia. I Russi invasero anche la Persia settentrionale e persuasero sir Edward Grey a unirsi a loro per soffocare i tentativi di Morgan Shuster di introdurre in quel Paese un ordinato regime costituzionale. Tutte le atrocità zariste venivano sminuite da sir Edward Grey, che fece tutto ciò che l’opinione pubblica era disposta a sopportare per scoraggiare gli aiuti ai ribelli russi e polacchi (…).
Nei giorni in cui lo scoppio della guerra era chiaramente vicino, speravo con tutte le mie forze che l’Inghilterra restasse neutrale. Sapevo che la Germania del Kaiser, sebbene avesse molti difetti, era molto più liberale di qualsiasi regime di quei tempi, tranne quelli dell’Olanda e della Scandinavia. La Russia zarista aveva da molto tempo riempito d’orrore tutta la gente d’idee liberali, e trovavo intollerabile l’idea di entrare in guerra per sostenerla. Persuasi un gran numero di accademici di Cambridge a firmare una lettera da indirizzare ai giornali a favore della neutralità. Il giorno dopo l’inizio della guerra nove su dieci di quegli accademici espressero il loro disappunto per averla firmata. The Nation, il settimanale liberale diretto da Massingham, teneva un pranzo redazionale ogni martedì: andai a quel pranzo il 4 agosto e trovai Massingham e i suoi redattori tutti conviti fautori della neutralità. Poi, dopo solo poche ore, l’Inghilterra entrò in guerra e Massingham mi scrisse la mattina successiva, cominciando Oggi non è ieri … e ritirando tutto ciò che aveva detto il giorno prima. Quasi tutti quelli che negli anni precedenti erano stati oppositori di sir Edward Grey diventarono nel giro di una notte suoi convinti sostenitori. La loro scusa era l’invasione del Belgio da parte dei Tedeschi. Da anni sapevo dai miei amici del collegio dello stato maggiore che in caso di guerra la Germania avrebbe invaso il Belgio. Fui sbalordito di scoprire che tanti uomini politici di primo piano e giornalisti avevano ignorato questo fatto facilmente accertabile, e che tutti i loro pronunciamenti pubblici erano dipesi da questa loro ignoranza.
La massoneria non aveva amici e strumenti solo a Londra per realizzare il piano inteso a gettare l’Europa nel baratro di un conflitto continentale e mondiale. Una decisione fatale che portò il conflitto austro-serbo a trasformarsi in una deflagrazione planetaria fu la decisione russa di mobilitare le truppe non solo sulla frontiera austriaca ma anche su quella tedesca, essa provocò l’intervento nel conflitto della Germania e, stante l’alleanza anti-tedesca di Francia e Russia, l’apertura del fronte occidentale.
Ebbene, ci rivela Russell, questa decisione così catastrofica fu presa da un solo uomo, il ministro Sokolnikov, all’insaputa dello zar e del suo governo.
Uno dei fatti che ebbero un’influenza decisiva nel provocare la guerra generale, fu la mobilitazione dell’esercito russo, che fu ordinata dal ministro della Guerra Sokolnikov, all’insaputa dello zar. Fu questo che indusse i Tedeschi a rompere i negoziati.
Ma il patriottismo di Sokolnikov era di tipo particolare. Quando gli Inglesi e i Francesi inviarono rifornimenti alla Russia, Sokolnikov li vendette ai Tedeschi. Per sua sfortuna, la Rivoluzione russa gli tolse la possibilità di godersi il ricavato.
Fu la mia prima esperienza dell’isterismo di massa, e fu difficile per il mio spirito resistere. Pensavo, quando mi trovavo su un autobus o su un treno, Se questa gente sapesse quello che penso io, mi farebbe a pezzi.
La stampa era piena di false storie di atrocità, ma chiunque ne dubitasse era un traditore. Appresi più tardi da fonte autorevole che dei film che illustravano atrocità venivano prodotti da una società cinematografica nel Bois de Boulogne e venduti ai belligeranti di entrambe le parti, cambiando solo le didascalie. La storia che i Tedeschi usavano cadaveri umani per fare gelatina venne inventata su misura da un giovane in un ufficio governativo a Londra. Si dimostrò molto efficace e fu una delle principali cause che provocarono l’intervento in guerra, dalla nostra parte, dei cinesi (…).
Gli scopi cosiddetti ideali della guerra offersero alla gente il pretesto per scatenare tutta la ferocia che fino ad allora le regole del vivere civile erano riuscite a mascherare. Mi ricordo in un periodo in cui la guerra andava male e si parlava di pace, che Sydney Webb disse: Dobbiamo tenere i soldati sotto pressione. Questo era un atteggiamento abbastanza comune tra chi era esentato dal servizio militare per l’età o per il sesso o per gli ordini sacri.
Il patriottismo naturalmente aveva i suoi limiti. Quando allo scoppio della guerra si formò un governo di coalizione, esso comprendeva sir Edward Carson che aveva da poco comprato armi dal Kaiser, che dovevano essere usate contro il governo inglese [in questo punto vi deve essere nel testo un errore di traduzione o un refuso. Si noti che in questi termini la frase non ha senso, mentre ne avrebbe se fosse Sir Edward Carson che aveva da poco venduto armi al Kaiser, che dovevano essere usate contro il governo inglese].
Scrissi a un amico in America facendo presente quanto questi uomini incrementassero lo sforzo bellico, ma credo che la censura impedì alla mia lettera di arrivare a destinazione.
Lo stesso atteggiamento nello stesso tempo di truce revanscismo e di totale irresponsabilità riguardo al futuro dell’Europa, i politici britannici lo mostrarono al momento delle trattative di pace (e questo è un discorso che riguarda anche noi che alla pace di Parigi fummo particolarmente maltrattati).
Le elezioni tenute sulla questione se impiccare il Kaiser subito dopo l’armistizio furono una vergogna sia per il paese sia per il governo. Il governo accettò per placare il clamore popolare, di chiedere ai Tedeschi un’indennità di 26 miliardi di sterline. Quando, dopo le elezioni, qualcuno fece presente a Lloyd George [primo ministro britannico nel 1918] che questa somma era assolutamente eccessiva, Lloyd George rispose: Caro signore, se le elezioni fossero durate altre tre settimane, i Tedeschi avrebbero dovuto pagare 50 miliardi. Allora e durante i negoziati di Versailles, Lloyd George era perfettamente conscio che l’opinione pubblica, assetata di vendetta, richiedeva cose impossibili, ma pur ammettendo questa consapevolezza, era cinicamente disposto a rovinare il mondo pur di conquistare la maggioranza.
Utilizzando la stessa tecnica astuta usata dalla Francia di Richelieu durante la guerra dei trent’anni, Gli Stati Uniti limitarono a lungo la loro partecipazione al conflitto al sostegno economico e materiale a una delle due parti in lotta, per intervenire direttamente solo quando gli altri contendenti erano ormai stremati, e cogliere la vittoria a poco prezzo, ma le motivazioni ultime dell’intervento americano rappresentano un punto che non è stato mai adeguatamente chiarito.
L’affinità etnica, linguistica e culturale con la Gran Bretagna, spesso invocata come spiegazione, è un argomento del tutto inconsistente. Fino alla metà del XIX secolo e oltre, nonostante questa affinità, i rapporti angloamericani erano stati pessimi. Gli Stati Uniti, tra il tardo XVIII e il primo XIX secolo avevano combattuto con l’Inghilterra due guerre d’indipendenza la seconda delle quali aveva in realtà come posta il possesso del Canada. Nello stesso periodo, gli eredi di Washington e Franklin erano stati scopertamente dalla parte prima della Francia rivoluzionaria poi di Napoleone. Durante la guerra di secessione americana la Gran Bretagna aveva appoggiato il sud secessionista.
La difesa e/o l’esportazione a livello planetario della democrazia è una specie di alibi standard della politica americana di ogni tempo e luogo, ma in realtà non ha significato a meno di non considerare che per democrazia non si intendono genericamente sistemi politici rappresentativi che accordino libertà ai loro sudditi/cittadini, ma una precisa ideologia liberal-massonica che implica parecchie cose, a cominciare dalla superiorità e supremazia degli stessi Stati Uniti, e in questo non differisce in maniera sostanziale dalla funzione del comunismo come giustificazione del sistema di tirannidi che faceva capo all’Unione Sovietica.
La Germania e l’Austria del tardo XIX secolo erano molto diverse dall’Austria e dalla Prussia di un secolo prima, erano fra gli stati più avanzati d’Europa sia in termini di diritti civili sia di riforme sociali, non meno, e probabilmente di più della Francia e dell’Inghilterra, per non parlare dell’Italia che aveva introdotto il suffragio universale soltanto nel 1912 o dell’impero zarista che rimaneva un abisso di arretratezza. Ricordiamo le parole di Russell: solo i regimi dell’Olanda e della Scandinavia erano a quel tempo più progrediti di quello tedesco.
La motivazione vera emerge con tutta chiarezza dal riconoscimento del carattere ingannevole di questi alibi: a Washington si era capito benissimo che la distruzione dell’economia tedesca non avrebbe risollevato le sorti del declinante industrialesimo britannico, e che il vuoto creato dal conflitto sarebbe stato una splendida occasione per imporre al Vecchio Continente l’egemonia economica e industriale americana. Appoggiando l’Intesa, gli Stati Uniti avevano scelto la decadenza del nostro continente.
E l’Italia? La partecipazione italiana al conflitto dalla parte dell’Intesa, ossia gli anglo-francesi e i loro alleati, fu decisa dal re, dalla corte, da una parte del governo in spregio alla Triplice Alleanza e all’insaputa e contro quella che era la volontà palesemente espressa del Paese e dello stesso parlamento che fu scavalcato. Era una decisione che rispondeva realmente all’interesse italiano o non piuttosto a quello della massoneria internazionale cui casa Savoia era indiscutibilmente legata?
La giustificazione classica, il completamento dell’edificio risorgimentale, il pieno raggiungimento dell’unità nazionale con l’annessione di Trento e Trieste, è a conti fatti tutt’altro che persuasiva, perché le vicende della nostra storia avevano lasciato altrettante terre italiane sotto il dominio delle potenze dell’Intesa: Malta sotto il dominio britannico, in mani francesi la Corsica cui nel 1860 si erano aggiunte Nizza e la Savoia in cambio della partecipazione francese alla seconda guerra d’indipendenza (e del voltafaccia di Villafranca), ma soprattutto per un’Italia che aspirasse al rango di grande potenza europea la vera posta in gioco sarebbe dovuta essere l’espansione coloniale, ed era chiaro che qui erano proprio Francia ed Inghilterra a sbarrarci la strada; di più, il controllo inglese del Mediterraneo attraverso l’asse Gibilterra-Malta-Alessandria ci costringeva di fatto entro le nostre acque territoriali. In sostanza, nessuno dei motivi che ci avevano indotti a stipulare la Triplice Alleanza nel 1882, e che poi saranno gli stessi in ultima analisi che ci indurranno a una nuova alleanza con la Germania fra le due guerre, aveva perso di validità.
A leggere la storia delle trattative intercorse fra l’Italia e gli Imperi Centrali da un lato, l’Intesa dall’altro nei dieci mesi che intercorsero fra lo scoppio del conflitto e il nostro intervento, c’è di che rimanere esterrefatti: da parte austriaca si era disposti a concedere la cessione del Trentino e la costituzione di Trieste in territorio libero in cambio anche della sola garanzia della nostra neutralità. Davvero l’Italia ha affrontato lo spaventoso carnaio della prima guerra mondiale, mezzo milione di morti solo per avere il Tirolo meridionale, quello che poi è divenuto l’Alto Adige: quattro montagne e una terra e una popolazione che non erano e mai erano state italiane?
La questione di Trieste, poi, era un po’ diversa da come di solito viene presentata dai libri di testo. La città giuliana era indiscutibilmente italiana di lingua, cultura e storia, ma il suo sviluppo a partire dal XVII e XVIII secolo era avvenuto come sbocco sul Mediterraneo dell’impero degli Asburgo, come porto ed emporio che metteva in comunicazione i traffici del Mediterraneo con l’area centroeuropea e balcanica. Staccare la città da questo vasto retroterra che ne faceva uno dei porti più importanti del Mediterraneo, avrebbe significato l’inevitabile declino della città. Consapevoli di ciò, i triestini non aspiravano tanto a staccarsi dallo stato austriaco, quanto a un sistema di ampie autonomie che consentisse alla città di tutelare il suo carattere etnico e culturale italiano senza recidere i legami con quel vasto retroterra da cui dipendeva la sua prosperità, in sostanza proprio ciò che l’Austria aveva offerto all’Italia nel 1914 in cambio della semplice neutralità.
Avevano torto? Dopo il collasso dello stato austriaco, la decadenza della città è stata inarrestabile, e oggi è a malapena il fantasma di quel che era un secolo fa, anche se il colpo peggiore è arrivato alla fine della seconda guerra mondiale con l’amputazione dell’Istria e di tutto l’hinterland che un tempo la città aveva. Oggi Trieste è una città di pensionati, le cui attività economiche si riducono al pubblico impiego e al piccolo traffico di frontiera, con l’attività portuale e la cantieristica calate praticamente a zero, in costante calo demografico, dalla quale i giovani sono costretti ad andarsene se vogliono trovare un’occupazione.
C’è un aspetto di questa vicenda che è ancor meno noto: consideriamo semplicemente la geografia: alla metà dell’ottocento la città giuliana mancò l’occasione di diventare un porto d’importanza mondiale. Come collegamento naturale fra il Mediterraneo e l’Europa centrale e orientale, sarebbe stata la più idonea per la propria posizione a trarre i maggiori vantaggi da una via d’acqua che collegasse il Mediterraneo con i mari dell’Oriente evitando il periplo dell’Africa.
Il progetto del taglio dell’istmo di Suez poi realizzato dal francese Ferdinand Lesseps fu concepito in primo luogo e patrocinato con l’appoggio del governo austriaco, da un geniale uomo d’affari triestino, il barone Pasquale Revoltella, e dopo la realizzazione del canale fu a una nave triestina del Lloyd Austriaco (dal 1918 semplicemente Lloyd Triestino) che toccò l’onore di inaugurarlo. La cosa però durò poco: Inglesi e Francesi che avevano ben compreso l’importanza commerciale e strategica del canale, ne estromisero presto triestini ed austriaci. Sembra che voglia rivoltare il coltello nella piaga, ma i fatti sono quelli che sono: Francia e Inghilterra sono stati costantemente i cattivi geni della nostra storia dall’ottocento alla seconda guerra mondiale.
I patrioti triestini non avversavano tanto lo stato austriaco quanto il nazionalismo slavo allora in piena fase espansiva; questo semmai portava ad uno spirito di solidarietà fra l’elemento italiano e quello tedesco, anche perché sulla frontiera fra Mitteleuropa e mondo slavo, venivano a crearsi situazioni simili; si confrontino ad esempio Trieste e Praga: in entrambi i casi, una città di altra nazionalità si trovava a dover resistere all’assedio di un contado slavo, italiana Trieste, tedesca Praga, perché per quanto oggi possa sembrare singolare, quella che è oggi la capitale della Repubblica Ceca, fino al 1918 era una città tedesca, e in tedesco hanno scritto e pensato illustri boemi del passato: Sigmund Freud, Franz Kafka, Gregor Mendel.
L’assassinio di Sarajevo provoco a Trieste un’impressione fortissima. Le salme del principe ereditario Francesco Ferdinando e di sua moglie, imbarcate in Bosnia furono sbarcate a Trieste per essere traslate via terra fino a Vienna. C’è un filmato dell’epoca dove si vede il corteo funebre che attraversa Trieste circondato da una folla strabocchevole, composta ma oceanica.
La dichiarazione di guerra alla Serbia fu accolta con entusiasmo dai triestini, sembrava l’occasione di dare una bella e meritata lezione all’oltranzismo slavo di cui Gavrilo Princip, l’assassino di Sarajevo appariva l’incarnazione e l’epitome; naturalmente, i triestini non potevano prevedere che l’oltranzismo slavo avrebbe dato nei decenni seguenti ben altre dimostrazioni di ferocia, a cominciare dal genocidio a lungo misconosciuto delle foibe. In più, i triestini si aspettavano come imminente l’intervento italiano in base alla Triplice Alleanza, pur nella costernazione per l’assassinio del principe ereditario e nell’imminenza del conflitto, fu un momento magico in cui pareva di poter finalmente coniugare lealismo verso la casa d’Asburgo e patriottismo italiano.
Il voltafaccia del maggio 1915 gettò i triestini nella costernazione, si sentirono traditi dallo stato italiano. Non era l’ultima volta che i triestini erano destinati a provare questa sensazione, l’avrebbero provata spesso in particolare nel secondo dopoguerra e soprattutto dopo l’accordo di Osimo.
A Parigi nel 1919 provammo un’esperienza amarissima: la vittoria che i nostri fanti avevano conseguito sul campo con tanti sacrifici si trasformò in sconfitta al tavolo della pace. Succube da sempre della massoneria, casa Savoia aveva tradito la Triplice Alleanza per mettere il destino dell’Italia nelle mani dei suoi nemici naturali, ed ora Francia, Inghilterra e gli Stati Uniti che con poco sforzo si erano accaparrati la scena da protagonisti, ci trattavano non da alleati ma da nemici sconfitti.
Nella storia della prima guerra mondiale pubblicata a puntate dalla Domenica del Corriere nel 1968, Franco Bandini ha riassunto con grande efficacia la situazione.
Gli obiettivi su cui avremmo dovuto puntare erano] le colonie, gli indennizzi finanziari o in materiali, grandi prestiti, soprattutto americani, che ci aiutassero a vincere anche la nostra costituzionale debolezza economica. In altre parole sbocchi commerciali, fonti di reddito in materie prime, apporti di naviglio mercantile, materiali, denaro: tanto maggiori fossero state queste acquisizioni, tanto più forte e feconda sarebbe divenuta la nostra posizione nel Mediterraneo e in Europa.
Non facemmo nulla di tutto questo, gli occhi ostinatamente puntati sull’indistinta costa dalmata e sul magnetico punto focale di Fiume. Al tavolo verde della pace, gli alleati compresero rapidamente che potevano tenerci saldamente incatenati su questi pochi nomi, per essi di nessunissimo rilievo, e approfittarono destramente delle circostanze (…).
Gli alleati non potevano negarci la soddisfazione della polverizzazione dell’impero austriaco, semplicemente perché non era in loro potere resuscitare cadaveri. Ma si sarebbero opposti con energia a qualsiasi rivendicazione che intaccasse i loro interessi e i loro compensi: era chiudere gli occhi davanti alla verità pensare che l’Inghilterra non fosse almeno annoiata dalla nostra ipoteca navale sul Mediterraneo e la Francia da quella terrestre sui Balcani. Si sarebbero sempre opposte a qualsiasi aumento di potenza anche economica, che avrebbe potuto far divenire più potenti quelle ipoteche (…).
In quei tristi e amari mesi del 1919 perdemmo forse per molti decenni, non solo il risultato di quell’immane sacrificio che era stata la guerra, ma anche il frutto del paziente lavoro che i padri avevano accumulato nell’erezione di un grande stato nazionale dal 1870 in poi.
La guerra e il suo esorbitante costo umano a paragone della modestia dei risultati ottenuti ebbero effetti sconvolgenti sulla società italiana. Durante il cosiddetto biennio rosso l’Italia parve sull’orlo di una rivoluzione comunista e il fascismo ne uscì come risposta di quanti non soltanto borghesi non volevano che l’Italia si trasformasse in una tirannide di tipo sovietico.
Nel 1922 il re Vittorio Emanuele III accettò la marcia su Roma (che più che un golpe, fu una vistosa dimostrazione che avrebbe potuto benissimo stroncare) e il fascismo perché l’impopolarità della guerra e il caos sociale provocato dal conflitto avevano reso traballante il prestigio dello stato e della monarchia, ma sempre nella prospettiva di sbarazzarsene appena si fosse presentata l’occasione opportuna.
All’uopo tornava buona l’alleanza della monarchia e della corte con la massoneria e i circoli liberal-massonici internazionali per i quali l’ascesa del fascismo e poi dei fascismi in tutta Europa rappresentava una grave interferenza nel progetto di dominio mondiale liberal-massonico-democratico.
La “svolta” decisiva della politica europea fra le due guerre avvenne un po’ prima della metà degli anni ‘30 con l’ascesa di Hitler in Germania e la guerra d’Etiopia con le tensioni fra l’Italia e i franco-britannici a causa – o con il pretesto – di questa impresa coloniale.
Teniamo presente che l’Italia aveva con l’Etiopia un contenzioso che risaliva agli ultimi decenni dell’ottocento, che lo stato del Negus aveva inferto all’Italietta liberale le brucianti sconfitte di Dogali e di Adua. Teniamo presente che Francia e Gran Bretagna dominavano aree enormi del nostro pianeta – la Gran Bretagna da sola quasi un terzo di tutte le terre emerse –; l’indignazione contro l’Italia era pretestuosa e fuori luogo. Non solo: consideriamo che tutte le truppe e i rifornimenti italiani dovevano necessariamente passare per Suez che era controllata dagli Inglesi; se la Gran Bretagna avesse davvero voluto, avrebbe potuto bloccare facilmente l’impresa etiope. No, da parte britannica si voleva che prendessimo l’Etiopia per poterci condannare, buttarci nelle braccia di Hitler e distruggere il fascismo e le ambizioni imperiali italiane nella guerra a venire.
Parliamo di uno storico controcorrente, che ha pagato con una lunga serie di processi quello che per la democrazia è il delitto più imperdonabile, quello di dire la verità, Antonino Trizzino, l’autore di Navi e poltrone, Gli amici dei nemici, Settembre nero.
All’inizio di Navi e poltrone, Trizzino segnala una scoperta davvero sorprendente: Un’arma destinata a essere risolutiva nelle battaglie aeronavali, il siluro aereo, fu un’invenzione italiana; nonostante questo, gli alti gradi della nostra marina ne sabotarono la produzione sicché entrammo in guerra quasi del tutto sforniti di essa.
Al contrario, un documento dell’Ammiragliato britannico scoperto dallo stesso Trizzino informa che già nel 1938 “quando la guerra con l’Italia era ormai inevitabile” l’Ammiragliato stesso commissionò l’incremento della produzione di aerosiluranti e siluri aerei.
La cosa è talmente sorprendente che Trizzino pensa a un errore di data: il 1938 è l’anno dell’accordo di Monaco, quando Inglesi e Francesi mostravano di contare su Mussolini per contenere l’espansionismo di Hitler. E se non si fosse trattato di un errore di data? Se i Britannici avessero già allora avuto il ramoscello d’ulivo in una mano e il pugnale per colpire alla schiena nell’altra?
Questo spiegherebbe molte cose. Si pensi ad esempio che negli stessi anni era in corso la guerra civile spagnola (1936-1939) e le simpatie e gli aiuti franco – britannici andarono tutti alla parte “repubblicana” cioè comunista. Possibile che le “democrazie occidentali” sottovalutassero così gravemente il pericolo insito nell’avere due stalinismi tendenti a convergere all’estremità orientale ed a quella occidentale del nostro continente? O lo ritenevano un rischio accettabile nella prospettiva di una imminente “resa dei conti” di vasta portata per eliminare “i fascismi”?
Il “casus belli” della seconda guerra mondiale fu la questione di Danzica. Contrariamente a quello che viene spesso raccontato, non si trattò per nulla di un’aggressione proditoria da parte tedesca. Tralasciamo il discorso delle numerose vessazioni cui erano sottoposte le popolazioni dei territori tedeschi passati alla Polonia con il trattato di Versailles, autentiche provocazioni nei confronti della Germania ammesse a denti stretti anche dagli storici ufficiali. Quel che spinse i Polacchi a irrigidirsi sulla questione di Danzica rifiutando ogni mediazione, fu l’assicurazione (mendace) da parte franco – britannica di un intervento tempestivo e massiccio in caso di conflitto con la Germania.
Mi pare ci siano pochi dubbi sulla volontà francese e britannica di arrivare alla guerra.
Per quanto riguarda l’Italia è ormai definitivamente accertato che il re, la corte, gli alti gradi militari fecero, a quanto pare, pressioni in ogni modo perché l’Italia entrasse nel conflitto. Pare che nel maggio 1940, Vittorio Emanuele, riferendosi a Mussolini, esclamasse: “Cosa aspetta quella testa di legno?”
Non va nemmeno sottovalutata la responsabilità degli alti gradi militari – legati alla monarchia – che fecero di tutto per nascondere a Mussolini lo stato di impreparazione e penuria di mezzi del nostro esercito, in modo che egli prendesse la decisione fatale sulla base di dati del tutto falsi. L’Italia, occorre ricordarlo, era appena uscita da due guerre consecutive: quella di Etiopia e quella di Spagna nella quale aveva prodigato con larghezza uomini e mezzi a favore del franchismo, impedendo così l’insediamento di un altro focolaio staliniano nella Penisola Iberica, ma stava per entrare nel più grande conflitto di tutti i tempi con gli arsenali vuoti. Occorre ricordare anche che i Tedeschi, che valutavano correttamente la situazione, non solo non sollecitarono la nostra partecipazione al conflitto, ma la sconsigliarono ritenendo giustamente che l’Italia non sarebbe potuta essere pronta prima del 1942 o del 1943.
Fin dal primo giorno, molta parte degli alti gradi militari sabotò la nostra partecipazione al conflitto, diramando ordini assurdi, impiegando i nostri uomini e i nostri mezzi nella peggior maniera possibile, tenendo gli Inglesi puntualmente informati delle nostre mosse e dei nostri punti deboli. Antonino Trizzino ha, a questo riguardo, raccolto una documentazione impressionante, contenuta nei suoi libri Navi e poltrone e soprattutto – il titolo è già molto esplicito – Gli amici dei nemici.
Si voleva la sconfitta per far cadere il fascismo, era uno sporco gioco giocato sulla pelle dei nostri soldati e marinai e, molto presto, anche su quella delle popolazioni civili che cominciarono a subire lo stillicidio dei bombardamenti. Per questa strada non si poteva arrivare altro che al secondo voltafaccia, quello dell’8 settembre 1943 – tanto più grave di quello del maggio 1915 in quanto compiuto in piena guerra – che non risparmiò all’Italia nessuna atrocità, che aggiunse orrore a orrore, la tragedia della guerra civile a quella del conflitto, che ci procurò l’umiliazione supplementare al momento della stipula del trattato di pace, di tornare a essere i nemici sconfitti dopo anni di “cobelligeranza”.
Indistintamente tutte le nazioni europee, anche quelle schierate in campo antifascista, hanno perso la seconda guerra mondiale, perché l’Europa intera ha perso il suo ruolo planetario per trasformarsi in un condominio russo-americano prima, in una serie di colonie e protettorati USA poi.
Oggi la massoneria è sempre un centro di intrighi, di affari poco puliti, di amicizie impresentabili che opera nella buia zona d’ombra dove si sovrappongono politica, affari e criminalità organizzata, con occasionali puntate nella zona della politica “importante” come fu ad esempio in tempi relativamente recenti il caso della loggia P 2, ma la sua importanza è enormemente diminuita rispetto ai tempi precedenti la seconda guerra mondiale, è stata messa da parte, non serve più perché in ultima analisi anch’essa non era/è niente altro che uno strumento.
Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta dell’Unione Sovietica, il vero potere planetario non ne ha più bisogno perché ormai può mostrarsi (quasi) allo scoperto: il potere dell’aristocrazia del denaro, l’informe Moloch che ha oro nelle vene, il cui dominio mondiale creato attraverso la dissoluzione di etnie, popoli e culture in una massa amorfa che è il perfetto mercato, ha oggi preso il nome di globalizzazione, e la “democrazia” è un teatrino recitato a uso dei gonzi per dare alla plebe l’illusione di contare qualcosa. Forse l’unico motivo per cui non si riesce ancora a scorgere il volto di questo potere, è che esso non ha nessun volto umano.
In tutto questo, forse, c’è un’unica nota positiva: noi oggi siamo in grado di dissipare il grande equivoco, e sappiamo che fra il senso di appartenenza alla nostra nazione, quel patriottismo del quale proprio non c’è inflazione, che pare sia cosa normale a qualsiasi latitudine tranne che da noi, e la ripulsa, il sentimento di ribellione verso le forze che hanno distrutto la struttura tradizionale delle nazioni europee e le hanno ridotte a colonie degli Stati Uniti, non c’è alcuna contraddizione.
Fabio Calabrese
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