Come le guardie carcerarie e la popolazione cittadina, Gregg non credeva che la città sarebbe stata bombardata; era diffuso il convincimento che gli Alleati avrebbero risparmiato il suo retaggio culturale, così come i tedeschi si erano trattenuti dall’attaccare Oxford. Ma era una supposizione infondata. Gregg dovette essere testimone di una carneficina inimmaginabile che gli causò un persistente stress post traumatico. Sebbene egli fosse un patriota per niente pacifista, settant’anni dopo quell’evento è ancora convinto che coloro i quali ordinarono i tre giorni di bombardamenti su Dresda dovrebbero essere ritenuti colpevoli di un crimine di guerra, in quanto consapevoli della devastazione che sarebbe stata inflitta alla popolazione civile.
Dopo il raid, egli infine raggiunse le linee russe avanzanti. Questo è il suo resoconto della tempesta di fuoco.
Alle dieci e trenta circa di sera, le sirene si misero a suonare; poiché ciò accadeva ogni notte non vi si prestò attenzione. Ma dopo un breve periodo di silenzio, un’ondata di ricognitori cominciò a sganciare bengala. Li vedemmo attraverso una cupola di vetro: riempivano il cielo di luce accecante, fluttuavano verso terra, gocciolando fosforo incandescente sulle strade e le case.
Come in una sequenza al ralenti, i detenuti nella prigione cominciarono a rendersi conto di essere in trappola (le guardie avevano chiuso le porte e se l’erano data a gambe). Poi, il rombo di centinaia di bombardieri pesanti prese a saturare l’aria, facendosi sempre più vicino e assordante. I prigionieri battevano sulle porte delle celle supplicando che li si lasciasse uscire. Mi accovacciai accanto a una parete, più in basso che potevo. I bengala ancora cadevano quando la prima formazione ci sorvolò, sganciando migliaia di ordigni incendiari insieme alle prime bombe. Una serie [di incendiarie, ndr] colpiva il suolo in successione, come un rullo di tamburo, e il cielo passava da un bianco brillante a un rosso cupo che lampeggiava prima di spegnersi.
Quando l’interminabile formazione ci superò, quasi quattro incendiarie sfondarono il soffitto in vetro, riducendolo in pezzi e facendo a brandelli gli sfortunati che si trovavano di sotto. Il fosforo aderì ai corpi dei feriti, trasformandoli in torce umane, ma fu impossibile estinguere le fiamme e le loro urla si aggiunsero alle altre grida. Io ero ancora indenne – ma non lo sarei rimasto per molto.
All’improvviso, una “blockbuster” cadde all’esterno del nostro palazzo, abbattendo la cinta muraria (questi massicci ordigni dal rivestimento sottile potevano demolire interi isolati, di qui il nome). Fui scagliato dall’esplosione a diversi metri di distanza e ricoperto di calcinacci. Quando mi riebbi, realizzai che il fumo e le esalazioni provenienti dal guscio in fiamme dell’edificio venivano spazzati via da un vento che si andava gradualmente rinforzando. Incespicando fra le macerie, uscii all’aria aperta, fuori dall’edificio che stava lentamente collassando. Qui m’imbattei in pochi altri superstiti, e la prima cosa che mi colpì fu il calore. Ovunque mi volgessi, scorgevo fiamme, fumo e cenere –e dal cielo cadevano continuamente detriti. All’incirca una dozzina di individui nel nostro gruppo erano in grado di camminare o reggersi in piedi, e altri piccoli gruppi si spostavano fra i cumuli di macerie e le fiamme che, senza preavviso, sprizzavano dalle brecce nei muri.
Il rombo degli apparecchi si attenuò e la gente cominciò ad uscire dalle poche abitazioni rimaste in piedi. I sopravvissuti si aprivano la strada fra i mucchi di rovine che un’ora prima erano stati le loro case. Barcollammo lungo ciò che restava di un ampio viale, fiancheggiato da incendi e montagne di macerie roventi (fui salvato dalle suole di legno delle mie calzature, così spesse da permettermi di camminare sulle ceneri infuocate). Infine giungemmo in campo aperto, nei pressi della linea ferroviaria. In cerca di salvezza, vedemmo un altro gruppo avvicinarsi: si trattava di due dozzine di vigili del fuoco, con un carro pieno di picconi, badili, secchi, funi arrotolate e bidoni d’acqua potabile. Il capo ci mise subito in riga, scelse quelli che parevano idonei e ci fece mettere in marcia, lasciando i feriti a badare a sé stessi.
Non tutti gradivano di essere consegnati come combustibile alla fornace distante meno di 500 metri. Ma quando tre uomini esitarono, il nostro capo si girò, estrasse la pistola e sparò a due di loro a bruciapelo (il terzo si mise a correre più forte che poté). Ed eccoci lì, in una trentina, guidati da un tedesco la cui soluzione ai problemi consisteva nel prima sparare, poi porre domande.
Da principio trovammo persone che erano state sorprese all’aperto ed erano ancora vive. Fissando pezzi di legno ai picconi e ai badili, costruimmo delle barelle e li trasportammo via. Ma dopo due ore, ritornammo alla ferrovia dove scoprimmo dei rinforzi e un vagone carico di cibo che era stato inviato in qualche modo da Dio sa dove. Poi le sirene lanciarono di nuovo il loro terribile urlo e le persone si strinsero in piccoli gruppi, quasi a volersi far scudo dall’attacco le une con le altre.
Gli aerei volavano a migliaia di piedi sopra di noi, ma si potevano scorgere i loro contorni stagliarsi nel bagliore. Le nuove bombe erano talmente grandi da poterle vedere nel cielo. Persino le incendiarie erano differenti – non cilindri lunghi un metro, ma ordigni da quattro tonnellate che esplodevano nell’impatto al suolo, incenerendo ogni cosa nel raggio di sessanta metri – e insieme a questi caddero altre blockbuster, questa volta da dieci tonnellate.
Appena cinquecento metri di terreno aperto ci separavano dall’epicentro del primo raid. Potevamo avvertire il calore tremendo, i nostri corpi erano scossi mentre il suolo vibrava. E come se ciò non bastasse, un altro orrore fece sentire la sua presenza: non esattamente quel che si potrebbe definire vento, piuttosto, l’aria veniva aspirata ad alimentare l’inferno come se fosse un oggetto solido, talmente immensa era la sua forza.
Il secondo raid si stava svolgendo da quindici minuti quando il suolo eruttò in enormi nubi di fumo e fiamme, e immediatamente dopo le esplosioni, venne quella tremenda aspirazione allorché l’aria affluì nel vuoto creatosi. Ma il nostro capo sembrava impaziente di riportarci nella fornace una volta che i bombardieri se ne fossero andati, cosa che fecero trenta minuti più tardi. Anche se erano rimasti dei ritardatari in cielo, ora era l’azione sul terreno a contare. Tutto bruciava, persino le strade, che erano fiumi ardenti di bitume ribollente e sibilante. Grossi detriti volavano nell’aria, risucchiati nel vortice. Potevamo vedere persone strappate a qualsiasi cosa fossero aggrappate e aspirate nel globo rosso fuoco in costante espansione a meno di duecento metri da noi. Un piccolo gruppo cercò di raggiungerci attraversando quella che un tempo era stata una strada, solo per ritrovarsi intrappolato in un impasto di catrame disciolto ribollente. Uno ad uno, caddero al suolo esausti e morirono nel rogo, tra il fumo e le fiamme. Individui di tutte le taglie, d’ogni età e costituzione furono lentamente risucchiati nel vortice, quindi gettati di colpo nelle colonne di fumo e fuoco, coi vestiti e i capelli in fiamme.
E come se il Diavolo in persona avesse deciso che i loro tormenti non erano sufficienti, sopra l’ululato del vento e il ruggito dell’inferno di fuoco, risuonavano le interminabili grida d’agonia delle vittime che arrostivano vive.
Ciò che ci salvò fu il fatto di trovarci in uno spazio aperto con ossigeno da respirare. Siccome gli incendi stavano peggiorando, abbandonammo – per il momento – ogni idea di avvicinarci al centro cittadino. Era un mare di fiamme che salivano verso un cielo denso di fumo. E mentre l’aria si faceva così rovente che inalarla provocava dolore, ci ritirammo in un luogo sicuro. All’alba, vedemmo che altri gruppi erano sopraggiunti per colmare i crateri e riposizionare i binari, ed entro metà mattina un piccolo convoglio di vagoni ci passò accanto. Dovemmo consegnarne il carico ai crucchi: la prima cosa cui pensarono fu di riempirsi lo stomaco, e in mezzo c’era un vagone-cucina, con tanto di minestra calda, pane nero e un fusto da quaranta galloni del loro surrogato di caffè.
Dopo aver mangiato, circa 40 di noi arrancarono fra le braci sobbollenti che bordavano l’immenso rogo che ancora infuriava dappresso. Mentre altri gruppi scavavano fra i cumuli di mattoni, aprendo passaggi, noi fummo incaricati di individuare le cantine. Ma proprio allora cominciò il terzo raid. Ora era il turno degli americani, e le aree prospicienti alla linea ferroviaria erano i loro obiettivi. Ciò fece si che quelli che erano riusciti a fuggire in precedenza ricevessero ora il medesimo trattamento. E sebbene gli americani sganciassero bombe molto meno distruttive dei britannici, molti di più furono uccisi.
Quando l’incursione finì, continuammo con le cantine, forzandone gli ingressi con picconi e palanchini. All’interno, rinvenimmo i cadaveri delle vittime, di solito rattrappiti sino a ridursi alla metà delle proprie dimensioni o peggio (i corpi dei bambini sino a quattro anni si erano semplicemente fusi). Molti però sembravano essere morti tranquillamente, per mancanza d’ossigeno, perdendo conoscenza.
Trascinammo i loro resti all’aperto, dove furono esaminati per l’identificazione e in seguito impilati in attesa della cremazione – e questa doveva rivelarsi la parte più facile. Persino i più duri fra noi vacillarono quando raggiungemmo l’epicentro del raid, in cui gli incendi più feroci avevano imperversato. Prima però ci diedero da mangiare a da bere, e potemmo riposarci in un paio di vecchie carrozze ferroviarie che gigantesche gru avevano sollevato fuori dai binari.
Il terzo giorno, ovunque guardassi vedevo gruppi di una dozzina di uomini al lavoro; e fu quando raggiungemmo il centro storico che cominciò il compito più terribile.
Alcuni dei cadaveri erano così friabili che si sbriciolavano in nubi di cenere e carne disseccata. Eppure i tedeschi erano così metodici da ordinarci di collocare in sacchi qualsivoglia frammento identificabile di questi cadaveri. Ci chiedevamo se il successivo giorno di lavoro potesse mai rivelarsi peggiore. Ma quando ci veniva ordinato di passare al setaccio un settore dove c’era la possibilità di trovare dei sopravvissuti, la notizia ridava nuova vita al gruppo.
Fummo assegnati a un piccolo piazzale; dove prima cresceva l’erba ora c’era un tappeto di cenere e i primi tre rifugi che scoperchiammo erano vuoti. Ulteriori ricerche all’interno del terzo, tuttavia, rivelarono l’esistenza di un tunnel, ostruito da un soffitto crollato, che conduceva a un altro rifugio. Quando aprimmo una breccia e trovammo quattro donne e due ragazzine vive, esultammo. Ci sentivamo come eroi – non c’erano nemici né odio, solo un senso di soddisfazione. Purtroppo però, questo fu un episodio isolato, come scoprimmo nei giorni seguenti.
Arrancando lungo strade in cui lingue di fiamma sprizzavano ancora sin quasi a cento metri d’altezza, giungemmo all’ingresso di un rifugio pubblico, che impiegammo tutto il pomeriggio ad aprire. Al primo spiraglio, udimmo un suono sibilante e la polvere circostante fu risucchiata nell’apertura. Poi, non appena la breccia fu ampliata, fummo colpiti da un lezzo terribile – e pian piano l’orrore che giaceva all’interno si manifestò.
Non c’erano veri e propri cadaveri integri, solo ossa e brandelli di indumenti bruciacchiati sul pavimento, appiccicati insieme da una sorta di gelatina. Ora capimmo quel che avremmo potuto trovare nei rifugi del centro. Io però non ero destinato a questo. Quella sera, mi fu detto che sarei dovuto tornare in prigione – così mi allontanai alla chetichella, attraversai il ponte e mi diressi verso est per raggiungere i russi.
Ho omesso parecchie cose. Spesso, sono colto da vaghe reminiscenze di cui nulla poi rimane. Tutto è stato sopraffatto dai compiti raccapriccianti che eseguimmo. E’ l’orrore ad essere rimasto impresso nella mia memoria. E come gli incendi di Dresda, sembra impossibile da spegnere.
Victor Gregg, “Dresden, a Survivor’s Story”.
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