Bioetica sulla morte e l'esperienza terminale nel Dharma




Sento il dovere anzitutto di ringraziare tutti i maestri che sono
stati tanto gentili da dare a me e a Cristina, mia compagna di Dharma,
con la parola e con gli scritti dei loro preziosissimi insegnamenti,
la possibilità di trarre da un' e­sperienza normalmente triste e
angosciosa come la morte fisica un messaggio pieno di valore e
significato, che a lei è servito come un rasserenante viatico
spirituale ed a me come espressio­ne di forza d'animo per affrontare
questa cru­dele  prova, ricavandone, inoltre, una indicazio­ne precisa
e utile per quando verrà il mio momento.


Il poeta sufi Jalaludin Rumi definisce la mor­te: "un matrimonio con
l'Eternità", e allora si può ben dire che Cristina, che aveva da poco
superato i quarant'anni, ha voluto decisamente sposarsi con quell'
eternità di cui, per tutta la vita, ha rincorso le impronte. Il saggio
tantrico Padmasambhava, in alcuni versi del Libro Tibetano dei Morti
ha scritto, in previsione della sua morte: "Quando il Bardo del morire
sorgerà su di me, abbandonerò ogni desiderio, brama e attaccamento;
entrerò senza distrazione nella chiara luce della consapevolezza.
La­sciando questo composto corporeo di carne e sangue, saprò così che
anche questa è un'illu­sione transitoria". E Milarepa, leggendario
san­to e poeta Tibetano, dichiara nei suoi Canti: "La paura della nera
morte mi ha condotto sulle bianche montagne; ho meditato
sull'incertezza della sua ora, ho raggiunto la rocca immortale della
vera Essenza e il timore si è così dile­guato".


Noi non possediamo la certezza di questi sublimi esseri, a noi è dato
avere una speranza mentre, nel peggiore dei casi, la nostra mente si
aspetta l'angoscia del nulla! Ma al momento della morte due sole cose
contano: ciò che abbiamo fatto in vita e lo stato mentale in cui ci
troveremo allora. Dice il Dalai Lama: "In punto di morte gli
atteggiamenti con cui si ha lunga consuetudine prendono il sopravvento
e dirigo­no la successiva rinascita". Quindi lo stato mentale al
momento della morte è decisivo. Ottima cosa sarebbe aver dato via
tutto, sia internamente che esternamente, così che nell'at­timo
cruciale si abbia solo il minimo di conte­nuti mentali negativi da cui
essere afferrati. Prima di morire dovremmo esserci liberati
dal­l'attaccamento alle proprietà e alle persone care. Non potendo
portare nulla con noi, si dovrebbe dar via in anticipo tutto ciò che è
in nostro possesso, donandolo o destinandolo alle opere di carità.
Come buddhisti, dovremmo considerare la morte un normale processo, una
realtà che fa parte dell' esistenza terrena. Sappiamo di non poterla
evitare e quindi non dovremmo avere motivo di preoccuparci più di
tanto. Tuttavia, volendo fare una buona morte, dobbiamo prima imparare
a vivere bene. Dobbiamo coltivare la pace nella nostra mente e nel
modo di vivere, per poter ottenere, infine, una morte serena e
produttiva.


Ritengo doveroso ricordare la persona di Cri­stina, che, proprio
facendo suoi i consigli sopra descritti, trascorse i suoi ultimi anni
dando il meglio delle sue capacità e offrendo, con amore
disinteressato, il risultato della sua vita mode­sta, ma generosa, e
della sua morte compiuta in uno stato di pacifica accettazione. Lo
sponta­neo e consapevole abbandono con cui ha af­frontato l'ultimo
atto testimonia la sua ferma intenzione di mantenere un' attenta e
fiduciosa serenità, nonché un coscienzioso auto controllo sulle
proprie condizioni mentali, sì da ottenere in cambio un sereno e
composto trapasso.


Poiché il Buddhismo afferma la continuità dell' essere, al di là delle
sue fluttuazioni tempo­rali, la morte non può essere ritenuta una fine
assoluta e ultima, così come non esiste veramente un inizio chiamato
nascita; la morte è un semplice passaggio, che può sfociare in
successivi stati di esistenza. A seconda delle condizioni in cui la
mente si trova all'atto di questo passaggio, diverse pos­sibilità ci
attendono. O gli stati puri e luminosi dei paradisi divini come entità
senza forma; o le rinascite in mondi umani, animali o infernali,
sottoposti ancora al dolore e alla sofferenza; oppure la eccelsa
condizione dello stato di Buddha, come "natura ultima dell'Essere".
Ognuno di questi punti di arrivo è il risultato del comportamento
dell'intera vita, il pagamento karmico dello svolgersi dei nostri atti
e dei nostri pensieri, per cui l'Ars moriendi non è che il risultato
dell'Ars vivendi e del grado evoluti­vo coscienziale di colui che
affronta questo stato transitorio.


Gli ultimi giorni di Cristina furono segnati da un atteggiamento
paziente ed estremamente altruistico. Pri­ma di entrare nel reparto di
terapia intensiva, non era affatto preoccupata per sé stessa e le
proprie sofferenze, che pure dovevano essere atroci, ma indirizzava le
infermiere verso la sua vicina di letto, che si lamentava. La sua
unica preoccu­pazione era che le persone care, me compreso, non
avessero a soffrire, quasi chiedendoci scusa dei problemi che ci
arrecava con la malattia. Questo carattere ammirevole, già
spontanea­mente dotato per sua natura, è stato rafforzato da anni e
anni di preparazione spirituale, vissuti in umile e riservato
silenzio, con sincera e pro­fonda concentrazione, meditando
continuamen­te sul significato delle penetranti e segrete istruzioni
impartitele dai suoi maestri e in par­ticolare dai caritatevoli Lama.
Pur essendo una notevole anima artistica, rifiutò con decisione ogni
compromesso gratifi­catorio, distaccandosi progressivamente dai
bi­sogni affermativi e arrivistici del mondo mate­rialista. La sua
sensibilità creativa fu manifesta­ta solamente agli amici intimi e
alla sua famiglia, a cui lascia le sue opere: raffinate riproduzioni
mandaliche e stupendi paesaggi di incantevoli luoghi da lei visitati.
Il suo altrui­smo, sempre offerto in modo riservato, fu indi­rizzato
anche e soprattutto alla propagazione del Dharma buddhista. È stata
membro attivo della Fondazione Maitreya e collaboratrice del­la
rivista Paramita, e molte persone ricordano la sua dedizione e la sua
dolcezza nello svolgimen­to dei compiti che le venivano richiesti.
Morendo, Cristina ha sicuramente inteso tra­smettermi la sua
esperienza di apertura verso questa ignota realtà. Una realtà che ha
come vero scopo l'attenuazione della nostra reazione alla sofferenza.
Nel più profondo spirito buddhista, lei ha voluto indicare l’esattezza
delle Quattro Nobili Verità. Quelle verità che ci spingono alla
ricerca della causa del nostro esistere in questo mondo di gioie e
dolori e della difficoltà di riconoscere il senso di questa realtà.
Dopo tale esempio, la mia stessa conoscenza spirituale acquisita in
decenni di studio, rischiava di risultare soltanto un mero supporto.
O, forse, soltanto adesso potrà cominciare a dare veri frutti.
Cercando di uti­lizzare il dono del suo messaggio mi sono ri­promesso
di condividerlo con chiunque abbia gli stessi intendimenti,
continuando la sua ope­ra, fintanto che avrò il tempo per mettere in
atto l'insegnamento ricevuto.


Infatti, iniziando da vivi a meditare sulla propria morte, così come
lei aveva sempre fat­to, si pratica nel modo migliore l'istruzione
spirituale, l'unica veramente in grado di farci affrontare la morte
con serenità. Ma per poter eseguire correttamente questa pratica, si
do­vranno abbandonare le illusioni della vita mondana. Non che si
debba lasciare la propria casa o la propria posizione sociale. Ciò che
deve essere abbandonato è la brama verso la ricchez­za, la ricerca
egoistica di fama e onori, il biso­gno di lodi e fortuna; smettendo di
rifiutare la povertà, l'anonimato, le calunnie e i dispiaceri, quando
questi si presentano. Mantenendo, in vita, la consapevolezza della
morte, si è portati a propendere naturalmente verso la virtù e la
corretta pratica del Dharma. La morte non farà più paura, non
sorprenderà e non sarà causa di rimorsi e rimpianti.


Gli insegnamenti buddhisti tradizionali so­stengono che, come le vite
precedenti furono fonte di produzione karmica, altrettanto succe­de
nella vita attuale. Tutta questa produzione, conosciuta come 'Legge di
Causa ed Effetto'; determina il nostro modo di vivere, di morire e il
tipo di rinascita successiva. Si deve, quindi, prestare molta
attenzione al tipo di qualità kar­mica che sorge nella nostra mente in
questa stessa esistenza poiché, non potendo modificare il risultato
delle precedenti vite, diventa obbli­gatorio trasformare e mitigare
gli effetti attuali, specialmente al momento del passaggio da questa
vita ad un'altra. Quando la morte arriva, non c'è nulla che abbia
valore se non le proprie realizzazioni spirituali.


Shantideva, grande pandit Indiano, scrisse nel suo Bodhicharyavatara:
"Quando siamo afferrati dal messaggero della morte, che valore hanno
gli amici e i parenti, le ricchezze e le proprietà? Solo il merito e
la conoscenza acquisiti sono la vera protezione, ma di ciò gli stolti
non riten­gono di doversi preoccupare e quando la morte arriva, sarà
troppo tardi per rimediare!". A me pare che in questo mondo accada
proprio così. La maggioranza degli esseri umani non sa assolutamente
nulla di ciò che li aspetta durante e dopo la morte! Per tutta la loro
vita si sono soltanto interessati a quello che può essere utile per un
periodo più o meno lungo di anni. Pochissimi, invece, si sentono
attratti dal mistero del dopo-la-vita e sono quindi motivati a cercare
la conoscenza di questi ter­ritori ignoti.


Cristina fu sicuramente tra questi. Fin dall'i­nizio della sua
avventura spirituale aveva stu­diato, letto e appreso, in gran
segreto, il metodo giusto per riuscire a dominare il terrore e
l'angoscia che ci aspettano al momento del terribile evento. Si
impegnò costantemente nel­la meditazione e nell' ascolto degli
insegnamenti superiori, avendo ottenuto precise indicazioni sulla
realtà dell' esistenza oltre la morte fisica, nonché assaggi
esperienziali di questa realtà, durante i sogni e il sonno profondo.
Poiché era solita parlare con me del suo lavoro inte­riore, ho potuto
riconoscere lo stadio avanzato della sua pratica e, quando mi confidò
dei presagi della morte, percepiti tramite precisi segnali vaticinati
nei suoi stati di silenzio men­tale, con l'apporto di appropriate
indicazioni tratte da libri segreti, non ho esitato a crederle.
Durante la sua malattia e il suo calvario, ho cercato di starle vicino
il più possibile, per aiutarla a ottenere una buona morte e chiaman­do
al suo capezzale, perché fosse piamente be­nedetta, un monaco e un
Lama buddhisti, che mi dettero conferma del suo pacifico stato di
serenità e pacatezza.


Secondo il Buddhismo, ogni essere che nella propria mente pro­duce la
forte motivazione di reincarnarsi per aiutare gli esseri verso il
Risve­glio viene riconosciuto come bodhisattva. Essi, per lo più, si
incarnano sotto forma di grandi maestri spirituali, assai evoluti.
Talvolta, però, possono anche prendere forma di perso­ne poco
appariscenti, timide e riservate: un bambino, una pia donna, un
mendicante, un comune mortale ano­nimo che, comun­que, opera a tutti i
livelli per il beneficio degli altri, soprattutto manifestando la
verità del Dharma. Noi non sappiamo dove possono nascondersi, per
questo dobbiamo porre molta attenzione nel rispettare tutte le persone
che incontriamo. Il bodhisattva si può riconoscere per la sua mancanza
di aggressività e di volontà offensiva nei confronti dei suoi simili.
Ogni suo compor­tamento è sempre teso verso l'Illuminazione e mai
verso il proprio personale tornaconto mon­dano.


Tra i molti benefici che questi Esseri nobili arrecano alle persone
ordinarie, ancora igno­ranti della loro natura divina, vi sono quelli
immediati, rappresentati da beni materiali, pro­tezione sociale e
manifestazioni affettive, e quelli, ben più significativi, dello
straordinario insegnamento inteso a rivelarci la nostra vera natura,
il potere immortale della pura Coscien­za. Nella raccolta Il sostegno
della Sag­gezza, il dotto divulgatore del Mahayana Nagarjuna dice: «La
scienza che insegna arti e mestieri è solo una scienza per guadagnarsi
da vivere; ma la scienza che insegna la Liberazione dalla illuso­ria
esistenza terrena, non è forse quella, la vera Scienza? ».
Il miglior beneficio che possiamo ricevere da qualcuno è quello che
insegna il perfetto modo di affrontare la morte, attraverso il totale
ab­bandono della nostra falsa identità con il rilascio del gravame
corporeo, che provoca tanta sofferenza e ancor più ne può provocare
allor­ché la nostra ignoranza genererà, per la forza del karma,
ulteriori rinascite condizionate. Avremo sempre un affettuoso ricordo
di Cristina e, per non vanificare il suo esempio, a mia volta io
stesso cercherò di prepararmi diligentemente affinché la tenebrosa
morte, sperimentata con paziente e spirituale partecipazione, possa
essere anche per tutti noi quello che il poeta sufi ha definito "un
matrimonio con l'Eternità".

Alberto Mengoni


P.S. È questo, con qualche variante, l'intervento tenuto dall’autore al
Convegno di Bioetica sulla Morte, tenuto a Roma il 18 e 19 del
novembre 1995. (Pubblicato su PARAMITA n.58 di Gennaio 1996)

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