4 giugno 1944, giorno (diciamo)
della “liberazione” di Roma. “Liberata” da un popolo che per
vocazione nasce come “liberatore di genti oppresse”. D’altra parte il
mondo è colmo di “gnocchi”.
Ero poco più che bambino,
ma quegli avvenimenti sono rimasti nella mia memoria ben chiari e, parafrasando
padre Dante, “per ridir del ‘mal’ che vi trovai, dirò dell’altre cose che
v’ho scorte”.
Quanto ci sarebbe da scrivere su
quel periodo: bombardamenti e mitragliamenti terroristici (d’altra parte questo
tipo di “liberazione” si porta con il terrore, come stiamo vedendo anche
in questi giorni); attentati scientemente preparati per riavere in cambio le
rappresaglie e la fame, sì, la fame più nera.
Proverò a scrivere di quelle cose
meno note, perché ricordi assolutamente personali.
In quell’epoca vivevo a Via Po,
ad un ultimo piano. Le mie finestre davano da un lato su quella strada,
dall’altra su Via Simeto. Con la nascita della R.S.I. (esattamente come
qualsiasi Paese in guerra) vennero emessi bandi di coscrizione militare per
alcune classi: moltissimi risposero, pochi no.
Spesso, affacciandomi su Via Po,
vedevo una parte dell’interno di un appartamento del palazzo prospiciente,
esattamente al secondo piano, dove si “nascondeva” un giovane che non si
era presentato alla chiamata alle armi. Molti lo conoscevano e sapevano della
sua renitenza alla leva: ma era inoffensivo e non ebbe mai fastidi.
Posso testimoniare che, pur
vivendo in un periodo di fame (provate a pensare come si può vivere con una
razione di 80 grammi di pane giornaliera), la popolazione civile non provava
odio né per i militari tedeschi né per i “fascisti”, anche se la
maggioranza attendeva i “liberatori”. L’idea di sconfiggere la fame era
il miraggio assillante; il “pane bianco” giustificava persino la
sconfitta della Patria.
In questo clima, che per assenza
di spazio ho appena accennato, la vita scorreva (tra un bombardamento e
l’altro, tra un mitragliamento e l’altro) ordinata; e la parola “moralità”
aveva ancora un senso e un valore.
“Finalmente” ecco la
mattina del 4 giugno: la “liberazione”.
Ovviamente “quel giorno”
niente scuola: una doppia festa. Dalla strada giungevano grida di giubilo e
anche il rumore metallico dei carri armati che, in numero infinito, puntavano a
nord dirigendosi sulla Flaminia, l’Aurelia e la Salaria. Ad un certo momento
sentii colpi di armi automatiche. Mi affacciai su Via Simeto: guardando sulla
destra potevo vedere uno squarcio di Piazza Verdi dove allora c’era la “Casa
dell’automobile”.
I colpi venivano proprio da quella parte. Poi venni a
sapere che in quell’edificio si erano asserragliati alcuni “fascisti”
che, al contrario della massa, non volevano essere “liberati”.
Scesi in strada e mi imbattei con
il giovane “imboscato” del palazzo prospiciente: si era cinto la testa
con un drappo rosso e imbracciava un fuciletto simile a quelli che avevamo in
dotazione come “Balilla”.
Notai nei suoi occhi un notevole imbarazzo:
certamente ero l’ultima persona che avrebbe gradito incontrare. Anch’io lo
guardai, stupito (ancora non potevo sapere l’andamento di “certe cose”).
Poi si allontanò, tuffandosi “vincitore fra i vincitori”, e magari
andando a vantare i suoi meriti di partigiano.
Sin dal primo giorno ebbi modo di
assistere al sorgere del fenomeno delle “segnorine”: ragazze e signore
che donavano le loro virtù ai “liberatori”.
Il passaggio fra la nostra
civiltà e l’”american way of life” fu improvviso, squassante. Ripeto,
anche se poco più che bambino, ebbi immediatamente l’impressione che “quel”
4 giugno rappresentasse uno spartiacque: da una parte la vita come l’avevo
vissuta, dall’altra quella che mi si prospettava davanti. Da quel giorno e nei
seguenti assistetti a spettacoli che mai avrei immaginato. Soldati, soprattutto
americani, perennemente ubriachi che insudiciavano e si insudiciavano col
proprio vomito. Per la loro continua ricerca di “segnorine” le strade,
non solo quelle nascoste, erano tappezzate di profilattici, un “prodotto”,
sino ad allora assolutamente sconosciuto. Alcuni ragazzi che erano stati
orgogliosi “Balilla”, trasformati in “sciuscià”.
La fame, con la “liberazione”
non scemò di molto, perché i prezzi di ogni prodotto si erano moltiplicati
grazie all’inflazione causata da un altro regalo dei “liberatori”:
l’immissione, incontrollata sul mercato, delle “amlire”, la moneta
d’occupazione, che tanto danno ha arrecato alla nostra economia.
E le “segnorine” battevano
il marciapiede sempre più numerose, alimentando una “ventata” di
progresso.
Un fatto, più di ogni altro, è
rimasto impresso nella mia mente e da solo, può dare la misura della miseria morale
importata dai “liberatori”. Un giorno ero a Piazzale Brasile (Porta
Pinciana), zona particolarmente frequentata
dai militari americani di colore e bianchi.
Vidi arrivare una famigliola
composta da padre, madre e un bambino di due o tre anni. La donna con il
bambino in braccio si sedette su un muretto, mentre l’uomo si allontanò per
tornare, poco dopo, in compagnia di un soldato di colore. Confabularono per
pochi attimi, poi l’uomo prese il bambino e lasciò che la moglie si
allontanasse con il militare nell’interno di Villa Borghese. Assistetti anche
al ritorno della coppia e a un nuovo episodio: l’uomo consegnò il bambino alla
donna, si allontanò per cercare un nuovo cliente: una nuova breve
contrattazione e così di seguito.
Il mondo nel quale oggi viviamo è
quello che ci fu imposto “quel” 4 giugno. D’altra parte, la storia si
ripete perché: ad ogni invasione di barbari segue un periodo di decadenza.
Filippo Giannini
E' una articolo-quello di Giannini- su cui c'è meditare all'infinito,fino a quando non si impara a capire erte cose,certi fatti,certe situazioni.
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