“Tenendo conto del tuo dharma, non devi tentennare. Per un guerriero, non c’è niente di meglio che combattere il male. Il guerriero che affronta una guerra siffatta dovrebbe essere contento, Arjuna, perché essa si presenta come un cancello aperto per il cielo. Ma se non partecipi a questa battaglia contro il male, subirai l’onta, violando il tuo dharma e il tuo onore.” (Bhagavad Gita II, 31-33)
Spesso ci si chiede se e come l'insegnamento advaita (non-duale), punta di diamante della filosofia indiana, possa essere compreso, o semplicemente recepito, dalle menti occidentali estremamente speculative e dedite all'empirismo dualistico. In effetti solo alcuni cercatori di verità, che santificano la loro esistenza alla ricerca di Sé, sono veramente interessati alla Conoscenza ed alla Consapevolezza della unitarietà e inscindibilità della vita, manifestata nelle sue singole parti (individui) come in una sorta di ologramma che ripete in ogni sua frazione la conoscenza dell'intero.
Eppure nella tradizione induista esiste una scrittura di matrice non-dualistica che cerca di integrare un insegnamento di attuazione dharmica (espletamento delle proprie mansioni in armonia tra le propensioni innate e la spinta evolutiva) con la teoria dell'Assoluto che tutto contiene ed in cui tutto si manifesta per sua spontanea emanazione. Questo testo è la Bhagavad Gita, la parte più spirituale del poema epico il Mahabharata.
Nella Bhagavad Gita viene affermato egualmente che "Tutto è Uno" e che l'Atman (L'IO Assoluto) è già perfetto in se stesso ed è presente, come intima natura, in ognuno di noi, ma allo stesso tempo vengono impartiti dei consigli (od istruzioni) sul come realizzare questa verità. In un certo senso nel testo il saggio Krishna rivolgendosi metaforicamente ad Arjuna, il suo discepolo, lo incita ad agire, come se il piccolo io (ego), che egli riconosce come il suo sé, fosse reale. Allo stesso tempo lo istruisce a non considerare come propri i vantaggi o gli svantaggi del suo agire ma come semplice conseguenza di un espletamento dharmico.
Questo atteggiamento interiore di agire con "distacco" è considerato anche nella dottrina buddhista dell’anatman, secondo la quale l’uomo è privo di ogni “io” e persino del Sé, mettendo però in guardia il cercatore su tali insegnamenti che possono, se divulgati indiscriminatamente e interpretati in modo non appropriato, produrre risultati decisamente deleteri. Nagarjuna stesso, grande logico buddhista e fondatore del Vacuismo o Via di Mezzo (Madhyamaka), avverte: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata».
Per questo, l'insegnamento di Krishna contiene indicazioni apparentemente contrastanti, a volte viene indicato l'Assoluto come unica realtà, tal altra si incita a considerare accuratamente le convenienze e le opportunità dell'agire dharmico.
Forse questo altalenare fra la libertà e la giustizia è ciò che veramente è necessario alla mentalità occidentale, il cui procedere diretto in una linea retta, essenzialmente giustificato da ragioni contingenti ed utilitaristiche (definite anche scientifiche per dare loro un senso compiuto) ha fatto perdere agli individui la capacità di personale discernimento e discriminazione.
Ma la verità non è qualcosa che può essere trasmessa come una comune conoscenza delle cose esteriori, come un processo. La verità è la qualità dell'Essere e può essere sperimentata solo direttamente e non raccontata.
I grandi misteri imperniati sul silenzio non si profanano impunemente. Accostarsi ad essi con leggerezza o credere di poterli trasmettere senza le dovute qualificazioni espone a gravi rischi: in primis la follia e la perdita dell’orientamento. Il linguaggio comunemente usato (vaikhari) possiede solo un quarto del potere della parola; i rishi vedici sostenevano che esso non può descrivere la traccia lasciata da un uccello nell’aria. Da ciò la necessità di percepire la propria vera Essenza attraverso la comunione empatica con un vero Maestro che ha realizzato in Sé la Verità.
Da ciò se ne deduce che anche la più raffinata scrittura, come può esserlo la Bhagavad Gita (per non parlare di scritture inferiori come la bibbia, i vangeli od il corano) non può trasmettere la Conoscenza, può solo risvegliare un interesse verso la ricerca da parte del lettore genuinamente interessato alla Verità.
Cosa questa totalmente contraria ai dettami delle religioni che si basano sul "libro", i cosiddetti testi dogmatici "rivelati" che portano all’esasperazione del conflitto tra uomo e natura di matrice ebraico-cristiana, al nichilismo e materialismo impliciti in un certo buddhismo ritualistico e al dualismo camuffato da non-dualismo scaturente dalla cattiva comprensione della dottrina advaita in certa new age – che ritiene il mondo fenomenico una sorta di apparenza né reale, né irreale (maya). Queste posizioni oscurantiste hanno favorito lo sviluppo di forme perniciose di scientismo riducenti la persona ad un mero meccanismo biologico.
Ed è nella Bhagavad Gita che è possibile trovare alcune frasi molto esplicative sull’argomento, ovvero sul significato dell’agire nel mondo e della formazione del karma individuale, le quali ovviamente vanno lette nella comprensione che anche tali insegnamenti sono un’ignoranza (mascherata da conoscenza) per cancellare altra ignoranza (che chiamiamo conoscenza empirica). Poiché… la spiritualità è qualcosa che riguarda l’interiorità dell’individuo e non può essere appresa da un qualsiasi libro. E questo è esattamente ciò di cui noi occidentali avremmo bisogno, impregnati come siamo di dogmatismo scientista o religioso.
Paolo D'Arpini - Comitato per la Spiritualità Laica
Il concetto di Dharma nella Bhagavad Gita...
Dolori alle articolazioni. Il consiglio di Osho...
In risposta alla domanda di una meditante che chiedeva come lenire i dolori alle articolazioni Osho rispose: “Inizia a fare alcune cose e andrà tutto bene… Fai una doccia calda e subito dopo una doccia fredda. L’acqua deve essere davvero calda. Aumenta il calore gradualmente. Non c’è bisogno di torturarti, ma deve essere molto calda in modo che tutto il corpo si riscaldi.
Il punto è: quando il corpo è veramente caldo tutti i pori si aprono, tutte le cellule si espandono e tutte le articolazioni si allentano moltissimo. Poi con il passaggio improvviso al freddo tutto si restringe di nuovo. Poi usa di nuovo l’acqua calda, poi di nuovo quella fredda. Devi farlo tre volte: una doccia calda da due a tre minuti, una doccia fredda da due a tre minuti, poi di nuovo calda, poi di nuovo fredda.
Quando le cellule si espandono e si restringono diventano flessibili e la flessibilità è necessaria. Alcuni punti del tuo corpo sono diventati rigidi: ecco perché ti fanno male, hanno perso la loro fluidità. Ma non c’è niente di cui preoccuparsi. Acqua davvero calda e acqua davvero fredda... E ti divertirai.
Un’alternativa alla doccia calda è strofinare tutto il corpo con un panno asciutto, un asciugamano. Strofina soprattutto le parti che fanno più male, scaldando tutto il corpo. Salta, corri e strofina, finché non inizi a sudare. Poi fai la doccia fredda...
Osho
Osho: "And Now, And Here"...
Nei millenni più recenti, siamo diventati dei credenti piuttosto che dei ricercatori. Si è affermata una mente che crede invece di una mente che indaga. Crediamo immediatamente, non ci mettiamo mai alla ricerca. E qualunque cosa valga la pena di essere raggiunta, in questo mondo, non può essere raggiunta senza indagare, senza cercare. E anche se, senza cercare, fosse possibile raggiungere qualsiasi altra cosa, non è possibile raggiungere il proprio essere senza una ricerca. Quindi la prima cosa è: bisogna avere una mente piena di domande. La prima preparazione è avere una mente che indaga.
Potreste controbattere che siete alla ricerca, che ponete delle domande. Ricordate, tuttavia, che le vostre domande cercano solo una risposta, non le considero delle indagini.
Una domanda non dovrebbe cercare solo una risposta, dovrebbe cercare un’esperienza. Chiunque può darvi una risposta; nessuno può darvi un’esperienza.
Ci sono persone che sembrano indagare e la loro indagine sembra religiosa. In apparenza chiedono: “Dio esiste? Esiste moksha, la salvezza?”. Ma pare proprio che stiano solo cercando delle risposte; qualcuno dovrebbe fornire loro delle risposte, tutto qui. Se la domanda serve solo a trovare una risposta, prima o poi quella risposta si trasformerà in una convinzione, perché chi l’ha posta non è disposto a fare molti sforzi. Ciò che gli interessa è semplicemente incontrare qualcuno in cui credere, qualcuno che possa fornire la risposta e soddisfare la sua curiosità.
Io non ho risposte per nessuno. Non mi interessa fornire delle risposte. Se mi esprimo a volte in termini di risposte alle domande, è solo per evitare che le persone scappino del tutto. Vorrei che rimanessero un po’ più a lungo, in modo da poter distruggere il loro desiderio di trovare risposte e aiutarle invece a far crescere il seme che desidera l’esperienza.
Le persone sono disposte a ricevere delle risposte, ma nessuno vuole conoscere davvero. Le risposte costano poco. Puoi trovarle nei libri, possono fornirle i guru. Trovare risposte è una cosa assolutamente intellettuale, non ha niente a che fare con il vivere totalmente. È necessaria una ricerca dell’esperienza, è richiesta un’indagine in nome dell’esperienza.
Lasciate che vi racconti una storia, come esempio.
In Tibet viveva un mistico chiamato Milarepa. C’era l’usanza, in Tibet, che quando qualcuno andava a incontrare il maestro, doveva prima girargli intorno tre volte, poi inchinarsi davanti a lui sette volte e infine sedersi rispettosamente in un angolo, finché il maestro non lo chiamava e gli permetteva di chiedere. Milarepa andò dritto dal maestro e lo afferrò per il collo. Non gli girò intorno tre volte, non si inchinò sette volte e tantomeno aspettò il suo turno seduto in silenzio in un angolo. Afferrò semplicemente il maestro e disse: “Dimmi velocemente cosa vuoi dirmi, perché non so nemmeno cosa voglio chiedere. So solo che non so niente. Se hai qualcosa da dire, allora parla!”.
Il maestro disse: “Ora aspetta un minuto e comportati bene. Non conosci il rituale per fare una domanda? Non sai che devi girare intorno al maestro tre volte, inchinarti davanti a lui sette volte e poi sederti in un angolo finché non ti chiama?”.
Milarepa disse: “Lo farò più tardi. Dimmi, se mentre giro tre volte, mi inchino sette volte e mi siedo rispettosamente in un angolo, dovessi morire, chi sarebbe responsabile? Ti assumerai la responsabilità della mia morte o sarò io il responsabile? Se mi prometti che non morirò mentre faccio tutto questo, sono disposto a girare e a inchinarmi non solo sette volte, ma settecento. Prima rispondimi, le formalità possono essere espletate più tardi, con calma”.
Il maestro disse: “Siediti. Tu sei il genere di persona che è alla ricerca di un’esperienza, non di una risposta. È un bene che tu non mi abbia girato intorno, perché quel rito è destinato solo a coloro che riescono a farlo. Quando vedo che una persona mi gira intorno, capisco che è la persona sbagliata, perché dimostra di avere ancora il tempo per farlo”.
Quindi il primo elemento che cerco in un ricercatore è l’elemento dell’indagine: la ricerca non di una risposta, ma dell’esperienza; non la ricerca di una…
Testo di Osho tratto da: And Now, And Here Vol. 2
Religione ed il monopolio dell'aldilà...
"Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale" di Eduard Jakovlevič Batalov - Segnalazione libraria
Tempo addietro Alessandro Visalli mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico Eduard Jakovlevič Batalov. Il libro, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona conoscenza degli argomenti è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico da vari punti di vista.
In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila.
Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.
Stralcio di un articolo di Carlo Formenti tratto da Sinistra in Rete
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum...
Nonostante l’impegno che ognuno può mettere per migliorare lo stato della storia, seguendo strade sbagliate, non potrà che viverne la mortificazione.
Non si può risolvere un problema con gli strumenti che l’hanno creato, pare sia un’affermazione di Einstein (1879-1955). Ipotizzando che il fisico tedesco fosse un cosiddetto genio – ma pare abbia anche detto che tutti siamo geni – penso che la sua affermazione, sia un culmine al quale chiunque può arrivare. Tuttavia, secondo il principio che capire non conta nulla, in chiunque condivida il motto del noto scienziato della linguaccia, certamente non scaturirà un aggiornamento del proprio comportamento. Vale a dire che, nel suo fare, non cesserà di contraddirlo. Mentre chiunque, nel rispetto di un secondo principio che ricreare è necessario, inizierà ad osservare la realtà per riconoscere in che termini la formula einsteiniana corrisponde a verità. Un atteggiamento che lo porterà ad escogitare modalità differenti dalle consuetudinarie, cioè egocentriche, per eludere all’origine il problema.
Dei problemi che si tenta di risolvere con i mezzi che l’hanno generato, Ronald David Laing (1927-1989) ne ha dato una rappresentazione nelle sue pubblicazioni. Lo psichiatra scozzese ne evidenzia un quadro osservando la realtà delle relazioni interpersonali. Nelle situazioni di conflitto (problema) ambo le parti, sostenendo la propria posizione nel tentativo di ridurre il nodo, di fatto, lo alimentano. La lettura della questione da una prospettiva egocentrica, necessariamente nega l’altra se di pari posizione. L’ingarbuglio diviene quindi sempre più profondo, fino alla sofferenza reciproca, primo combustibile dell’esplosione violenta rivolta a sé o al prossimo. Impotenza, prevaricazione, collera, prostrazione, vendetta, cattivi pensieri sono le emozioni che vanno a riempire di sé la realtà delle parti. Ovvero, nonostante il tentativo di fuggirla, la ingarbugliano in una morsa penosa, che si serrerà via via di più finché l’ottica che ne ha avviato la stretta, non cesserà di venire impiegata.
“Giovanni Il tuo guaio è che sei invidiosa di me.
Maria Il tuo guaio è che tu la pensi così.
Giovanni Non mi dai credito di nulla.
Non sopporti d’ammettere che me ne spetti.
Maria È qui dove ti sbagli. Non sopporti d’ammettere che non me ne importa.
Giovanni Sei proprio come mia madre.
Maria È certo che mi tratti come lei.
Giovanni Be’ allora non comportarti come lei.
Maria Cerchi di distruggere me perché odi lei.
Giovanni Perché non la smetti di proiettarti. Sei tu la frigida.
Maria Quando ti ho conosciuto non lo ero.
Giovanni Potresti fare a meno di non morderti la fica nel disprezzare il mio cazzo.
Maria Quando la metti su questo piano mi perdo d’animo.
Giovanni È comunque un inizio. È questa la prima volta oggi che ammetti un minimo di inadeguatezza.
Maria Proprio non si può essere amici?
Giovanni Certo. Non ho mai smesso d’esserti amico”. (1)
Raggiungere la consapevolezza di fondare la realtà su una concezione soggettiva, autoreferenziale, egocentrica è la premessa alla soluzione e prevenzione dei nodi. Colui che rispetta ed è capace di amore incondizionato l’ha già in sé. Con essa, possiamo prendere coscienza, trovare evidente, che solo lasciando perdere o dando dignità all’affermazione altrui, il seme del problema non ha di che schiudersi.
Il penoso confronto tra le parti viene meno, quando dalla reazione si passa all’ascolto, che significa presa in considerazione dell’altro, interrompere la prevaricazione del proprio giudizio, lasciare spazio all’assertività e alla lettura fenomenologica. L’arrocco sulla propria verità cessa di venire difeso. L’orgoglio mostra il suo dannoso lato B. L’importanza personale che ci attribuiamo, evidenzia la nuce del nodo. L’assunzione di responsabilità, da – secondo i canoni comuni – dimostrazione di debolezza, muta in forza e potere. L’energia che sperperavamo pur di averla vinta, diviene a disposizione per seguire strade nuove che portano alla rivoluzione del mondo, delle relazioni, alla bellezza, alla serenità, alla salute.
Anche se la cultura ci spinge alla competizione fino ad ammettere la sopraffazione, così come osservato per la relazioni interpersonali, la medesima considerazione è mutuabile ad ogni problema diretto e indiretto. Al fine di eluderlo, serve una prospettiva differente da quello che l’ha generato. È una verità che vale dall’aritmetica – ipotetico terreno di realtà elementare – fino a qualunque altro maggiormente complesso. Uno di questi, potrebbe riguardare la realtà nella sua totalità, nella misura in cui accreditiamo la scienza, quale unico strumento in grado di definirla e di estrapolare da essa, le uniche cosiddette verità. Tuttavia, il suo criterio d’indagine, la sua prospettiva, si dipana su un terreno che essa stessa ha, autoreferenzialmente, circoscritto ed eletto a superiore. Si tratta del grande campo logico-razionale. Grande, ma non unico. Nonostante il suo inconsapevole impegno a crederlo e a farcelo credere, esso non è che la metà dell’infinito volume che contiene tutti i pensieri e le azioni degli uomini. Tra i mille che se potrebbero citare, ne sono campioni questo articolo, commenti inclusi, e quest’altro, in cui, ogni riga si muove e fa riferimento al piano logico-razionale-dimostrativo. Il pezzo tratta della costituzione dell’universo e perciò, anche della realtà e di noi tutti. Una questione dalla quale niente del volume dovrebbe essere escluso. Tuttavia, in nessuna riga fa capolino il piano esistenziale, che chiamiamo emozionale e sentimentale, mai quantitativamente misurabile, nonostante sia il solo dal quale può fiorire il mondo e ogni sua descrizione. Uno spazio che non è governato dalla ragione e neppure dalla logica, più rappresentabile dal quantistico che dal meccanicistico. In esso, infatti, diversamente da quanto accade in terreno meccanicistico-deterministico, la prevedibilità tende a ridursi e a restare in balia della probabilità, un’area vagolante, in cui il deus ex machina del causa-effetto cede il passo al miracolo, all’impossibile, alla serendipità, alla variabilità e circolarità del tempo, all’assenza dello spazio, alla contiguità di tutto, all’evidenza che l’altro è un noi in altro tempo e modo, che – fatto salvo gli ambiti chiusi, quelli in cui tutti sanno tutto e condividono il gioco – la comunicazione non è lineare ma circolare. Di più, in esso, logica e dimostrazione i due pilastri, dell’apparente incrollabile edificio della scienza, non esistono proprio, e la realtà non c’è più, se non nelle nostre visioni. L’assolutismo dell’oggettività si palesa come dogma, miraggio, chimera. Quando si vuole assoggettare l’esistenziale al loro dominio, è come immettere tossine che generano problemi irrisolvibili con gli strumenti che li hanno generati, che castrano la bellezza e la creatività evolutiva, sola strada giusta verso la vita serena.
Tanto l’uomo comune, quanto il ricercatore, ma anche il sociologo e qualunque studioso, consumano l’energia della vita per dedicarsi a statistiche, algoritmi, percentuali, intelligenza artificiale e chatgpt. Lo fanno con serietà, come è serio il bigotto religioso. Loro idolatrano però la scienza. Sono cioè scientisti – come chiunque formato da questa cultura – ovvero coloro che considerano la cosiddetta scienza quale solo ambito capace di generare verità, tra cui la sola attendibile descrizione del reale. Uomini sulla strada sbagliata, che corrono certi di se stessi e delle loro munizione di logica, raziocinio e nominalismo, a velocità ora digitale, cioè senza alcuna possibilità di relazione e controllo con il criterio che li domina, ma in totale dipendenza dalla tecnologia. Moltitudini che pretendono la dimostrazione per accreditare qualsivoglia voce estranea al loro monoteismo meccanicistico, che non sospettano niente di quanto è conoscenza oltre il proprio steccato ricamato da riconoscimenti accademici, da ossequi popolani, da carriere dispiegate al mondo. Nel rispetto dell’educazione ricevuta e mai messa in discussione, come frotte fanatiche, percorrono il rettilineo del buon senso, della scienza e della ragione senza mai fermarsi, né lasciarlo. Seguitando a vedere il mondo come un oggetto e mai come relazione. Il percorso è fornito di tutto ciò che serve alla vita. Una strada dritta, costruita con le teste appiattite di cui i magazzini del progresso straboccano. Sfrecciano attraverso gallerie scavate in montagne di corpi esanguati dal mercato, dalle sue leggi, dalla sua tirannia. Gli acritici eroi di se stessi, sono lanciati a velocità che nascondono la rete di conoscenza composta da viottoli, carrozzabili, piste polverose, tratturi sconnessi, selciati storici, ciottolati artistici. A loro non importa, e ridono di chi li ammonisce, di chi li redarguisce sul senso a fondo cieco che hanno imboccato; di chi sventola la bandiera analogica, pregna di misura d’uomo. Anzi, dalla loro strada sbagliata, dalle loro deccapottabili, con diritto d’aguzzino, li denigrano.
Logica e razionalità non hanno a che vedere con emozioni e sentimenti, i quali svolazzano in un cielo alogico e irrazionale, privo di materia, pregno di flussi energetici ancestrali, nel quale mente, coscienza, e universo non sono elementi separati, individualmente analizzabili, ma la realtà stessa, riflessi della coscienza. Per accedere al mistero del mondo, i gelidi strumenti meccanici non possono produrre alcuna convincente soluzione. Fatto salvo le esigenze storico-organizzative, la dimensione umana, il suo nucleo creatore, non rispetta alcuna legge materiale. Non comprenderlo, non ricreare questa verità, ci porta a seguitare su strade sbagliate che, nel tentativo di migliorare la nostra condizione, alimenta lo stato di prostrazione, di cui il presente, cui stiamo assistendo, ne è campione esemplare.
Lorenzo Merlo
Nota
R.D. Laing, Nodi, Torino, Einaudi, 1974, p. 29.
...e sia poesia...
“Anche uno jnani darà libero sfogo al pianto o gioirà anche qualunque situazione si presenti. Un tale jnani non sopprimerà nessuna espressione delle emozioni che verranno spontaneamente da questa coscienza e da questo apparato del corpo. Normalmente le persone suppongono che un jnani dovrebbe sopprimere tutti gli scoppi emotivi. Questo non è corretto. Dalla posizione dell'Assoluto non si è implicati con i sentimenti e gli scoppi istintivi dell'apparato. Uno jnani non partecipa volontariamente; tutto accade spontaneamente; mentre un non jnani è profondamente coinvolto e considera ogni cosa come reale.”
Lo stato naturale...
La coscienza è talmente pura che qualunque cosa facciate per purificarvi non fa altro che rendervi impuri. La coscienza deve sgorgare, per così dire: deve purgarsi da ogni traccia di santità e non-santità, da tutto quanto. Anche ciò che voi considerate «sacrosanto» è una contaminazione in quella coscienza.
Uppaluri Gopala Krishnamurti
C'era una volta una "fierucola"...
Per raccontare questa storia debbo fare diversi passi all’indietro e partire da quando a Verona fondai la prima associazione di cultura “alternativa” d’Italia. Avvenne sulla scia del ‘68, a quel tempo le associazioni si “legalizzavano” depositando uno statuto e la lista dei fondatori alla Questura di competenza e così feci nel 1970 aprendo nei locali di una vecchia osteria dei poeti sita in Piazzetta San Marco in Foro quel che si chiamava “Club Ex”, composto non solo di ex sessantottini ma soprattutto di membri della cultura locale, scrittori, artisti, cantanti, etc. Dal Club Ex passarono gruppi come i Gatti di Vicolo Miracoli, pittori di grido e persino cantautori di “fuori porta” come Francesco Guccini ed altri. A quel tempo io stesso mi fregiavo del titolo di “artista concettuale” ed essendo un alternativo lanciai una contro-biennale (in antitesi a quella borghese e finta di Venezia) definita “itinerante” che si svolgeva lungo le strade di Verona, una specie di “marcia”che al posto dei cartelli di protesta esibiva opere d’arte portate a mano (od in motoretta) in ostensione.
Talmud, l'altro "vangelo" - Talmudismo alla conquista del mondo...