Ho sempre avuto la sensazione, una specie di intuizione prelogica, che tra esperienza mistico/spirituale ed esperienza psicoterapeutica, soprattutto psicoanalitica, ci fossero delle analogie, delle omologie.
Di questa sensazione/intuizione ho avuto una piccola conferma leggendo tempo fa (su un numero de “il venerdì” de “la Repubblica”, quello uscito il 5 ottobre 2018) l’intervista rilasciata a Benedetta Craveri dal critico d’arte Jean Clair, che aveva organizzato a Parigi una mostra intitolata “Sigmund Freud. Dallo sguardo all’ascolto”.
Mostra che si proponeva di indagare il rapporto tra il padre della psicoanalisi e le immagini; e i motivi per cui questo rapporto ad un certo punto della vita di Freud si era interrotto per lasciare spazio sempre maggiore all’uso della parola.
Un passaggio dell’intervista mi aveva colpito in modo particolare. Benedetta Craveri chiede a Jean Clair: “Ma per quale motivo Freud smette di interessarsi alle immagini?”
E Jean Claire risponde: “Freud prende progressivamente coscienza che la disposizione delle parole, l’uso della sintassi e del vocabolario ci dicono quanto e forse più delle immagini e rivelano la complessità della psiche”.
Ancora la Craveri: “Questa scommessa sulla forza salvifica della parola come unica fonte di verità va interpretata come un ritorno di Freud alla religiosità ebraica?”
E Jean Clair: “La priorità data all’ascolto, il modo di conferire sempre dei significati a una parola ricordano in modo sorprendente quella saggezza talmudica a cui Freud ha fatto ritorno nei suoi ultimi anni di vita.
E’ ciò che avvicina non poco la psicoanalisi a un tipo di spiritualità ebraica e a un certo modo di leggere, ascoltare e interpretare le parole. La psicoanalisi comporta un passo indietro a favore del silenzio e dell’ascolto.
E, fatto su cui non si insiste abbastanza, questa presa di distanza dalla dimensione visiva è sottolineata dal fatto che l’analista non deve essere visto dall’analizzato…
Quante volte vediamo nei film la poltrona dello psicoanalista affiancata al divano?
E’ un errore madornale, perché la poltrona deve essere collocata dietro la testata del divano.
Ci è forse dato di vedere il volto di Dio?
Mosè si vela la faccia davanti al roveto ardente.
Dio ha una voce, non un volto.
In un certo qual modo la psicoanalisi ripete questo meccanismo”.
A partire anche da questa riflessione di Jean Claire, vorrei provare ad argomentare le ragioni che mi portano a vedere delle analogie, a mio avviso forti, profonde, tra l’esperienza spirituale in generale, quella mistica in particolare e la terapia psicoanalitica.
La prima analogia che mi viene in mente è che entrambe queste esperienze, quella mistica e quella psicoanalitica, costituiscono un percorso, un cammino, non esteriore e materiale ovviamente, ma interiore: spirituale, appunto.
In cosa consiste questo percorso? Nell’entrare in contatto con il proprio mondo pulsionale (come direbbero gli psicoanalisti), con le proprie passioni e i propri istinti animali (come direbbero i mistici), prenderne consapevolezza, non tanto per negarli (anche se i mistici a volte fanno anche questo, ma questi sono i cattivi mistici), quanto per trascenderli in nome del “principio di realtà” (dicono gli psicoanalisti) o dell’amore per Dio (dicono i mistici).
Famosa è la frase di Freud per identificare questo tragitto/percorso: “Laddove c’era l’Es ci sarà l’Io”.
Laddove per “Es” possiamo intendere il mondo inconscio dei desideri e degli istinti e per “Io” il mondo inconscio che è diventato (almeno in parte) conscio, ha preso atto della realtà ed ha trovato una (più o meno) equilibrata mediazione tra “il principio del piacere” (da cui è dominato l’Es) e “il principio della realtà” (istanza che caratterizza tipicamente l’Io).
La frase di Freud potrebbe essere parafrasata da un mistico in questo modo: “Laddove c’era l’Es ci sarà Dio”.
Laddove per “Es” possiamo intendere esattamente le stesse cose che intende la psicoanalisi (cioè le passioni, gli istinti animali) e per Dio la voce della nostra coscienza, che è più intima a noi di noi stessi, che ci fa vedere non solo ciò che istintivamente siamo portati a desiderare (questo è l’Es) ma anche ciò che è/sarebbe meglio per noi e per quelli che ci circondano.
La seconda analogia che vedo è questa. Il percorso della psicoterapia psicoanalitica è in fondo null’altro che un cammino di formazione, un addestramento progressivo a prendere contatto con l’Altro da Sé, con il proprio Maestro o demone interiore.
Chi va dallo psicoanalista è afflitto da questa incapacità fondamentale: non sapersi guardare dentro, non riuscire a gestire le proprie pulsioni ed emozioni o perché queste gli prendono troppo la mano o perché egli le frustra, reprime, esageratamente, se non totalmente.
Nella terapia psicoanalitica l’Altro da Sé è, soprattutto nella fase iniziale ma anche in quella intermedia, un altro in carne ed ossa. E’, infatti, lo psicoanalista, col quale il paziente attiva una vera e propria dinamica di identificazione (il famoso transfert).
Solo nella fase finale della psicoterapia, il paziente riesce a introiettare dentro di sé l’analista e diventa analista di se stesso. A questo punto può camminare da solo, perché ha imparato a riconoscere l’Altro da Sé dentro di sé.
Il percorso mistico, a pensarci bene, non è molto diverso. Il mistico è uno che consapevolmente cerca Dio, in realtà è attratto dal mistero profondo che è rappresentato dall’esistenza umana e cerca una risposta alla domanda di senso che tutti ci poniamo.
Ricercando Dio in realtà egli cerca se stesso o, meglio, l’Altro da Sé, che è la parte più profonda e intima di ognuno di noi. Senza l’Altro nessun colloquio interiore è possibile.
Nell’esperienza mistica, all’inizio, l’Altro da Sé assume (o, meglio, può assumere; ci sono anche mistici che ne fanno subito a meno) le sembianze del Dio esterno a sé o di un Maestro di vita in carne ed ossa.
Più, però, la sua vita spirituale va avanti, più cresce e si affina, più il Dio esterno diventa interno, si interiorizza. Dio e l’Altro da Sé si fondono e alla fine resta (può restare) solo l’Altro da Sé, come guida e maestro interiore.
Ed ecco la seconda analogia che volevo mettere in evidenza: come il paziente, ad un certo punto della psicoterapia, può fare a meno dell’analista, così il mistico ad un certo punto del suo percorso spirituale può fare a meno di Dio, perché Dio abita oramai in lui, non è più fuori di lui, è stato da lui introiettato.
La terza analogia mi viene suggerita dall’intervista, di cui ho riportato integralmente il passaggio da cui ha tratto spunto questa mia meditazione.
Dio non ha un volto, ha solo una voce. E Gesù, infatti, viene presentato da Giovanni (nel prologo, versetto 1 del suo Vangelo) innanzitutto come Verbo, cioè Parola, quindi come Voce che parla, come Maestro. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”.
Lo psicoanalista, anche lui, più che un volto, è una voce. Tanto è vero che (quasi) si nasconde al paziente, si fa vivo solo con la parola, quasi a sottolineare il primato della parola su quello del volto.
Anzi, a dire il vero, lo psicoanalista tende a parlare il meno possibile per cedere il più possibile la parola al paziente, perché il paziente impari a parlare sempre di più e sempre meglio con se stesso, anzi con l’Altro da Sé.
Il mistico cerca per definizione qualcuno che è invisibile. Ma, in fondo, anche il paziente in terapia cerca qualcuno che è invisibile.
Non solo (e, a dire il vero, non tanto) perché il terapeuta si nasconde dietro il divano su cui è sdraiato il paziente (come sostiene Jean Clair). Ma perché colui che cerca il paziente non è una realtà che vive fuori di lui, bensì è una persona che abita in lui, è lui stesso, il vero se stesso.
Credo e spero di aver dato qualche dimostrazione della tesi da cui sono partito: c’è una profonda e significativa analogia tra il percorso psicoterapeutico e quello spirituale-mistico.
Giovanni Lamagna
Commento del Dott. Stefano Andreoli - Psicologo Clinico: "Che la psicoanalisi rappresenti la versione occidentale e "scientifica" di forme spirituali, religiose, mistiche dei vari popoli della storia, é cosa oramai risaputa da tempo dall'antropologia (basti pensare al testo fondamentale di Ellenberger del '70).
RispondiEliminaRiguardo al terzo punto sovraesposto (l'uso del lettino, retaggio del setting delle tecniche ipnotiche passate), giova ricordare che, per quanto sia seducente la teoria dell'analista che vuole assomigliare al dio ebraico ponendosi fuori dalla vista del paziente... Freud optó per questa scelta tecnica (su cui anche le future generazioni di analisti costruirono le più svariate motivazioni), solamente perché si rese conto di non riuscire a sostenere lo sguardo dei pazienti per 8 e più ore al giorno, 6 giorni su 7. Fuori il contatto visivo diretto del paziente, Freud poteva meglio concentrarsi e rilassarsi durante le libere associazioni dell'analizzando."