Guarire, di David Servan-Schreiber - Recensione



Guarire. Una nuova strada per curare lo stress, l'ansia e la depressione senza farmaci né psicanalisi di David Servan-Schreiber 

Eccovene qualche pagina. Buona lettura!

Capitolo 4
Il legame con gli altri

"Se non sono responsabile per me, chi lo sarà? Ma se lo sono per me stesso soltanto, che cosa sono? E se non me ne preoccupo abbastanza adesso, allora quando?" (Hillel, Le Traité des Pères)

La vita è una lotta. Ed è una lotta che non vale la pena di condurre solo per sé. Il nostro spirito ricerca sempre un senso oltre i confini della sua “fatica di essere sé”, per riprendere la bella espressione del sociologo Alain Ehrenberg. Per perseverare nello sforzo di vivere, gli serve una ragione che vada oltre la semplice sopravvivenza.

In “Terra degli uomini”, Saint-Exupéry (autore del “Piccolo Principe” NdR) racconta di quando il pilota Henry Guillaumet si perse con il suo areo sulla Cordigliera delle Ande. Per tre giorni Guillaumet marciò dritto davanti a sé in un freddo glaciale, a un certo punto cadde nella neve a faccia in giù.
Questa sosta imprevista gli permise di capire che se non si fosse rialzato subito non lo avrebbe fatto mai più. Però, stremato, sentiva di non averne più voglia: ormai lo allettava solo l'idea di quella morte dolce, indolore, gradevole. Nella sua testa aveva già detto addio alla moglie e ai figli e sentito per l'ultima volta tutto l'amore che provava per loro. Poi un pensiero lo colse all'improvviso: se non si fosse ritrovato il suo corpo, la moglie avrebbe dovuto aspettare quattro anni prima di incassare l'assicurazione sulla vita.

Subito dopo, aprendo gli occhi, Guillaumet vide una roccia emergere dalla neve cento metri più in là: se si fosse trascinato fino a quel punto, pensò, il suo cadavere sarebbe stato un po' più visibile, forse l'avrebbero scoperto prima. Per amore dei suoi cari, Guillaumet si tirò su. Ma adesso era quell'amore a spingerlo e lui non si fermò più, percorrendo ancora centottanta chilometri sulla neve prima di raggiungere finalmente un villaggio. Più tardi dichiarò: “Quello che ho fatto io, non l'avrebbe fatto nessun animale al mondo”. Quando la sua sopravvivenza non era più stata un motivo valido per continuare a lottare, a dargli la forza di resistere erano intervenuti l'amore e la sua coscienza degli altri. 

Oggi ci troviamo nel pieno di una tendenza mondiale all'individualismo “psicologico”, o “sviluppo personale” i cui grandi valori sono l'autonomia, l'indipendenza, la libertà, l'espressione di sé. Questi aspetti sono diventati talmente centrali che se ne servono addirittura i pubblicitari, che ci fanno acquistare la stessa cosa che compra il nostro vicino persuadendoci che averla ci rende unici. “Sii te stesso” gridano le pubblicità di abiti e profumi. “Esprimi il tuo io” suggerisce lo slogan di una marca di caffè. “Pensa diversamente”, ordina quello di un'azienda produttrice di computer. Negli Stati Uniti, per attirare nuove reclute, si è messo su questa strada perfino l'esercito, che pure non è esattamente il simbolo dei valori individuali: “Siate tutto quello che volete essere” promettono i poster pubblicitari, sullo sfondo di carri armati in manovra nel deserto.

Certo, questi ideali in irrefrenabile ascesa dopo le rivoluzioni americana e francese della fine del XVIII secolo hanno portato molti benefici e sono al centro della nozione di “Libertà” cui teniamo tanto. Ma più avanziamo in questa direzione, più constatiamo che anche l'indipendenza ha un suo prezzo: l'isolamento, la sofferenza, la perdita di significato. Mai come oggi siamo stati liberi di separarci da un coniuge che non sopportiamo più, e il tasso di divorzi nelle nostre società tocca il 50%. E mai come oggi abbiamo traslocato: negli Stati Uniti si stima che una famiglia cambi casa mediamente ogni cinque anni. Liberati dai legami, dai doveri, dagli obblighi verso gli altri, non siamo mai stati così liberi di trovare la nostra strada, dunque di rischiar di ritrovarci soli e smarriti. Questa è senza dubbio una delle ragioni per cui nel corso degli ultimi cinquant'anni l'incidenza della depressione in Occidente è andata costantemente aumentando. 
Ricordo un'anziana signora che andavo a visitare a domicilio perché aveva paura a muoversi, Soffriva di enfisema e doveva essere sempre collegata alla bombola di ossigeno. Ma il suo problema più serio era la depressione: a settantacinque anni non c'era più niente che la interessasse, si sentiva svuotata, ansiosa e aspettava la morte. Naturalmente dormiva male, non aveva appetito e passava le giornate a compiangersi. Eppure, non potevo fare a meno di restare impressionato dalla sua intelligenza e dalla sua evidente competenza in molti campi. Per molto tempo la signora era stata assistente di direzione e da lei emanavano un'aria di precisione e un'autorità naturale che persistevano nonostante le sue condizioni. Un giorno le dissi: “So che lei si sente molto male e che ha bisogno di aiuto, ma è anche una donna con tante qualità che potrebbero essere estremamente utili alle persone che ne sono prive. Che cosa fa per aiutare gli altri?” Lei fu molto stupita del fatto che il suo psichiatra le facesse una domanda del genere. Ciò nonostante, la vidi quasi rianimarsi e una luce di interesse le brillò negli occhi. Dopo il nostro colloquio, decise di impegnare qualche ora per insegnare a leggere ad alcuni bambini poveri. Non fu facile, perché spostarsi le causava notevoli difficoltà, e non tutti i piccoli che seguiva si dimostravano riconoscenti, per non parlare di quelli caratterialmente difficili. Ma quell'impegno diventò una parte importante della sua vita. Le diede un obiettivo, la sensazione di essere utile, e l'ancorò nuovamente alla comunità da cui l'età e l'invalidità l'avevano staccata.

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