Sono le sette di sera e all'abbassarsi dell'ultima serranda il borgo,
praticamente, chiude. La gente si rintana nei propri mono o bi-locali, a
seconda della posizione sociale occupata. Si mangia in fretta cibo di
plastica avvolto in contenitori sempre più colorati e ingombranti. Si
gettano le scarpe sotto al letto, o fuori dal balcone, il divano aspetta le
sue prede che inermi si abbandonano alle prediche dell'imbonitore catodico.
La comunità chiude, tra recinti di diffidenza, egoismi incrociati,
antipolitica e disillusione. Ognuno pensa per sé e la società, tutta, muore
inesorabilmente prosciugata.
La crescita infinita porta a questo, in fondo. Perché in gioco non c'è
"soltanto" la distruzione del territorio e la sottrazione dei beni comuni,
l'inquinamento e la perdita della biodiversità. In crisi entra un modello di
comunità, di gente, persone, che non si parlano più. Che hanno smesso da
tempo di condividere, occupare i luoghi e gli spazi pubblici.
I paesi muoiono per questo. Perché si spopolano, si snaturano, perdono quel
legame invisibile ma solidissimo che per decenni ha garantito il sentirsi
parte di qualcosa, un pezzo del tutto. Fino a non molti anni fa questo
disagio sociale, collettivo, era diffuso nelle grandi città, soprattutto al
Nord. Oggi, paradossalmente, la mancanza di comunità si consuma nei medi e
piccoli centri, dove i luoghi comuni (il comune sentire, gli stereotipi
culturali, ndr.) vedono invece paradisi in terra in cui tutti si conoscono e
sostengono reciprocamente. Non è così, non più. Alle piazze piene di gente
abbiamo sostituito telecamere e recinti, ai momenti conviviali regolamenti e
ordinanze per garantire silenzio e disciplina. Ci lamentiamo del degrado
urbano, senza accorgerci che lo stiamo alimentando con il nostro stile di
vita e le nostre scelte che nel tempo si sono trasformare in non scelte.
L'inerzia e l'ignavia sono le dame alla corte di questo sfacelo sociale.
Ecco perché suonano come rivoluzionarie le parole di un sindaco di un
piccolo borgo di 2.300 abitanti tra Lecce e Otranto, nella Grecia salentina,
Melpignano. Perché fermano il tempo, anzi, lo fanno girare al
contrario. "Una comunità che esprime gioia è una comunità che ha il senso
del futuro". I suoi interventi in giro per l'Italia a raccontare il
progetto, il sindaco Ivan Stomeo li conclude quasi sempre così. E in fondo
la storia di questo borgo si riassume perfettamente in quello che non è solo
uno slogan, ma un'allucinazione emotiva e uno scatto di ribellione pacifica
nei confronti di un modello di società che esclude, toglie il fiato,
impantana in un presente senza fine.
Melpignano è nota in Italia per il Festival popolare della "Notte della
Taranta", partorito nel 1998 dalla mente geniale dell'allora sindaco Sergio
Blasi. Qui, ogni anno, da sedici anni, 300.000 mila persone arrivano da
tutte le parti d'Italia per ballare e sudare la pizzica. Qui la raccolta
differenziata viaggia a percentuali pazzesche, con uno strepitoso 72 per
cento. Qui gli amministratori hanno rifatto tutta la pubblica illuminazione
con sistemi a basso consumo energetico. Qui si sperimenta per la prima volta
in Italia il voto elettronico, prove concrete di democrazia diretta.
"Le parole intorno alle quali ruota tutta l'azione dell'amministrazione sono
tre: cultura, ambiente e solidarietà. Solo per fare un esempio,
semplicemente rinunciando alle luminarie natalizie per qualche anno siamo
riusciti a metter da parte risorse per la costruzione di un pozzo, di una
scuola e di una chiesetta in un paese nella Repubblica democratica del
Congo". Muovere l'economia non sarà un'impresa, non per questa gente che
pensa in grande: creare posti di lavoro, distribuire ricchezza, tagliare la
bolletta energetica della comunità, inventandosi uno strumento mai
realizzato prima. La cooperativa di comunità.
L'idea è quella di contrastare il degrado e l'abbandono partecipando e
facendo partecipare i cittadini attivamente allo sviluppo della propria
comunità. Il progetto nasce dall'incontro casuale tra Ivan e Giuliano
Poletti (già presidente di Legacoop e attuale ministro) a Cefalù, in
occasione di un convegno sul turismo responsabile tenuto nel luglio 2010, in
cui Stomeo rappresentava Borghi autentici d'Italia (associazione di comuni
che hanno a cuore il proprio territorio e praticano politiche di
partecipazione e salvaguardia dell'ambiente). Da quell'incontro scocca una
scintilla, che si propaga in fretta tra folate di idee contagiose.
A guardare il progetto, in fondo, vien da dire che è semplicissimo. Il
Comune affida ad una piccola cooperativa locale e al Dipartimento di
ingegneria dell'innovazione dell'Università il compito di effettuare uno
studio di fattibilità dell'idea iniziale: installare impianti fotovoltaici
da 3 Kw sulle case dei residenti disposti ad affittare il proprio tetto in
cambio di energia gratis. Partono successivamente gli incontri pubblici e le
assemblee per coinvolgere attivamente i cittadini. Il gioco è fatto. Il 18
luglio 2011, esattamente un anno dopo l'incontro tra il sindaco e il
presidente di Legacoop, in piazza San Giorgio, 71 soci fondatori
sottoscrivono l'atto costitutivo e lo statuto della prima Cooperativa di
Comunità italiana.
Oggi la Cooperativa conta 127 soci e a fronte di un investimento di circa
400.000 euro ha realizzato i primi 33 impianti, per un totale di 179,67 kW
installati, che producono energia pulita. Si è creata un'economia virtuosa
con l'utilizzato di risorse umane e professionali della piccola comunità del
sud: 5 ingegneri per i progetti e la direzione dei lavori, 2 fabbri per la
realizzazione dei telai, 7 elettricisti per il montaggio degli impianti.
Il cittadino avrà l'energia gratis per 20 anni e inoltre il riconoscimento
del surplus da parte di GSE. L'incentivo, sempre da parte del GSE, che serve
in parte a coprire l'esposizione del prestito concesso da Banca Etica,
attraverso una cessione del credito, va all'intestatario del contatore, il
socio che ospita l'impianto alla Cooperativa di Comunità.
E poi arriva il bello di questa storia, come se anche tutto il resto non
fosse già abbastanza. L'utile della cooperativa viene speso per quel che
serve in paese: sistemare una piazza, le strade e i marciapiedi, gli arredi
di un parco, o creando nuove opportunità di lavoro (gestione di mense
scolastiche, manutenzione del verde...). A decidere non è più la giunta o il
consiglio comunale, ma i cittadini che diventano così attori protagonisti
della loro stessa comunità. Gli utili delle rinnovabili si trasformano così
da bottino privato come spesso è accaduto in questi anni in giro per
l'Italia in risorsa pubblica, ritornando alla comunità sotto varie forme.
"Riunirsi insieme significa iniziare; rimanere insieme significa progredire;
lavorare insieme significa avere successo" (Henry Ford).
Marco Boschini *
* assessore all'Ambiente, Patrimonio ed Urbanistica del Comune di Colorno
(Parma), è coordinatore dell'Associazione dei Comuni Virtuosi e autore di
diverse pubblicazioni - l'ultimo libro, scritto con Ezio Orzes, è "I rifiuti
non esistono. Due o tre cose da sapere sulla loro gestione", Emi - e di
alcuni blog (tra cui marcoboschini.it).
Articolo segnalato da Cav. Dott. Claudio S. Martinotti Doria - claudio@gc-colibri.com
Commento inviato per email da Claudio Martinotti Doria:
RispondiEliminaPer un cultore di storia locale come il sottoscritto non c'è da stupirsi
delle iniziative sotto esposte, sono sempre esistite nel corso della storia
umana ma con modi e forme diverse secondo i contesti e le epoche, ma tutte
avevano una comune matrice o humus su cui fondarsi, l'autonomia locale e la
convivialità, cioè poter disporre di libertà, soprattutto di pensiero, cui
ormai ci si è disabituati, perché senza questo presupposto le idee e le
potenzialità non emergono, e poi la convivialità, l'abitudine a condividere
spazi e tempi e soprattutto il cibo, in modo che si favorisse la
comunicazione, il dialogo, il comune sentire. Le soluzioni ai problemi e
l'evoluzione culturale ed economica avviene come spontanea conseguenza di questi presupposti politici e sociali, in assenza dei quali si inaridisce.