I popoli arcaici, che si ispiravano al Mito dell’Origine eternamente attuale, interpretavano la vita e la morte quali aspetti inseparabili di un movimento che si ripete ininterrotto, pur senza mai ritornare all’identico. Tale concezione ciclica dell’esistenza si inabissò con l’emergere di una visione lineare, evolutiva, della vita: dal meno al più. Tuttavia essa non è del tutto sparita, giacché continua a vivere nella coscienza degli uomini che, non lasciandosi ingannare dai miraggi di una sedicente civiltà in preda all’illusione di un progresso od evoluzione illimitati, non si allontanano dai valori immutabili della Terra e del Cielo. Tra il 200 e il 1200 d.C. Tiruvalluvar, poeta del Tamil Nadu, scrisse: “Per quanto faccia, il mondo finisce sempre col tornare all’aratro perché l’agricoltura, benché faticosa, è la cosa essenziale” (“Tirukkural”, 1031).
Presso la Tradizione del Sanatana-dharma, la Via degli Avi, uno tra i due percorsi post mortem, vien detta Pitriyana; essa può essere riassunta nel modo che segue: il jiva (l’anima individuata) che sulla Terra abbia ottemperato al proprio dharma personale sale alla sfera della Luna, da dove, dopo aver beneficiato dei meriti accumulati, ritorna a questo mondo come pianta, animale o uomo. Si tratta di una Via che non disperde il jiva nella nescienza, ma nemmeno lo conduce alla Liberazione, poiché lo trattiene nell’ambito di nuovi stati di manifestazione individuati.
Il mondo della Luna (Candraloka) segna la distinzione tra gli stati superiori dell’Essere (non individuati) e quelli inferiori (individuati). La sfera della Luna ineriva quelli che presso il mondo ellenico venivano considerati i Piccoli Misteri. I Grandi Misteri riguardavano la Via del Sole (Devayana). Di ciò ci parla Apuleio nella sua celebre opera “L’asino d’oro”, in cui compare tra l’altro un bellissimo Inno alla Dea.
Il mondo storico, succeduto a quello mitico, ha però frainteso e deformato tale sapienza tradizionale, interpretandola nel senso che la terra-natura-donna va rigettata e capillarmente sfruttata se ci si vuole aprire alle esigenze di una perfettibilità illimitata: dall’ameba, all’anfibio, alla scimmia, all’uomo, al titano... al niente.
Nulla di più falso: soltanto se la Natura viene abbracciata, amata e compresa in quanto realtà inseparabile da noi stessi, essa ci permetterà di accedere agli stati sovraformali dell’Essere o, addirittura, al Risveglio nell’Ineffabile, da cui non c’è ricaduta cieca nella ruota del samsara.
Se ne evince un’enorme disponibilità a confrontarsi con la complessità delle interpretazioni dottrinali e con l’indefinita varietà delle forme. E dire che noi occidentali siamo andati in giro per il mondo per centinaia d’anni – e ancora lo stiamo facendo – ad esportare una civiltà che, nella pretesa di essere unica o, quanto meno, a tutte superiore, ha puntualmente lasciato dietro di sé una scia di distruzione, desolazione e morte.
Se è vero l’insegnamento secondo cui bisogna valutare dai frutti, che cosa ne dobbiamo dedurre? Probabilmente che dobbiamo tornare ad imparare i principi elementari della saggezza: l’Essere che anima questo individuo o che ispira questa lingua è lo stesso che anima la foglia, l’insetto, la stella e che suscita tutte le altre lingue. A livello formale vige la diversità ed una relativa gerarchia, dal punto di vista dell’Essenza, invece, Tutto è Uno.
Subramanyam
Immagine del post: "Dance of Nature" tratta da www.paintstudio.co.in
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