L’”esserci”,
per Heidegger l’essere umano nel mondo, ha un’origine precisa: è
lo stato di apertura al mondo. Questo non è sempre identico a se
stesso. Varia nel tempo. Sostanzialmente secondo due ontologie che
creano altrettante realtà o mondi: quella della paura e quella della
“volontà” (tanto per non dimenticare Nietzsche).
Si
tratta di due nuci, precondizioni, di noi stessi e del mondo che ne
consegue appunto, due precoscienze e prepensieri. Dunque due
prepolitiche, educazioni, evoluzioni, condizioni, creazioni.
Lo
spirito della paura conduce a difendere, a nascondere, ad assicurare.
Quello della volontà a scoprire, cercare, rischiare. Uno tende a
trattenere, l’altro a dare. Uno vede se stesso al centro del mondo,
l’altro avanza nel mondo.
Se,
per intimorire lo spirito umano, il cristianesimo ha fatto la prima
parte del lavoro, la seconda forse è appannaggio dell’epoca
industriale e del suo primo scopo: l’accumulo di ricchezza. La
terza, esiziale, corrisponde alla concezione razionalista,
positivista e materialista del progresso.
Un
dio immanente che ci vede sempre, lascia poco spazio di evoluzione
verso il proprio sé. Il timorato, in tutte le sue modulazioni, si
sente giudicato. Il suo comportamento è vincolato alla morale. È
una condizione dalla quale non possiamo trascendere le consuetudini
ed emanciparci dalla storia. Dalla quale, l’assunzione di
responsabilità nei confronti del mondo osservato non può
realizzarsi: il fato, la casualità, un volere superiore a noi lo
impediscono. Ugualmente non potremo riconoscere in noi l’origine
del mondo che crediamo di osservare. Né fare esperienza di come
sentimenti ed emozioni ci dominano; di come, come marionette,
consumiamo la vita inconsapevoli dei fili che ci tirano.
Con
l’accumulo borghese, con la diffusione della proprietà privata,
con un’etica valoriale razziale e sociale, che divideva i popoli e
la società in eletti e inferiori, contemporaneamente alla ricchezza
crescente sorse il problema di difenderla. Un’esigenza con la sua
scimmia sulla schiena: la paura di perderla. Una condizione di per sé
biologicamente tossica e assuefante. Quindi una dipendenza, il cui
carattere è nuovamente quello di vincolare, di stringere l’orizzonte
del mondo, della creatività. Essa produce anche lo specialismo, il
punto più elevato di distanza dalla natura, dal Tutto, da noi
stessi.
Diretto
derivato del cristiano dominio dell’uomo sulla natura e
dell’industria sull’artigianato, il terzo momento che ha
ulteriormente attestato il timore in noi è la cultura dello
specialismo necessario ad una concezione analitica della realtà. Gli
esasperati ed esasperanti singoli, separati saperi, insieme alla
realtà parcellizzano l’uomo. Il dominio culturale del meccanicismo
consacra la triste, ma solo presunta vittoria dell’uomo sul resto
della realtà.
È un
processo che ci ha indotti a mettere il mistero sul vetrino del
microscopio. Ci ha fatto credere che la tecnologia ci avrebbe
permesso si svelarlo. Ci ha impedito di sentire di farne parte.
L’incaponimento non ha avuto altro esito che ridurlo a materia
misurabile e quantificabile. Ci ha convinti che esso si sarebbe
rivelato una volta trovata la più piccola parte di materia. Ci ha
impedito di scorgere in essa e in tutte le sue dimensioni più grandi
l’energia che tutto fa. Ora ne siamo estranei. Siamo rimasti con un
pugno di mosche in mano e l’animo pieno di timore. Siamo in perenne
fibrillazione sulla satanica lingua protesa al disumano infinito
materiale del falso progresso. In esso crediamo di vedere la
felicità. Un ente la cui sopravvivenza genera scorie d’ordine
vario, delle quali, con rinnovata paura, stiamo prendendo coscienza
ci stiano seppellendo.
A
questo punto la normalità dell’uomo è segnata da un’apertura
impaurita all’”esserci”. La cultura della société
sécurité, la società della sicurezza impera su di noi e chi la
vende ce la fa credere una conquista. Essa condiziona il nostro
pensiero e il nostro fare. Le potenzialità che abbiamo, di bellezza,
gioia, forza amore, sono state sedate, represse, criticate.
Sostanzialmente uccise.
Senza
garanzie crediamo di perdere vita. Preferiamo rinunciare e la
perdiamo davvero.
Eppure,
nonostante tanta mortificazione, negli uomini c’è altro. Le
Tradizioni lo sanno da sempre: possiamo vivere emancipati dai
condizionamenti. Possiamo riconoscere il teatro e chi l’ha
organizzato. Possiamo osservare che nasciamo liberi dalla paura e
anche che questa lentamente prende il posto della volontà
nietzschianamente intesa.
Il
filosofo baffuto chiamava piccolo uomo e oltreuomo le
due specie di esserci. Del primo scriveva: “si avvicina il
tempo in cui l’uomo non genererà più stelle”. Il piccolo uomo è
il ”più disprezzabile, quello che non sa più disprezzarsi”. Con
lui la Terra “è diventata piccola e su di lei saltella l’ultimo
uomo che rende tutto più piccolo. La sua razza è inestinguibile
come quella della pulce di terra; l’ultimo uomo vive più a lungo
di tutti”.
Per
quanto Nietzsche sia prevalentemente apprezzato, per quanto gli
studiosi convergano sul suo valore e sulla sua potenza a causa
dell’urlo che ha lanciato agli uomini d’Occidente, il pensatore
tedesco non è entrato nelle case di nessuno. Neppure quelle
accademiche che si sono presumibilmente accontentate e si sono
ritenute soddisfatte di una comprensione intellettuale e storica.
Ma
esprimere la nuce, che lui ed altri nella storia hanno incarnato –
da Zaratustra a Cristo e al Buddha, per limitarsi a qualcuno – è
altro.
L’uomo
che si muove senza timore, senza sicurezze realizza e celebra la
vita. È un artista e un guerriero (Castaneda). È l’uomo del nuovo
paradigma. Esso compie scelte in funzione di ciò che sente, non ha
mai necessità di elencare pro e contro. Attraverso il sentire si
muove sempre opportunamente alla misura della sua natura. Sa che la
modalità cosiddetta razionale glielo precluderebbe. Sa che la
pretesa di sicurezza, l’orgoglio, l’importanza personale sono
prospettive di morte spirituale.
Sa che da dove si posa l’attenzione, da quel punto scaturisce la
realtà. Sa che noi l’abbiamo inconsapevolmente posata sulla paura.
E sa che il mondo che ne scaturirà la rifletterà. Ma sa anche che
possiamo prendere coscienza della mota che lentamente ci ha
ricoperti, nascondendo a noi stessi la via della bellezza. Le
vibrisse che siamo, capaci di percepire e vibrare fino alle risonanze
ancestrali, capaci di dirci con precisione energetica cosa si addice
e cosa non si addice ala nostra natura, sono imbrattate di cultura,
di idee e pensieri egoici. Abbiamo perduto la forza e con essa quello
che ora chiamiamo coraggio, ma che allora, era la condizione
di ognuno. Ma sa che possiamo tornare in noi stessi, che possiamo
vivere pienamente, secondo la nostra volontà.
Lorenzo Merlo – 040920
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