Conversazione sui piedi, fra Antonella Pedicelli e Paolo D'Arpini


“Spesso guardando i miei piedi mi nasce spontaneo un sentimento di venerazione.. non mi prendere in giro….è una sensazione che non riesco a spiegarti, è come se i miei piedi fossero “sacri”! Pensa che spesso, quando sto un po’ giù, il guardarmi i piedi  mi aiuta a star meglio!”
“Quel che tu dici a proposito dei piedi, cara Antonella, conferma quanto sempre affermato in India che i piedi sono il più sacro punto del corpo. L’adorazione dei piedi del Guru e dei santi è una delle forme di pulizia mentale e di trasmissione del potere (shakti). All’inizio del mio viaggio, da buon occidentale scettico e razionale, quando sentii parlare dell’adorazione dei piedi e della shakti che da essi fluisce presi la cosa con le pinze ed avevo molti dubbi, fortunatamente siccome sono della Scimmia volli mettere alla prova questi detti ed un giorno mi capitò, mentre stavo andando a meditare, di passare davanti al mio Guru Muktananda seduto su una sedia proprio nella sala di meditazione che osservava i meditanti. Con in mente il mio dubbio mi avvicinai a lui e mi inchinai poi appoggiai la testa sui suoi piedi nudi… non so cosa avvenne sentivo come una corrente che passava e trasformava la mia mente, ero talmente appoggiato che stavo proprio di peso sui piedi, Muktananda diede un colpetto con l’alluce ed allora alzai la testa solo per accorgermi di essere completamente ubriaco di energia, talmente ubriaco da non avere nemmeno la forza di stare in piedi, dovetti subito sedermi ed entrai in meditazione profonda.  Anche nella tradizione cinese i piedi e le mani sono considerati estremamente importanti per l’energia tant’è che lo Shiatzu si fa proprio lì. Insomma i tuoi piedi trasmettono energia spirituale ed è logico che tu la percepisca”.
“Ho trovato varie informazioni piuttosto interessanti in merito all’argomento “piedi”…  “Budda costruì il mondo con 7 passi dei suoi robusti e potenti piedi” ; “i piedini deformi delle donne cinesi sono chiaro simbolo della loro sottomissione e della loro mancanza di potere”; “alcuni sovrani della regione dei Grandi laghi, in Africa, non toccano il terreno: vengono portati sulle spalle oppure camminano su stuoie. Si dice che la loro potenza di re, attraverso i piedi, inaridirebbe la terra.
  Per ragioni simili le danzatrici indiane ricoprono la pianta dei piedi con una tintura rossa: una protezione contro i demoni che i passi di danza potrebbero evocare. In altri casi il piede è decorato per indicare uno “status”: per le donne dell’arcipelago di Tahiti, un bracciale tatuato sulla caviglia indica l’appartenenza a una famiglia nobile. E le ragazze dello Yemen, prima di sposarsi, si decorano i piedi con l’henné.” ..e tanto altro…ci si potrebbe scrivere una vera “enciclopedia” sui piedi, in un certo senso questo ridarebbe loro una certa importanza! A cominciare dall’attenzione verso il nostro modo di camminare, di poggiare i piedi sulla terra, di stabilire un “contatto”..per poi passare al modo attraverso il quale noi “percepiamo” i piedi, fuori e dentro le nostre calzature…”"In molti quadri del Caravaggio ci sono personaggi a piedi nudi. Ad esempio, nella tela con la Madonna di Loreto o dei pellegrini (d), in Sant’Agostino a Roma (1604) o nella Madonna del Rosario (e), dipinta a Napoli nel 1606, vediamo pellegrini e fedeli, inginocchiati davanti alla Vergine, con i piedi sporchi e sgraziati in primo piano. E sempre in primo piano, ancora all’altezza degli occhi dello spettatore, sono i piedi nudi di Nicodemo, che sorregge il corpo abbandonato di Cristo nella monumentale Deposizione di Cristo nel sepolcro (1602-1603) (f), ora in Vaticano. Forse per Caravaggio i piedi nudi sono un simbolo di obbedienza e fedeltà – come scriveva Federico Borromeo (De Pictura Sacra, 1624) – e quindi di una fede sincera, come quella dei poveri e degli umili.
Ma sicuramente i piedi più scandalosi dipinti da Caravaggio sono quelli, nudi e gonfi, della Madonna nella tela con la Morte della Vergine (1606), ora al Louvre. Un quadro così sconvolgente che venne rifiutato dal committente.  La morte di Maria, madre di Cristo, viene rappresentata come la fine di un semplice essere umano, in una stanzetta spoglia e povera: Maria appare “scomposta”, come se fosse appena morta, con il  braccio sinistro abbandonato di lato, quello destro piegato sul ventre, gonfio, le gambe leggermente aperte e la veste sollevata sulle caviglie e i piedi nudi. “Poiché avea fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con le gambe scoperte, fu levata via e la comperò il duca di Mantova e la mise in Mantova  nella sua nobilissima galleria” scrive Giovanni Baglione (1642). Ma c’è qualcosa di ancora più grave. A Roma si diceva che per dipingere la Madonna Caravaggio si  era ispirato a una giovane donna morta affogata o, peggio, che nella Vergine il pittore aveva rappresentato  “qualche meretrice sozza degli ortacci [...] qualche sua bagascia [...] una cortigiana  da lui amata” (G. Mancini, 1621). Nel 1994 due studiosi, Riccardo Bassani e Fiora Bellini, hanno identificato la prostituta con Anna Bianchina, “cortigiana”. Figlia di prostituta e prostituta dall’età di dodici anni, con capelli lunghi e rossi, Anna aveva fatto da modella per altri quadri di Caravaggio. Era morta a 24 anni, per una malattia della gravidanza, e forse il pittore ha pensato al suo corpo sformato quando ha dipinto la Vergine, innaturalmente giovane e molto bella anche nella morte.  E sì, in questo quadro i piedi nudi sono l’ultimo problema! Buonanotte, mio caro Paolo, a domani!”
Antonella Pedicelli e Paolo D'Arpini

In Memoria di Raphäel Matta, l'uomo che difese gli animali con il proprio sangue



Raphäel Matta, un francese di origine italiana che lavora nell’export – import, legge su “Paris Match” che il governo della Costa d’Avorio sta cercando un capo sorvegliante per una riserva africana ai confini dell’Alto Volta e il Ghana: lascia tutto e parte con la moglie, una ex indossatrice di Dior abituata agli agi e al lusso, e con i due figlioletti. Abbandona tutto per salvare ippopotami, elefanti, leoni, dimostrando grande coraggio. 
Matta segue il detto di Roger Heim: “la scomparsa di una giraffa è altrettanto grave dell’uccisione di un uomo o lo sfregio a un quadro di Raffello”
Il francese ha un volto ascetico che ricorda, a Dominique Lapierre, un emaciato santo di Zurbaran, ma se osservate una sua foto noterete che assomiglia stranamente a George Orwell.

Matta comincia il suo lavoro e, in quei luoghi magici, vede gli animali che ama, vede branchi di elefanti e bufali che scorrazzano liberi nella savana; ma la savana è luogo di massacri, nella savana si svolge un’ecatombe continua. I bracconieri uccidono con spietata regolarità mentre il governo fa finta di non sapere. Il territorio sotto il controllo di Matta è una riserva integrale. La legge è chiara: ogni attività venatoria è proibita, ma una legge del genere ha il valore di un’ipotetica norma emanata da un governo italiano riguardo l’abolizione della mafia in Sicilia. In soldoni: lascia il tempo che vuole.
Il decreto è chiaro e impedisce accampamenti, ma in effetti la savana è traboccante di indigeni Lobi che massacrano con tremenda regolarità e vendono carne alle regioni limitrofe.
Lo Stato africano ha concesso ottomila licenze per sparare e inoltre girano almeno altri diecimila fucili per uccidere di frodo. Matta scopre che i bracconieri vivono accampati in quei luoghi proibiti e che sterminano senza pietà gli animali. I massacratori sono bianchi e neri, gli europei ottengono facilmente autorizzazioni dal governo per uccidere. Si caccia spietatamente e la legge la seguono i folli. Dominique Lapierre parla di “follia devastatrice degli uomini”.
Lo scopo di Matta è ardito: cambiare un modo di vivere ancestrale è quasi impossibile.
In quei luoghi si è massacrato fin dalla preistoria. Imporre una legge giusta nella savana è come legiferare contro il traffico di droga a Ciudad Juarez . E’ come quando Napolitano invita i nostri politici ad essere onesti o il Papa a non fare guerre. Nessuno ascolta.
Matta vede lo scempio, interviene e impone misure draconiane: vieta di cacciare, disboscare, coltivare e accendere fuochi. Per difendere gli animali mette insieme una piccola forza e trova un gigantesco aiutante africano, Remi Sogli, un baulè ex caporale dell’esercito francese, che gli sarà di grande aiuto.
E comincia la lotta in difesa degli abitanti della savana, mentre il suo fisico minato da malaria e dissenteria anebica vacilla. Ma ha grande capacità di sopportazione. E’ stoico in quello che ha intrapreso, gli indigeni lo chiamano Kongo Massa, il Re della Savana.
Matta espelle i bracconieri africani dai luoghi protetti dalla legge, e loro lo paragonano ai vecchi signori coloniali. Se difendi gli animali della savana sei come il mostruoso re del Belgio, Leopoldo II, è la logica della specie: funziona in tutto il mondo.
I bracconieri locali sono imbestialiti. Il governo che ha chiuso sempre un occhio (e spesso due) davanti agli eccidi è preoccupato. I politici urlano: “Matta ci fa perdere i voti, che errore dare il lavoro a questo fottuto francese. Che se ne torni a casa!”
Le autorità lo mettono in guardia: uccidere bracconieri può portare al dissolvimento della riserva, il problema è che per Matta la vita di un elefante è più preziosa della vita di un bracconiere.
Matta inizia un accurato censimento di bovidi, ippopotami, elefanti, leoni e degli altri abitanti della savana.
Quest’uomo definito L’angelo della Savana inizia una lotta all’ultimo sangue contro i massacratori.
Nasconde nei boschi due autocarri pieni di munizioni, e che con un gruppo di volontari difende gli rinoceronti, elefanti, leoni con ogni mezzo. Arresta, brucia accampamenti, mette in fuga bracconieri, requisisce avorio, carne, tutto. Ed è per questo detestato da bianchi e da neri.
Delle volte quando vede un animale ucciso piange e dice: stanno assassinando i più vecchi compagni dei nostri sogni.
Matta è un animalista unico, non indulge nel buonismo pacifista, difende gli animali con tutti i mezzi ed è pronto a sparare. La non violenza applicata a una sola specie è per lui un imbroglio miserabile.
Undici accampamenti vengono distrutti e ventuno Lobi – bracconieri indigeni – vengono fatti prigionieri.
Alle autorità cominciano a saltare i nervi. Matta sa che ormai non possono più espellerlo dal Bouna, si sente forte, non abbandona la lotta. Tutti lo condannano.
Il governo comincia a tremare e lo manda a sedare una rissa tra Lobi e Diula, tra cacciatori e commercianti, in un villaggio sperduto: lo precipitano in una situazione dove sperano che venga ucciso
Matta arriva con Sogli e i suoi uomini e cerca di calmare gli animi, cerca di tranquillizzare i guerrieri che stanno litigando furiosamente con i mercanti e convince i Lobi a deporre le armi.
I Lobi le depongono, ma i Diula, stupidamente, si impossessano degli archi. L’arco è in oggetto sacro per gli indigeni. Vengono sepolti con l’arma. Rubarlo è l’estremo affronto. E’ un sacrilegio: i guerrieri si scatenano contro i mercanti e considerano Matta parte del complotto per disarmarli. Lo considerano un traditore. Al grido: “Kongo Massa dà le nostre armi ai Diula” si scagliano contro il francese considerato ormai un Giuda. Sogli trascina via Matta. Fuggono e si perdono. I Lobi lo inseguono e lo colpiscono con sei frecce avvelenate. Mentre il veleno produce i suoi effetti lo finiscono con i randelli e con un’ascia.
Dopo tre giorni il francese è sepolto presso la riva della fiume Komoè.

Le parole del suo epitaffio sono: “Bell’elefante selvaggio, accetta dal più fedele dei tuoi amici i voti più ardenti di quiete e di prosperità per te, per i tuoi discendenti, per tutti quelli della tua magnifica razza. Che importa se un giorno il mio sangue bagnerà per tua gloria la prestigiosa terra africana. Tu ne vali la pena”
Due dei dodici Lobi accusati per l’omicidio vengono condannati a morte. Muoiono sorridendo sono diventati gli eroi della loro tribù.
Con la scomparsa di Matta e dei suoi uomini comincia l’ecatombe degli elefanti Tra il 1979 e il 1989 ne muoiono centomila. Il Giappone e i paesi “civili” fanno razzia dell’avorio.

Nel 1977 la convenzione di Washington rende gli elefanti specie protetta. Ma il massacro continua.

Fonte: Bailador.org
Fonte secondaria: Veganzetta

Nota: Raphaël Matta était le surveillant de la Réserve de Bouna.
Recruté en 1954 il fut rapidement confronté aux Lobis, peuple de chasseurs volontiers braconniers, et aux Dioulas, leurs fidèles acheteurs.
Bientôt il constate la disparition d'une trentaine d'éléphants vraisemblablement tués sur une période de deux ans. D'un caractère entier, il se lance à la recherche et à la poursuite des fautifs sans trop se soucier de diplomatie.
La tête fracassée à coups de hache et son corps lardé de flèches, Raphaël Matta est retrouvé mort le 16 janvier 1959.
Très étrangement sa vie et sa mort sont assez proches de celles de Morel, héros du livre de Romain Gary "Les Racines du Ciel" dont fut tiré un film en 1958 et pourtant ni l'un ni l'autre ne se connaissait ...
On disait de Raphaël Matta qu'il parlait à l'oreille des éléphants et qu'il en était le député.

Osvaldo Ercoli - La discreta presenza di un saggio in quel di Viterbo

All'amico e maestro Osvaldo Ercoli rivolgiamo oggi, in occasione del suo genetliaco, i più fervidi auguri di buon compleanno.


Una breve notizia su Osvaldo Ercoli

Osvaldo Ercoli, nato a Vallerano (Vt) il 30 gennaio 1930, già professore amatissimo da generazioni di allievi, già consigliere comunale e provinciale, impegnato nel volontariato, nella difesa dell'ambiente, per la pace e i diritti di tutti, è per unanime consenso nel viterbese una delle più prestigiose autorità morali. 

Il suo rigore etico e la sua limpida generosità a Viterbo sono proverbiali. 

E' tra gli animatori del comitato che si è opposto vittoriosamente al mega-aeroporto di Viterbo e s'impegna per la riduzione del trasporto aereo, in difesa della salute, dell'ambiente, della democrazia, dei diritti di tutti. Nel 2007 ha promosso un appello per salvare l'area archeologica, naturalistica e termale del Bulicame dalla devastazione. 

E' stato scritto di lui: "Il professor Osvaldo Ercoli è stato per decenni docente di matematica e fisica a Viterbo, città in cui è da sempre un simbolo di rigore morale e civile, di impegno educativo, di sollecitudine per il pubblico bene, di sconfinata generosità. Già pubblico amministratore comunale e provinciale di adamantina virtù, sono innumerevoli le iniziative in difesa dei diritti umani e dell'ambiente di cui è stato protagonista; tuttora impegnato nel volontariato a sostegno di chi ha più bisogno di aiuto, è altresì impegnato in prima persona ovunque vi sia necessita' di smascherare e contrastare menzogne, ingiustizie, violenze... 

Avendo avuto il privilegio immenso di averlo come amico, come maestro di impegno civile, come compagno di tante lotte nonviolente, vorremmo cogliere questa occasione per esprimergli ancora una volta il nostro affetto, la nostra ammirazione, la nostra gratitudine; affetto, ammirazione e gratitudine che sappiamo essere condivise da tutte le persone di Viterbo e dell'Alto Lazio, da tutte le persone che hanno avuto l'onore di conoscerlo e che hanno a cuore la dignità umana di tutti e di ognuno, la civiltà come legame comune e comune impegno dell'intero genere umano, la biosfera casa comune dell'umanità intera".

Peppe Sini


Nota aggiunta:
"Concordo e confermo quanto qui affermato e personalmente auguro all'amico Osvaldo buon compleanno, ricordando sempre il suo disinteressato aiuto alla mia persona ed alla causa comune.." (Paolo D'Arpini)

Strategie del sionismo prima e dopo le due guerre mondiali



PREFAZIONE AL LIBRO IL PRIMO OLOCAUSTO DI DON HEDDESHEIMER[1]


Di Germar Rudolf (2005)


Come tutti sappiamo, circa sei milioni di ebrei vennero uccisi dalla Germania nazionalsocialista durante la seconda guerra mondiale, o così ci è stato detto. Questo genocidio è oggi generalmente conosciuto come l’Olocausto o la Shoah. Ma come sappiamo che sei milioni di ebrei persero la vita? E da quanto tempo lo sappiamo?

Mentre sembra che si possa rispondere alla prima domanda mediante delle ricerche demografiche sulle perdite ebraiche durante la seconda guerra mondiale, la seconda domanda deve essere rivolta agli storici.

Riguardo alla prima domanda, mentre diversi studiosi hanno cercato di svolgere indagini demografiche sulle perdite della popolazione ebraica durante la seconda guerra mondiale – talvolta con risultati alquanto contrastanti – fu solo nel 1991 che una importante monografia, pubblicata in Germania da una nota casa editrice e firmata da un rinomato gruppo di autori, venne dedicata a questo importante problema. Senza alcuna sorpresa, il risultato di questo massiccio studio demografico confermò quello che tutti sapevano in ogni caso:

Il totale indica un minimo di 5.29 e un massimo di poco più di 6 milioni [di vittime ebree dell’Olocausto].”[2]

E anche se la cifra dei sei milioni è stata definita una cifra altamente “simbolica”,[3] ha ormai raggiunto una dimensione quasi sacrale. E’ chiaro che la massiccia persecuzione, sociale e legale, subita da chiunque in Germania osi dubitare, negare, o confutare la cifra dei sei milioni,[4] ha condizionato come un’invisibile linea guida lo studio suddetto, nonostante l’editore Wolfgang Benz, si sia premurato di far notare che

“lo scopo di questo progetto ovviamente non era di provare alcuna cifra prefissata (“sei milioni”).[5]

Ma considerando che il Sacro Olocausto è senza dubbio il più grande tabù dei nostri tempi, è questa davvero una questione così ovvia?

In un’analisi comparativa dello studio di Benz e di un’importante studio revisionista delle perdite di popolazione ebraica durante la seconda guerra mondiale,[6] avevo fatto notare che il lavoro di Benz ha così tanti difetti logici, metodici e sistematici che il risultato [delle sue ricerche] doveva essere respinto.[7]

Ma se è vero che non disponiamo di uno studio demografico attendibile che mostri senza alcun dubbio che sei milioni di ebrei persero le loro vite durante la seconda guerra mondiale, allora perché siamo messi di fronte alla cifra dei sei milioni? Da dove viene questa cifra? E quando venne diffusa per la prima volta?

Il dr. Joachim Hoffmann è stato il primo storico di fama che si sia interrogato su questa questione. Nel suo studio del 1995 La Guerra di Sterminio di Stalin 1941-1945, egli fece notare che il principale propagandista sovietico, Ilya Ehrenburg, aveva pubblicizzato la cifra dei sei milioni, nella stampa sovietica diretta all’estero, già il 4 Gennaio 1945, vale a dire quattro mesi buoni prima della fine della guerra.[8] A quel tempo, non poteva avere a disposizione alcuna cifra attendibile. Solo un anno più tardi, nel 1996, lo storico inglese David Irving evidenziò che già nel Giugno del 1945, qualche leader sionista affermava di poter fornire il numero preciso delle vittime ebree – sei milioni, ovviamente – anche se il caos che regnava in Europa a quel tempo rendeva impossibile ogni studio demografico.[9]

Gli studiosi revisionisti, d’altro canto, hanno a lungo riflettuto sull’origine della cifra dei sei milioni: la ricerca più famosa e dettagliata è del prof. Arthur Butz nella sua opera memorabile The Hoax of the Twentieth Century [L’Inganno del Ventesimo secolo].[10]Analizzando una grande quantità di articoli del New York Times sulla persecuzione degli ebrei nell’Europa dominata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, Butz trovò diversi articoli che indicano chiaramente che già nel periodo compreso tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, i gruppi di pressione ebrei all’interno degli Stati Uniti stavano già anticipando una perdita totale dai cinque ai sei milioni di ebrei alla fine della guerra. Cito qui brevemente alcuni di questi articoli, ripresi dal libro di Butz:

NYT, 30 Giugno 1942, p. 7:

Un milione di ebrei uccisi dai nazisti, afferma un rapporto.[11]

NYT, 3 Settembre 1942, p. 5:

Un osservatore europeo ha detto che i tedeschi hanno programmato di sterminare gli ebrei non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Egli ha dichiarato che i nazisti hanno ucciso due milioni di ebrei negli ultimi tre anni.[12]

NYT, 13 Dicembre 1942, p. 21:
“[…] Rapporti autenticati fissano a due milioni gli ebrei che sono stati già uccisi con ogni mezzo di satanica barbarie, e parlano di piani per lo sterminio totale di tutti gli ebrei su cui i nazisti possano mettere le mani. Il massacro di un terzo della popolazione ebraica sotto il dominio di Hitler [due milioni è un terzo di sei milioni] e il massacro minacciato di tutti [gli altri] è un olocausto senza confronti.[13]

NYT, 20 Dicembre 1942, p. 23:

Quello che sta succedendo ai 5 milioni di ebrei nell’Europa occupata dalla Germania, dei quali tutti affrontano lo sterminio […].
Ai primi di Dicembre del 1942 il Dipartimento di Stato a Washington ha dato qualche cifra che mostrava che il numero delle vittime ebree deportate e morte dal 1939 nell’Europa controllata dall’Asse ha ora raggiunto la cifra spaventosa di due milioni e che 5 milioni erano in pericolo di sterminio.[14]

NYT, 2 Marzo 1943, pp. 1, 4:

Un’azione immediata da parte delle Nazioni Unite per salvare quanti più sia possibile dei 5 milioni di ebrei minacciati di sterminio […] è stata chiesta ad una dimostrazione di massa […] al Madison Square Garden la notte scorsa.
[…Il rabbino Hertz ha detto che] “è spaventoso il fatto che coloro che proclamano le Quattro Libertà abbiano finora fatto molto poco per garantire almeno la libertà di vivere per 6 milioni dei loro compatrioti ebrei,  soccorrendo prontamente quelli che possono ancora scampare le torture e le carneficine naziste. […]””[15]

NYT, 10 Marzo 1943, p. 12:

Quarantamila persone hanno assistito […] la notte scorsa a due performance di “We Will Never Die”[Noi non moriremo mai], una drammatica commemorazione per i due milioni di ebrei uccisi in Europa. […] Il narratore ha detto che “Non sarà lasciato nessun ebreo in Europa quando la pace verrà. I quattro milioni rimasti devono essere uccisi, secondo i piani.”[16]

NYT, 20 Aprile 1943, p. 11:

Londra, 19 Aprile (Reuter) – Due milioni di ebrei sono stati eliminati da quando i nazisti hanno iniziato la loro marcia in Europa nel 1939 e 5 milioni sono in immediato pericolo di sterminio. Queste cifre sono state rivelate nel sesto rapporto sulle condizioni dei territori occupati pubblicato dal Comitato Inter-alleato per le Informazioni.

Perciò, Butz conclude nel suo libro:

Un altro punto che va qui evidenziato […] è che la cifra dei sei milioni ha a quanto pare la propria origine nella propaganda del 1942-1943.[17]

Butz mostra anche che all’origine di questi articoli troviamo gruppi di pressione ebraici come il Congresso Ebraico Mondiale  e il Congresso Ebraico Americano. All’inizio, le loro proteste non venivano prese sul serio a Washington, fino a quando Henry Morgenthau, del Dipartimento del Tesoro, riuscì a ridurre l’influenza del Dipartimento di Stato sulla politica ufficiale degli Stati Uniti.[18]

Ma persino la lungimirante digressione di Butz era ancora un po’ limitata. Per cominciare risaliamo ancora più indietro nel tempo di sei anni. Il 25 Novembre 1936, Chaim Weizmann, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale, testimoniò davanti alla Commissione Peel, che venne formata come reazione agli scontri violenti tra ebrei e arabi in Palestina e che decise infine di dividere la Palestina in due stati, uno ebraico e l’altro arabo. Nel suo discorso, Weizmann disse:

Non è esagerato dire che sei milioni di ebrei sono condannati ad essere imprigionati in questa parte del mondo, dove essi sono indesiderati, e per i quali le nazioni sono divise in quelle, dove sono indesiderati, e quelle, dove non sono ammessi.[19]

Che questo riferimento di Weizmann a sei milioni di ebrei minacciati e/o sofferenti non sia un’eccezione né assolutamente il più remoto riferimento a questa cifra, è ora dimostrato da Don Heddesheimer. Egli ha riunito una gran quantità di materiale che indica che la propaganda scatenata dalle organizzazioni sioniste durante la seconda guerra mondiale non era senza precedenti. In realtà si tratta di una mera ripetizione – o dovremmo dire continuazione? – della propaganda che si intensificò durante la prima guerra mondiale (!) e che raggiunse il suo primo culmine negli anni venti. Già allora, le cifre dei cinque o sei milioni di ebrei minacciati di morte vennero largamente pubblicizzate come mezzo per raggiungere un fine: vale a dire il supporto incondizionato degli obbiettivi politici ebraici e sionisti.[20] Facendo un passo ulteriore, Heddesheimer ha trovato persino una fonte datata 1900 che sosteneva che sei milioni di ebrei sofferenti erano un buon argomento per il Sionismo (vedi pagina 40).

In questa prefazione, ho citato diversi articoli del New York Times degli anni 1942 e 1943, perché mi piacerebbe che il lettore, dopo aver letto questo libro, tornasse a quelle pagine e leggesse di nuovo quegli estratti. Egli sarà così colpito dalla somiglianza del tema. Ma egli noterà anche una differenza:

Durante la seconda guerra mondiale, i gruppi di pressione sionisti trovarono per la loro propaganda un bersaglio molto comodo nella Germania nazionalsocialista, le cui politiche estremamente anti-ebraiche incoraggiavano la credibilità di ogni sorta di accusa.

Prima, durante, e immediatamente dopo la prima guerra mondiale, tuttavia, la situazione era più complessa. Come mostra Heddesheimer, il bersaglio più importante degli attacchi polemici negli anni precedenti la prima guerra mondiale era la Russia zarista, a causa delle sue politiche nei confronti degli ebrei, politiche che molti sionisti consideravano anti-ebraiche. Dopo che la sconfitta della Russia zarista divenne evidente, negli anni 1916-1917, la propaganda sionista rivolse il suo obbiettivo contro la Germania (vedi la pagina 38 del libro), il cui alleato, l’Impero Ottomano, doveva essere sconfitto per “liberare” la Palestina in favore dei piani sionisti (e naturalmente per tutelare i miliardi di dollari prestati agli inglesi e ai francesi). Queste accuse propagandistiche contro la Germania, comunque, cessarono alla fine della guerra, perché la Germania, in quegli anni, era decisa a difendere sé stessa contro certe falsità.

Dopo la fine della prima guerra mondiale, quando le aspettative sioniste sulla Palestina rimasero temporaneamente deluse, ma nuove speranze erano sorte grazie all’esperimento sovietico in Russia, nessun paese particolare venne inizialmente preso di mira, anche se c’era un bersaglio che si poteva considerare perfetto: la Polonia.

Tra la prima guerra mondiale e la seconda, la Polonia era una dittatura militare che realizzò una politica di “pressione etnica”: tutte le minoranze non polacche vennero sottoposte a discriminazioni e a vari gradi di persecuzione, con l’intento di “convincerle” ad emigrare (in modo molto simile a quello che Israele fa oggi in Palestina contro i non ebrei). Gli ebrei in Polonia non erano esenti da questo trattamento. E’ un dato di fatto che l’anti-giudaismo polacco, sia a livello ufficiale che informale, era così massiccio che molti ebrei polacchi preferirono vivere in Germania, persino durante il terzo Reich e fino alla fine del 1938, piuttosto che rimanere nella loro terra nativa.

Perciò, esisteva un buon appiglio per attaccare massicciamente la Polonia per la sua condotta rabbiosamente anti-ebraica, come esistevano motivi per attaccare la Germania dopo che Adolf Hitler ascese al potere e pian piano realizzò una politica sempre più paragonabile a quella già perseguita dalla Polonia.

Sebbene si possa mostrare come il New York Times accusasse in molti articoli la Polonia di persecuzione anti-ebraica – mentre lo stesso giornale rimase sostanzialmente silenzioso riguardo a persecuzioni analoghe patite da Tedeschi, Lituani, Ruteni, Ucraini e Slovacchi residenti in Polonia – Heddesheimer non si concentra su questo aspetto, perché il suo libro non riguarda la sofferenza e la persecuzione degli ebrei nell’Europa orientale, ma la propaganda e la raccolta di fondi a New York. Desidero perciò attirare l’attenzione del lettore su alcuni esempi degli articoli del New York Times riguardanti la persecuzione anti-ebraica in Polonia.

Già nel 1919, apparve sul New York Times un resoconto dei presunti pogrom anti-ebraici in Polonia, ma con una connotazione decisamente ironica, poiché la veridicità di tali resoconti veniva messa in dubbio:

“E’ stato fatto notare che alcuni di questi resoconti potrebbero essere stati ideati da propagandisti tedeschi o potrebbero essere stati da loro esagerati con l’ovvio scopo di screditare la Polonia agli occhi degli Alleati, nella speranza che la Germania possa esserne in tal modo la beneficiaria. La Germania potrebbe aver collaborato alla diffusione di queste storie, o potrebbe averle inventate, sebbene sarebbe un inganno crudele stringere i cuori di grandi moltitudini di persone per raggiungere tale scopo […][21]

False notizie sulla sofferenza ebraica sarebbero davvero crudeli, ed è sicuramente divertente leggerlo per bocca del diretto interessato. E’ preoccupante tuttavia, quando tali voci vengono attribuite in modo infondato, come in questo caso, nel quale il New York Times a quanto pare non reprime il proprio pregiudizio nel vedere la “perfida Germania” dietro ogni cosa.

In alcuni articoli degli anni ’20 riguardanti le sofferenze dell’ebraismo polacco, queste avversità furono descritte come il risultato della generale sofferenza economica in Polonia dopo la prima guerra mondiale, piuttosto che come il risultato di una specifica politica anti-ebraica.[22] Altri, in particolare durante gli anni ’30 quando le politiche polacche diventarono più repressive, riferirono di persecuzioni anti-ebraiche, provocando la protesta pubblica del dr. Joseph Tenenbaum, il presidente dell’American Jewish Congress [Congresso Ebraico Americano].[23] Questo fatto, tuttavia, venne anche accompagnato da alcune dicerie drammaticamente esagerate riguardanti la sofferenza degli ebrei:

Il popolo ebreo in tutto il mondo affronta una guerra di estinzione, il dr. Tenenbaum ha dichiarato in un discorso […]”[24]

Questo avvenne grosso modo un anno prima che Hitler venisse eletto Cancelliere in Germania!

Anche se le politiche polacche contro le minoranze in generale e anti-ebraiche in particolare (che iniziarono proprio nel 1918/19) rendevano la Polonia un obbiettivo perfetto per il biasimo, questo aspetto della storia polacca è oggi quasi dimenticato.

Da quello che oggi sappiamo, le più grandi atrocità nel periodo tra le due guerre mondiali ebbero luogo in Unione Sovietica, così ci si aspetterebbe che le organizzazioni sioniste avessero chiamato in causa il Terrore Comunista come una delle ragioni principali delle pretese sofferenze degli ebrei. Ma non fu così fino a diverso tempo dopo. La ragione di tale comportamento può essere dedotta da un esempio, che getta vivida luce su come il New York Times considerasse la situazione degli ebrei in Unione Sovietica. Verso la fine del 1922, questo giornale riferì che c’erano delle manifestazioni di ostilità verso gli ebrei in Ucraina, ma tali manifestazioni vennero violentemente represse con l’ausilio di un’armata, composta da ebrei, di 500.000 soldati – un’armata che avrebbe potuto formarsi e operare solo con il consenso delle autorità del nuovo stato sovietico.[25] In altre parole: considerato il terrore esercitato sulla popolazione civile della primitiva Unione Sovietica in generale e dell’Ucraina in particolare da parte delle autorità sovietiche, bisogna supporre che quest’armata ebraica costituisse un importante fattore di terrore piuttosto che un rimedio contro di esso. E il New York Times descrive questa parte essenziale del Terrore Comunista come una forma eroica e giustificata di auto-difesa ebraica. Questo atteggiamento può essere compreso se si tiene presente che molti ebrei sionisti guardavano all’Unione Sovietica come ad un esperimento di una nazione a guida ebraica libera dall’anti-giudaismo.

Un altro aspetto di questa storia è quello di seguire la traccia del denaro ottenuto in queste campagne di raccolta fondi. Nel quinto capitolo, Heddesheimer affronta questa questione. La letteratura da lui citata mostra che le organizzazioni ebraiche usarono una parte del denaro per assistere i loro confratelli in Polonia. Ma il lato odioso della faccenda è che, come Heddesheimer accenna nel quinto capitolo, esso servì a sostenere anche la rivoluzione comunista in Russia, o in altre parole: a finanziare volenti o nolenti l’olocausto ebraico-sovietico contro i cristiani in Russia, in Ucraina, e negli altri stati sovietici.

A differenza di questa, la seconda campagna sionista di raccolta fondi su vasta scala – quella organizzata durante la seconda guerra mondiale – fu dedicata alla creazione dello stato di Israele, e tale campagna non è mai terminata. Prima di tutto perché Israele ha continuo bisogno di un sostegno massiccio (mentre l’Unione Sovietica non ricevette più certi aiuti quando venne de-giudaizzata sotto Stalin) e secondariamente perché la Germania crollò completamente alla fine della guerra e non le venne mai permesso di difendersi contro le dicerie della propaganda sionista; al contrario: è punibile per legge in Germania e in molti altri paesi europei sfidare queste dicerie.

Nel suo ultimo capitolo, Heddesheimer indaga brevemente se le dicerie sulle eccezionali sofferenze ebraiche da parte dei gruppi di pressioni sionisti tra gli anni ’10 e gli anni ’20 fossero fondate oppure no. Soffrirono gli ebrei nell’Europa centrale e orientale più della popolazione ordinaria di quei paesi che erano crollati alla fine della prima guerra mondiale? Davvero c’era un olocausto in corso negli anni tra il 1915 e il 1927? Utilizzando statistiche della popolazione ebraica dell’epoca, Heddesheimer brevemente fa notare che la popolazione ebraica mondiale crebbe in modo molto più veloce, durante e poco dopo la prima guerra mondiale, che altri gruppi etnici e/o religiosi che vivevano negli stessi paesi.

Questo dovrebbe essere sufficiente a rispondere alle questioni suddette.

Si può anche facilmente arguire che se le dicerie riguardanti questo “primo” olocausto fossero vere, esse dominerebbero i nostri libri di storia come l’Olocausto della seconda guerra mondiale. Ma poiché sono assenti, possiamo giustamente presumere che tale propaganda fosse falsa.

Per chiudere la mia prefazione, mi piacerebbe menzionare brevemente le modalità delle presunte sofferenze ebraiche nelle affermazioni propagandistiche di entrambi gli olocausti. Mentre la semplice povertà venne additata principalmente come causa del  primo olocausto (inventato), lo sterminio per mezzo di camere a gas ed esecuzioni di massa sono le modalità presunte durante il Secondo Olocausto, quello “reale”.

Anche se le dicerie sulle camere a gas non erano parte del modello propagandistico degli anni ’10 e ’20, esiste un’eccezione abbastanza nota, che venne pubblicata dal londinese Daily Telegraph il 22 Marzo del 1916, a p. 7:

ATROCITA’ IN SERBIA
700.000 VITTIME

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

ROME, Lunedì (6:45 pomeridiane)
I Governi Alleati hanno trovato prove e documenti, che saranno pubblicati tra breve, comprovanti che l’Austria e la Bulgaria si sono rese colpevoli di crimini orribili in Serbia, dove i massacri commessi furono peggiori di quelli perpetrati dalla Turchia in Armenia.

[…]Donne, bambini, e anziani vennero rinchiusi nelle chiese dagli austriaci e trafitti con le baionette o soffocati per mezzo di gas asfissiante. In una chiesa di Belgrado vennero asfissiati in questo modo 3000 donne, bambini e uomini anziani. […]

Naturalmente, nessuno storico afferma oggi che gli austriaci o i loro alleati abbiano mai commesso stermini con il gas in Serbia durante la prima guerra mondiale. Questa non era nient’altro che propaganda nera messa in circolazione dal governo britannico e avidamente diffusa dai media britannici.

Ma confrontiamo questo con un articolo che apparve nello stesso Daily Telegraph il 25 Giugno del 1942, a p. 5, vale a dire cinque giorni prima che il New York Times – di proprietà ebraica – riferisse per la prima volta di un presunto sterminio di ebrei nell’Europa controllata dai Tedeschi:

I TEDESCHI UCCIDONO 700.000 EBREI IN POLONIA IN CAMERE A GAS MOBILI

IL REPORTER DEL DAILY TELEGRAPH

Più di 700.000 ebrei polacchi sono stati massacrati dai tedeschi nel più grande massacro della storia. […]

Questa volta, tuttavia, tutti sappiamo che queste dicerie erano vere, non è vero? Ed è anche vero che alla fine del 20° secolo nessuno accuserebbe seriamente alcuna nazione al mondo di aver costruito camere a gas e fornito Zyklon B per uccidere tutti gli ebrei, e quindi che gli ebrei starebbero per affrontare una volta di più un altro olocausto, un’estinzione di milioni. Dopo tutto, questo era qualcosa di unicamente tedesco e nazista, che non può succedere di nuovo, giusto?

Se pensate che sia ovvio che nessuno possa fare affermazioni così indegne, devo darvi un’altra lezione abbastanza sbalorditiva: lasciatemi portare solo due esempi da una guerra che ha avuto luogo quasi 50 anni dopo l’inizio della propaganda del secondo olocausto, e cioè nel 1991. Riguarda la prima guerra dell’America contro l’Iraq, per cacciare le truppe irachene fuori dal Kuwait. Il giornale di New York Jewish Press, che si definiva allora “Il più grande settimanale anglo-ebraico indipendente”, scriveva nella sua pagina di testa il 21 Febbraio 1991:

GLI IRACHENI HANNO CAMERE A GAS PER TUTTI GLI EBREI

Oppure prendete l’annuncio di copertina del volume 12, numero 1 (primavera 1991) del Response, un periodico pubblicato dal Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles e distribuito in 381.065 copie:

I TEDESCHI PRODUCONO ZYKLON B IN IRAQ

(La camera a gas di fabbricazione tedesca dell’Iraq)

Se non ci credete consultate l’appendice, p. 136, del libro di Heddesheimer, per la riproduzione dei documenti suddetti.

Spero che afferriate l’idea di questo libro: 1900, 1916, 1926, 1936, 1942, 1991…

Nel 1991 era tutto inventato, certamente, come lo furono le dicerie successive, prima della seconda guerra americana contro l’Iraq nel 2003, che l’Iraq possedeva o stava per possedere armi di distruzione di massa – sebbene in questo caso lo Zyklon B non fosse menzionato. Ma come il rinomato giornale israeliano Ha’aretz  proclamò orgogliosamente:

La guerra in Iraq venne ideata da 25 intellettuali neo-conservatori, la maggior parte dei quali ebrei, che stanno spingendo il presidente Bush a cambiare il corso della storia.” [26]

Perché, come tutti sappiamo, gli ebrei in Israele meritano una protezione preventiva dallo sterminio con armi di distruzione di massa – che si tratti di Zyklon B oppure no, inventate oppure no.

Così forse è possibile che non proprio tutte le dicerie riferite agli eventi accaduti tra il 1941 e il 1945 siano completamente vere? Forse c’è una possibilità dopo tutto che le cose siano state falsate, distorte, esagerate, inventate? Forse…

Se il lettore a questo punto ha aperto la sua mente a questa possibilità, posso solo invitarlo a leggere gli argomenti di coloro che asseriscono che molte cose sull’”Olocausto” [quello “reale”] sono state falsate, distorte, esagerate, e inventate. Se il libro di Heddesheimer è per voi una rivelazione, come io penso sarà, allora posso solo invitarvi a leggere rivelazioni anche più stimolanti, sulle quali potrete aver notizia sul retro di questo libro.

Ritengo che il libro di Don Heddesheimer sia un contributo molto importante alla nostra comprensione delle origini delle dicerie sull’Olocausto Ebraico dei tempi moderni. Queste dicerie non sono primariamente né anglosassoni né comunistico-sovietiche. Le nazioni vittoriose della seconda guerra mondiale sicuramente afferrarono l’opportunità di trarre vantaggio da tale propaganda e di accrescere la sua portata e il suo impatto. Ma le affermazioni propagandistiche originali sono di natura ebraico-sionista e sono parte di un modello propagandistico che iniziò all’alba del 20° secolo. E da allora esse sono cresciute di intensità a causa del loro successo politico e della mancanza di resistenza.

Questo libro dovrebbe anche ricordarci il semplice fatto che la verità è sempre la prima vittima di ogni guerra. E’ sorprendente che così tante persone rifiutino ciò, quando si viene a trattare della guerra più atroce mai combattuta, durante e ancor più dopo la quale la verità è stata violentata e uccisa più spesso che in qualunque altro avvenimento nella storia del genere umano: la seconda guerra mondiale. Non è perciò probabile che ci siano state e che ci vengano dette molte più menzogne su questa guerra che su tutte le altre guerre, quando tutti sappiamo che il nostro governo [gli Stati Uniti] ha mentito: sulla prima guerra mondiale, sulla Corea, sul Vietnam, e sulle guerre contro l’Iraq?

Il libro in inglese di Don Heddesheimer è scaricabile qui: 



[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale può essere consultato in rete all’indirizzo:
Il testo originale del libro di Don Heddesheimer prefato da Rudolf può essere consultato in rete all’indirizzo: http://vho.org/dl/ENG/tfh.pdf
[2] W. Benz (editore), Dimension des Volkermords, Munich: Oldenbourg, 1991, p. 17.
[3] Lo storico tedesco “sterminazionista” Martin Broszat dell’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco si espresse in tal modo mentre deponeva come perito davanti alla corte del processo di Francoforte, 3 Maggio 1979, riferimento Js 12 828/78 919 Ls.
[4] Su questo argomento, vedi il mio studio Discovering Absurdistan, in The Revisionist 1 (2), 2003, pp. 203-219.
[5] W. Benz, op. cit., p. 20.
[6] Walter N. Sanning, The Dissolution of the Eastern European Jewry, Newport Beach, CA: Institute for Historical Review, 1983.
[7] Holocaust Victims: A Statistical Analysis. W. Benz and W. N. Sanning – A Comparison, in Germar Rudolf (editore), Dissecting the Holocaust, seconda edizione, Chicago: Theses & Dissertation Press, 2003, pp. 181-213 [disponibile in rete all’indirizzo:http://www.vho.org/GB/Books/dth/fndstats.html ] .
[8] Stalins Vernichtungskrieg 1941-1945, Munich: Verlag fur Wehrwissenschaften, 1995, p. 160.
[9] David Irving, Nuremberg. The Last Battle, London: Focal Point, 1996, p. 61.
[10] Brighton: Historical Review Press, 1976. Tutte le citazioni seguenti sono tratte dalla terza edizione, Chicago, IL: Theses & Dissertations Press, 2003.
[11] Ibidem, p. 98.
[12] Ibidem, p. 99.
[13] Ibidem, p. 100.
[14] Ibidem, p. 101.
[15] Ibidem, p. 103. Questo è lo stesso rabbino Hertz che già nel 1922 parlava di “un milione di esseri umani […] massacrati” durante i pogrom in Ucraina, New York Times, 9 Gennaio 1922, p. 19; vedi a p. 54 e a p. 117 del libro di Heddesheimer.
[16] Ibidem, p. 104.
[17] Ibidem, p. 105.
[18] Vedi il capitolo di Butz “The First “Extermination” Claims and Washington” [Le prime proteste sullo “sterminio” e Washington], che inizia a p. 81 del suo libro.
[19] Ritradotto dall’introduzione di Walter A. Berendsohn a Thomas Mann, Sieben Manifeste zur judischen Frage, Darmstadt: Jos. Melzer Verlag, 1966, p. 18. Sono grato a Robert Countess per avermi fornito questa citazione.
[20] Don Heddesheimer ha pubblicato un primo articolo, più breve, su questo argomento: Holocaust Number One – Fundraising and Propaganda [Olocausto numero uno – raccolta di fondi e propaganda], in The Barnes Review, 3 (2), 1997, pp. 19-24.
[21] “Pogroms in Poland”, New York Times, 23 Maggio 1919, p.12.
[22] “Jews of Poland Again Face Period of Want”, New York Times Sunday Magazine, 28 Maggio 1926, p. 8.
[23] Tenenbaum quits Polish Group Here. Charges Anti-Semitic Policy Abroad in Resigning as Head of Good-Will Committee”, New York Times, 20 Novembre 1931, p. 26.
[24] “Racial Bias Viewed as Threat top Peace”, New York Times, 22 Febbraio 1932, p. 20.
[25] “South Russian Jews Raise Strong Army”, New York Times, 20 Dicembre 1922. E’ possibile che questa asserzione sia esagerata, sebbene è molto probabile che gli ebrei si arruolassero nelle forze armate della primitiva Unione Sovietica più volentieri dei non ebrei.
[26] Ari Shavit, “White man’s burden”, Ha’aretz, 7 Aprile 2003; www.haaretzdaily.com/hasen/pages/ShArt.jhtml?itemNo=280279; vedi anche Stephen J. Sniegoski, “War on Iraq: Conceived in Israel”, The Revisionist, 1 (3) (2003), pp. 285-298.



L'olocausto come simbolo coagulante della nuova identità giudaica



la creazione di un Nuovo Ghetto psico­lo­gico a somi­glianza del­l’antico, cercato/ac­cet­tato per le stesse ragio­ni, che si prolunga nella paranoica visione dell’«in­giusto assedio» degli eletti da parte di ogni popolo non-ebraico, in quella «psicosi del conflitto con gli arabi e col mondo inte­ro, che ormai fa parte del nostro DNA» (lo scrittore A.B. Yehoshua).
Al pari dell’U­ni­ca Sof­feren­za, anche «this fear, this existential insecurity, is authentic and it sets Jews apart, questa paura, questa insicu­rezza esistenzia­le, è autentica e differenzia gli ebrei dagli altri popoli», l’ebreo ateo Michael Willig commenta a Joshua Halberstam. «La souffrance comme identité», così la «francese» Esther Benbassa titola il suo più recente saggio (Fayard, 2007). Ben s’addicono quindi a tale aspetto le considerazioni svolte, ovviamente per altro conte­sto, dallo storico «italiano» Roberto G. Salvadori (I): «Non mi pare ci siano dubbi: nell’e­tà del ghetto la garanzia dell’identità ebraica sta nel forte legame con la religione avita. Il rituale riempie totalmente la vita della comunità e dei singoli,anche di quelli non credenti (ammesso e non concesso che, in quel periodo, ne esistano­). 

Ancora oggi, in una certa tradizione reli­giosa ebraica ortodossa l’età del ghetto viene vista, sì, come estremamente dolorosa, ma anche come contrassegnata da una grande purezza, per la quale si nutrono sentimenti di ammirazione e di nostalgia. Il ghetto è durato tanto a lungo e ha avuto una tale incidenza che si è interiorizzato. Da allora quasi ogni ebreo porta con sé la sua prigione».

Ritorna perciò la penetrante analisi di Pellicani (II) sulla miseria intel­lettuale / morale / caratteria­le del marxismo: «Ma la malafede è diversa dal cinismo. Essa non consiste affatto nell’in­gannare sciente­mente gli altri, bensì nell’ingannare se stessi. La malafede, prima di essere inganno, è autoinganno [...] La malafe­de, quindi, è una tecnica di rimozione, grazie alla quale il soggetto protegge ciò di cui ha bisogno per continuare a stimare se stesso e per eliminare quella che Leon Festlin­ger ha chiamato la “disso­nanza cogniti­va” [...] Non è azzardato quindi dire che dietro la malafede si può trovare un vero e proprio dramma esi­sten­ziale, che non si trasfor­ma in tragedia precisa­mente perché grazie alla malafede il protagonista del dramma può coltivare certe “illusioni vitali” su di sé e sul mondo. Può accadere così che quando l’orro­re di fronte alla vita e alla morte invade l’esistenza di un indivi­duo, questi cerchi di bloccare con tutti i mezzi l’ango­scia ontologi­ca che lo assale e che, per fare ciò, sia anche disposto a trasfor­marsi in un produttore e/o un consumatore di illusioni. Queste diventano per lui l’unica àncora di salvezza: da esse dipen­dono la sua stabilità psichica e persino la sconfitta della tentazione di porre fine alla sua esistenza. Perciò deve proteggerle a tutti i costi e con tutti i mezzi».

«L’identità ebraica, in misura minore quella israeliana» – scrive poi specificamen­te Wolffsohn – «viene determinata essen­zialmente dall’Olo­causto presso tutti gli esse­ri umani nati dopo [il 1945], anche e soprattut­to per gli ebrei nati dopo. In un mondo sempre più irreli­gio­so il giudaismo non defini­sce più, per la maggioranza degli ebrei, l’identità ebraica; a coniare la loro identità è la storia, la storia dolorosa del loro popolo, soprattutto dell’Olocau­sto. Per rigiudaizzare attraverso la storia ebraica la propria identità religio­sa degiudaizzata, essi devono addirittura aggrapparsi all’Olo­causto [sie müssen sich an den Holocaust geradezu klam­mern]».

Concetto espresso anche da Leon Wieseltier (che riporta l’affer­mazione di un grande finanziatore del Simon Wiesenthal Center: «Isra­e­le, l’educazione giudaica e tutte le altre ben note parole d’ordine [ebraiche] non sem­brano più funzionare per stimolare gli ebrei ad essere solidali fra loro. Funziona solo l’Olocausto»), dal goy Alessio Altichieri (che concorda con Cesare Segre sul­la centra­lità, per l’ebraismo, del «senso di una storia comune di sofferenze») e da Jack Werthei­mer, docente di Storia Ebraica allo Jewish Theologi­cal Semi­nary of America, per il quale «l’Olocausto conferi­sce forma tragica all’eroi­smo degli ebrei, che hanno pagato il prezzo più alto per mante­nere il loro specifico modo di essere [the Holocaust dramatizes the heroism of Jews who paid the ultimate price for maintaining their distinctive ways]» e dal big boss Vittorio Dan Segre (IV), critico contro «quelle minoranze, spes­so fanatiche, che per il manteni­mento dell’identità ebraica curano la costante presenza di un nemico esterno».

Nulla quindi di che stupirsi dello squilibrato grido à la Matas, di Robert Wistrich, docente di Storia Ebraica all’Università di Gerusalemme, in chiusura della voce «Negazio­nismo» nel Dizionario dell’Olocausto:

«Dal punto di vista ebraico, la negazione dell’Olocausto è considerata come una forma particolar­mente perversa di incitamento all’odio – come l’aspetto più aggiornato di giustificazione razionale dell’odio contro gli ebrei, a stento celato sotto la maschera della revisione storica. Non per nulla i negazionisti sono stati chia­mati assassini della memoria, settari autori di una sorta di genocidio simbolico [sic] contro il popolo ebreo. Dietro questo attacco senza vergogna alla memo­ria degli ebrei, tuttavia, vi è una negazione ancora più grave delle premesse fondamentali di una società fondata sulla ragione, un appiattimento di tutti i valori e una distruzione della realtà storica».
Ancora più chiaro, intervistato dal confrère Errol Morris nel docu­menta­rio Mr. Death – The Rise and Fall of Fred A. Leuchter Jr., “Mister Morte – Ascesa e caduta di Fred A. Leuchter Jr.” (il tecnico delle gasazioni giudizia­rie america­ne, autore della prima perizia scientifica sulla chimica delle «camere a gas» di Ausch­witz), presentato nel gennaio 1999 al Sundance Film Festival di Park City, Utah, lo sterminazio­nista van Pelt: «Se si dimostrasse che i revisionisti dell’Olo­causto hanno ragioneperde­remmo la percezione che abbiamo della Seconda Guerra Mon­diale, perderemmo la per­ce­zio­ne che ab­bia­mo della democra­zia. La Secon­da Guerra Mondiale fu una guerra mora­le, una guerra tra il Bene e il Male. Se da questo quadro rimuo­vessimo il punto nodale della guerra, il nocciolo che risponde al nome diAusch­witz, allora ogni altra cosa ci diverrebbe incomprensi­bileFinirem­mo tutti in manicomio» (01:23:30, tempo in minuti, secondi e inquadra­tura).

Altrettanto quasi incredibile – due anni prima su Weltwoche 30 gen­naio 1997 – il detto Avraham Burg: «Nehmen wir an, daß eines Tages Frieden herrscht; dann wer­den sich Juden und Israelis fragen müssen: Können wir als Juden ohne den Feind überleben? Können wir überleben ohne einen Hitler, der für uns defi­niert, wer wir sind?Supponiamo che un giorno regni la pace; ebrei e israeliani dovranno chiedersi: Possiamo sopravvi­ve­re, come ebrei, senza il nemico? Possiamo sopravvi­vere senza un Hitler che definisca, per noi, chi noi siamo?».

«L’idea di “popolo eletto”, che in apparenza è perentoria» – scrive l’«itali­co» ex sessantot­ti­no Stefano Levi Della Torre – «invece è tremula e costitu­ti­va­mente senza fondamen­to [...] Martin Buber ha osservato che gli ebrei sono il grup­po umano a cui è richie­sto più insistentemente di definirsi e di giustifi­care la propria esistenza. È una richiesta che però non viene solo dall’e­sterno, ma anche dall’interno (io stesso sto cercando di rispondere a una tale doman­da). È curioso che una delle i­dentità col­letti­ve più antiche abbia una zona indefinibile nel suo centro. Questo punto indecifra­bile si potrebbe forse riassu­mere così: un cuore antico che si fonda sul fu­turo. Dalla Torah scritta e orale si potrebbe dedurre che gli ebrei più che un popolo sono la pro­messa di un popolo 

[...] L’”elezione” è dunque “necessa­ria” in quanto implica una missione universale; e il sentirsi necessari, e perciò insostitui­bili ed esclusivi, è un fattore potente dell’ostina­zione a vivere e durare».

Come «apartness was the price of uniqueness, la separatezza fu il prezzo dell’unicità» (Rabbi W. Gunther Plaut) e come «la soffe­renza è dunque la chiave del necessario bi­polarismo che ha per­mes­so a Israele di scoprire la propria identità e di disidentifi­car­si dall’Egitto» (Rabbi Adin Steinsaltz) e cioè da tutti portatori del Male (il più grande e recente dei quali è stato il «nazismo»), così l’Unicità viene oggi conferita dalla Sofferenza Somma, dal­l’Evento Imparagona­bile: «Unique suffering confers unique entitle­ment, Una sofferenza unica conferisce una facoltà e un diritto unici [...]

Non la sofferen­za degli ebrei, ma il fatto che ebrei soffrirono è ciò che rese unico l’Olocau­sto.

Detto altri­menti: l’Olocausto è speciale perché gli ebrei sono speciali» (Fin­kelstein), per cui la pretesa all’Uni­cità Olocaustica non è che «a distaste­ful secular version of chosenness, una sgradevole versione secolarizzata del­l’e­le­zione» (il detto Schorsch, presiden­te dello Jewish Theologi­cal Seminary). «Togliere il pri­vilegio [sic] della male­di­zio­ne» – completa il top-giornalista «francese» Jean Daniel  Bensaïd, 61  ricalcando il concetto di «orgoglio dello sterminio» giustamente fustigato dal revisioni­sta omeopatico Ernst Nolte (II) – «significa an­che to­gliere quello dell’elezione».

      Integrationsfunktion, «funzione integrativa», definisce Wolff­sohn tale mag­giore e conclusiva valen­za, quella stessa che ha fatto notare nel Seicento a Baruch Spinoza come sia stato proprio l’odio delle genti ciò che ha impedito il dissolvimento degli ebrei nella diaspora, quella stessa che ha fatto apprezzare nel 1895 a Theodor Herzl il sen­so educativo del­l’«an­ti­semiti­smo», fenomeno funzio­nale alla forti­fi­cazio­ne del gruppo ebraico e non viatico alla sua dissoluzione: «Io lo considero un movimen­to uti­le per il caratte­re degli ebrei [...] Soltanto le avversità hanno il potere di educa­re».

Storicamente, aggiunge MacDonald (II), l’ostilità antiebraica è sempre stata «un poten­te strumento per ottenere il ricompatta­mento del gruppo e legittimare la continuità del giudaismo. I capi dell’e­braismo sono stati sempre ben consci di tale funzione dell’antise­miti­smo. Ad esempio, nel 1929, il dottor Kurt Fleischer, capo del­l’ala liberale della comunità ebraica berline­se, asserì che “l’antise­mitismo è il flagello che Dio ci ha mandato per guidarci compatti e saldarci tra noi”. I capi religiosi dell’ebraismo hanno dunque amplificato o perlomeno fortemente enfatizzato le dimen­sioni del­l’antise­mitismo per rinfor­za­re la solidarietà del gruppo [have also exaggerated or at least strongly emphasized the extent of anti-Semitism in order to reinforce group solidarity].
“La ADL, al pari del losangelino Simon Wiesenthal Cen­ter, ha costruito il suo appello al finanzia­mento sull’abilità di raffigurare gli ebrei come circondati da nemici sempre sul punto di lanciare minacciose campagne antise­mite. La ADL ha uno staff professionale per ampli­ficare i pericoli, e talora lascia che nel mondo ebraico persistano pregiudizi razziali o politici al fine di influenza­re su come esso rappresenterà i potenziali pericoli” (Michael Lerner, direttore di Tikkun).
La coscienza religiosa ebraica s’incentra per considere­vole ampiez­za sulla memoria della persecu­zione. La per­secuzio­ne è un tema centrale di solennità come la Pasqua, Chanuk­kah, Purim e lo Yom Kippur [...] Lo storico [«inglese»] sir Louis B. Namier si è spinto talmente lontano da affermare che non ci fu mai una storia ebraica, ma “solo un marti­rologio ebraico”. Quando l’eminente sociologo Michael Walzer afferma che “mi insegnarono la storia ebraica come un lungo racconto di esilio e persecu­zio­ne… la storia dell’Olo­causto si legge a ritroso”, egli sta esprimen­do non solo la percezione che della propria storia ha la massima parte degli ebrei, ma anche rappre­sentan­do una potente tendenza della storiografia accademica ebraica, la cosiddetta tradizione “lacri­mevole” della storiografia ebraica. Negli ultimi anni, l’Olocausto ha assunto un ruolo primario in questa autoconcettualizzazione».

Nulla allo­ra di che stupirsi se gli ebrei – eterni capri espiatori, eterni innocenti, eterni Servi Sofferenti dell’Altissimo – che ante­pongono la Fanta­smatica Olocaustica e la realtà di Israele alle favole dell’Eso­do e del confe­ri­mento del­la Torah tocchino l’83%, cinque volte più numerosi di coloro che so­sten­gono il contra­rio. Nulla ancora di che stupirsi delle rivoluzionarie opi­nio­ni dell’orto­dosso Marvin Hier (­iperatti­vo nel marzo 1993 a rampognare il progetto di beatificazio­ne di Pio XII, da lui defi­ni­to «il Papa del silenzio» per non avere mai ac­cennato alla Shoah): «The Holo­caust is a tragedy most Jews can relate to, while kee­ping kosher or obser­ving [the Sabbathis alien, L’Olo­causto è una tragedia che può unire quasi tutti gli ebrei, mentre mangiare kasher od osservare il Sabato è straniero/margina­le».

Parimenti su spon­da «laica» ammonisce Max Lerner, co­lumnist del Wa­shin­gton Times i cui articoli vengono ripresi da decine di quotidiani: «Quello che è avvenuto è che il significato dell’Olo­cau­sto è oggi la principale forza unificatri­ce degli ebrei, di qualunque nazio­na­lità siano – ebrei osservanti o no, sioni­sti o no, filo-israeliani o no. Chi tocca l’Olocau­sto, tocca tutti costoro. Volenti o nolenti essi sono divenu­ti i Guardiani dell’Olo­cau­sto, at­tenti a che la sua memoria non venga dis­sa­crata, attenti a far rispettare [anche «co­strin­gere a, imporre, rafforza­re»: to enforce] il “mai più” implicito in esso. In un senso sinistro [in a grim sense], non sono stati loro a scegliere tale ruolo: è il ruolo che li ha scelti». Come ­l’Olocau­sto, lo Stato Ebraico, conclude Leo W. Schwarz, ha in sé un dinamismo di ine­guagliabi­le potenza, talché «trove­rem­mo impossibi­le catalo­gare “scientifica­mente” l’intero complesso di forze, emozioni e idee cui ha dato vita».

Complesso di suggestioni assolutamente centrale per l’intero ebraismo­, com­ples­so ormai disancorato dal concreto scorrere degli eventi per assurgere a dimensionifan­ta­storiche per le quali la pretesa degli studiosi revisionisti di indagare usando i parametri storici applicabili a qualsiasi altro evento costitui­sce, semplice­men­te, un’intollerabile 
bestemmia. Come scrive il doctor of phi­lo­sophy Halberstam: «Quando gli American Jews parla­no di Dio e dei suoi rapporti con gli ebrei, il loro pensiero corre subito all’Olo­cau­sto. Detto altrimenti: l’Olocau­sto ha tra­sformato in teologo ogni ebreo [...] La questione centrale nella teologia dell’Olo­causto è la teodicea, il problema del male: Come può un Dio che ama, un Dio asso­lu­­tamente buono, per­mettere il male nel mon­do? [...] L’orto­dossia tradizionale riaf­fer­ma che la Shoah è stata un altro segno dello scontento di Dio verso i suoi ebrei ribelli – soffriamo a causa dei nostri peccati. Questa devastazione è stata, forse, la punizione più terribile in una sequela di disastri, ma non un qualcosa di teologica­mente distinto da essi. Altri teologi, come Richard Ruben­stein, vanno in tutt’altra direzione. Auschwitz, dice Ruben­stein, fu semplice­mente troppo. Parlare di un Dio che ama dopo che un mi­lione e mezzo di bambini ebrei furono brucia­ti e gasati a morte [sic, in successio­ne: «after the burning and gassing to death»] è stato semplice­mente osceno – il Dio della tradi­zione ebraica è morto nei campi di stermi­nio. Il poeta Yaakov Gladstein ha scritto: “La Torah ci fu data sul Sinai e ci fu ripresa a Lubli­no”».

In tal modo, «se c’è qualcosa che marchia uno come nemico degli ebrei, è la sua negazione dell’Olocau­sto. È l’estrema bestemmia. Nessun altro atteg­giamento offende a tal punto la sensi­bilità degli ebrei contempo­ra­nei. Si può passar sopra e sottiliz­zare su ogni altra dichiarazio­ne dalla sinistra alla destra, non su chi minimizza la Shoah [...] Per gli ebrei non è un sem­plice altro punto di vista, ma la dimostrazione di una man­canza di sensibilità che sconfi­na nella crudeltà. Raramente un ebreo scende a discutere su questo aspetto, sebbene qualcuno sia peri­colosa­mente arrivato a dare aiuto e sostegno ai negazio­nisti [...] Poiché, da parte degli ebrei, la Shoah è oggi lo sfondo di ogni discorso – dozzine di libri sulla cala­mità continuano ad essere editi ogni anno – dobbiamo esaminare in dettaglio i limiti e le costrizioni a tali sfide [...] Per molti ebrei della mia età, l’Olocausto è la nostra introduzione al giudaismo [...] Ci costrin­ge a pensare da ebrei, per molti di noi, per la prima volta [...] Insieme alla creazione dello Stato di Israele, la Shoah è il massi­mo evento degli ultimi due millen­ni di storia ebraica, ed è acca­duta soltanto una generazione fa. Per diversi aspetti la Shoah è indubbiamente il peggiore even­to della storia umana, ed è acca­du­to ai nonni, agli zii, alle zie e ai cugini degli ebrei america­ni».

Nulla possono quindi contare, per l’agire/sentire degli American Jews e di tutti i figli di Giacobbe, i moniti espressi su Haaretz, il 16 marzo 1988 in “Dimenti­care”, dall’ex oloscam­pa­to decenne ausch­witziano Yehuda Elka­na, direttore a Tel Aviv del­l’I­stituto per la Storia della Scienza e della Filosofia, e a Gerusalemme dell’Isti­tuto Van Leer: «Un clima in cui un’inte­ra nazione fa dipendere il proprio rapporto col presente e la propria visione del futuro dagli insegnamenti del passato è un pericolo per il futuro di ogni società che, come in ogni altro paese, vuol vivere in relativa tranquillità e sicurez­za [...] anche la stessa democrazia è minacciata, se il ricordo delle vittime del nazi­smo ha un ruolo attivo nel processo politico. Tutti i regimi fascisti con le loro ideologie l’hanno capito [...] Quando si adopera la sofferenza del passato come argomento poli­tico, è come se si chiamassero i morti ad allearsi nel processo democra­tico dei vivi [...]


Il perico­lo maggiore per il futuro di Israele lo vedo nel fatto che l’Olocausto è stato inculcato sistematicamente nella coscienza dell’opinione pubblica israeliana; e questo colpisce particolar­mente la gran parte della popolazione che non ha vissuto l’Olocau­sto, come anche la generazione dei figli nati e cresciuti in questo paese. Per la prima volta capisco quali tristi conseguenze comporta il fatto che ogni bimbo israe­liano venga inviato a Yad Va­shem, e non una sola volta. Cosa pensia­mo di ottene­re, iniziando a tali esperienze dei fragili bimbi? La nostra ragione, i nostri stessi cuori erano chiusi e non volevano capire, ma da loro abbiamo preteso: “Ricor­date­vi!” A che scopo? Cosa deve farne un bambino, di tali ricordi? Probabil­mente, molti di loro intendono queste immagini orrorifiche come appelli al­l’odio.

Il “Ricordatevi” ha po­tu­to essere interpre­tato come invito ad un cieco odio perenne. Può ben essere che la pubblica opinione mondiale si ricordi ancora a lungo. Non sono certo, ma in ogni caso un tale far ricordare non dovrebbe essere nostro compito. Ogni nazio­ne, anche la tedesca, deve decidere da sé, nel contesto delle sue riflessio­ni, se vuole ricordare. Noi invece dobbiamo dimenticare. Per i capi della nazione non vedo compito politico o pedago­gico maggio­re del comin­cia­re dav­ve­ro a dedi­carsi a formare il futuro, e non a occu­par­si mattina e sera dei simboli, delle commemora­zioni e dell’in­se­gnamento del­l’Olo­causto. Dob­bia­mo respin­gere dal­la nostra vita la dittatura della memoria storica».

Ed ancora, inter­vi­stato nel marzo 1994: «Bisogna rimettere in di­scus­sione il concetto di umanesi­mo, poiché esso postula l’esisten­za di un qualcosa come la “naturaumana”, concetto occi­dentale, eredità del secolo diciottesi­mo e dei Lumi, al quale, per quanto mi tocca, non credo affatto [...] Il culto del genoci­dio, particolar­mente per quelli che non l’hanno vissuto, non ha fatto altro che generare tra gli ebrei un’insopportabile hybris morale [gli ortodossi starnuti­rebbero: chutzpah]. Peggio, ha imbri­gliato tutta le creatività, sosti­tuen­dola con un’arroganza che pretende di legittimarsi attraverso un’eterna persecuzio­ne. 

In Israele più la memoria della Shoah è ossessiva, col suo corteo di mani­po­lazioni politiche, più il livello intellettuale si abbassa, nelle università, nella musica, nelle arti. La letteratura soltanto è risparmia­ta, ma per quanto? [...] Sono i singoli che devono gestire la loro memoria, non la società.

Che giova, ad esempio, alle vitti­me l’apertu­ra di luoghi turistici, a Washing­ton come a Los Angeles, sotto forma di musei del­l’O­locausto? Io non so se Israele neces­sitasse davvero del processo Eichann. Ciò che però so è che quel proces­so ci ha causato dei danni, ha risve­gliato in noi lo spirito di vendetta. Peggio ancora, ci ha illuso che questa vendetta fosse possibile. Per me sono assurde le visite dei liceali, organizzate oggi dalle scuole israeliane ad Auschwitz. Provocano devastazioni morali. Rafforza­no, tra i giovani, l’impressione che il mondo sia contro di loro. Con tale culto della me­moria il mio paese, Israe­le, ha inoltre avuto un’influsso estrema­mente nefasto su tutte le comunità diaspori­che»

(in realtà, Rabbi Michael Goldberg concorda serafico che «the prosecution’s chief aim was essentially an edu­ca­tio­nal one, sostan­zial­mente lo scopo principale dell’accusa fu di educare. Si cercò, attraverso la testimo­nianza dei soprav­vis­suti, di far sì che i giovani israeliani si identificas­sero con le vittime; alla fine lo scopo fu raggiunto»).

Iconoclasta il pur apprezzabile Elkana? Ma nient’affatto, ché un vero ebreo non può essere, per defini­zio­ne, iconoclasta, ma solo apostata. Ed El­kana apo­stata proprio non è; cerca solo di difendere gli inte­ressi del suo po­po­lo, minacciati dalla sempre meno tollerabi­le arro­gan­za dei suoi portapa­ro­la. Qualche revi­sionista potrebbe scorgere nelle sue parole un segno della vittoria delle tesi tanto a lungo sofferte dagli spiriti liberi; la conclusione non è tuttavia così semplice, poiché nessun vero ebreo sarebbe ingenuo a tal punto. 

Nessuna ammissione fa infatti, il nostro Elkana, sulla sostanza del problema.
Dia­spora, Olocausto e Stato d’Israele – vale a dire ebrai­smo, giu­daismo e sioni­smo – sono non solo concetti ma realtà insepara­bili. Chi, per difetto d’infor­mazione, debolezza intellet­tua­le, tatticismo operativo o nell’illu­sione di fuggire la ridicola e devastante accusa di «antisemi­ti­smo» (vedi, per tutti, il Theo­dorakis del­l’intervi­sta rilasciata ad Ari Shavit) si voglia unicamente antisionista e non anche anti­ebrai­co e an­ti­giudai­co, non solo si scon­trerà sempre con la più che giusti­ficatadiffi­denza degli Arruola­ti, ma soprattutto pregiudi­cherà ogni sforzo per com­prende­re l’es­senza ideo­lo­gica e l’azione po­litica del giudai­smo. E quindi, per esprimere un fondato giu­di­zio sul passato, capi­re il presente, di­scer­ne­re le prospettive per l’avve­ni­re.

Gianantonio Valli   

(Estratto da: Holocaustica religio)


Nota 61.   Jean Daniel/Bensaïd, nato in Algeria nel 1920, è masso­ne, docente di filoso­fia e scrittore, corrispon­den­te di New Republic, giornalista a Le Monde e L’Ob­ser­va­teur, fondatore e direttore del settimanale Le Nouvel Observa­teur, organo della «gauche caviar, sinistra al caviale» (similmente detta: radical chic o «cham­pagne left, sinistra allo champagne» o «lobster liberals, progressisti all’arago­sta»), articolista sul confra­tel­lo italiano la Repubblica, membro del direttivo della pri­ma­riaAgence France Pres­se, amministra­tore del quotidiano Le Matin de Paris e del Museo del Louvre, intimo «consigliere» del presidente francese François Mit­ter­rand.

Bibliografia
Salvadori R.G. (I), 1799, Gli ebrei italiani nella bufera antigiacobina, Giuntina, 1999
Pellicani L. (II), Miseria del marxismo – Da Marx al Gulag, SugarCo, 1984
Segre V.D. (IV), Le metamorfosi di Israele, UTET Libreria, 2006
Nolte E. (II), Intervista sulla questione tedesca, Laterza, 1993
MacDonald K. (II), Separation and Its Discontents – Toward an Evolutionary Theory of Anti-Semitism,Praeger, 1998

Articoli precedenti sulle “Valenze dell’olocausto