Psicologia, esistenzialismo ed il rumore dell'acqua che scorre...



Nel mondo della psicologia d'oggi si avverte forte il dibattito sul che cosa dovrebbe essere lo psicologo, dato che non ne esiste definizione precisa nemmeno nel codice deontologico. E così anche la psicologia, come molte altre scienza, si trova frammentata in numerosissimi filoni, dovuti anche alla diversa applicazione di questa giovane scienza in molti ambiti d'indagine. Ad esempio la psicologia sociale, che studia l'essere umano nel suo contesto sociale, è quella che maggiormente ha eseguito ricerca sul campo o in laboratorio (ricerca) - come non ricordare i famigerati esperimenti di S. Milgram e P. Zimbardo che sconvolsero il mondo - e quindi è orientata verso un metodo altamente "scientifico", da osservatore distaccato e attento; mentre la psicanalisi e il recente filone della psicologia umanistica di Rogers, si focalizzano sull'essere umano in quanto tale e sui meccanismi di fondo che lo costituiscono, adottando diversi approcci "strategici" a seconda dei casi. Ma lo psicologo non può permettersi questa dicotomia: da una parte la sua specifica umanità è fondamentale nelle vesti che si trova ad indossare durante il rapporto stretto con l'utente (soprattutto in ambito clinico), dall'altra riveste comunque una figura professionale, nel senso che deve impedire di interferire con giudizi, valori, ideali personali e i propri significati, di modo da mettere da parte la propria soggettività e lasciare totale spazio all'altro, anche per evitare eventuali "biases" (distorsioni d giudizio, pregiudizi).

E' chiaro che la necessità di umanità, di partecipazione, di condivisione e di comprensione empatica risulta fondamentale per un significativo avvicinamento all'altro, ma sul piano pratico, non è affatto facile cercare di conciliare questo aspetto con la stessa professionalità "distaccata" richiesta dal ruolo.

Per quanto finora ho potuto constatare nella mia esperienza e in quella di molte persone con cui mi sono confrontato, a volte lo psicologo d'oggi (ancora peggio lo psichiatra che prende le parti di un analista) troppo spesso quando non è inutile, è nocivo. Infatti, questo tipo di professione, se non è stata accompagnata per tutto il tempo da un'intensa attività di ricerca personale che fa di questa professione non solamente un lavoro e un modo idoneo per inserirsi in società, ma una vera e propria vocazione, nel senso freudiano, ossia un'analisi approfondita e una ricerca spasmodica sul "che cos'è l'uomo" (alcuni direbbero "chi è l'uomo"), allora si rischia di diventare dei manovali della psicologia che utilizzano tutte le teorie (e guardate che ce ne sono alcune proprio di divertenti alle volte) apprese in un'università puramente teorica, a stampino con tutte le persone con cui hanno a che fare.

L'università dal punto di vista culturale e nozionistico è impareggiabile, ma ha dei fortissimi limiti in termini umani, esperienziali e ancor più gnoseologici: essa fornisce strumenti e possibilità, non di sicuro Conoscenza. Ho incontrato persone dopo 6-7 anni d'università che ne sapevano come prima. E questa cosa è agghiacciante se contiamo che, con un esamuccio di stato, è sufficiente per diventare psicologi. Questo è uno dei motivi perché la gente si sente più rassicurata nelle mani di uno psichiatra o un terapeuta, che ha fatto anche 9-10 anni d'università e fornisce più "garanzie".

Eppoi c'è il fatto d'essere medici, il che fornisce a questa categoria sociale un'autorità indiscutibile agli occhi dei più. Ma sono proprio questi a manifestare la grande pecca della psicologia moderna: l'eccesso di scientismo in tale disciplina. L'essere umano, salvo in rari casi, viene analizzato in termini, se non proprio materialistici, meccanicistici, e troppo spesso il freddo e "oggettivo" metodo scientifico ne riduce e banalizza l'enorme complessità. E allora, si è insicuri nella vita? E' perché non si ha superato adeguatamente lo stadio anale durante l'infanzia. Ci si sente demotivati, tristi e nostalgici? E' perché non soddisfiamo adeguatamente i propri piaceri e non sfoghiamo sufficientemente la libido. Ci sentiamo depressi? E' normale, ad alcuni capita, toh, beccati questo psicofarmaco e torna a casa.

Senza dilungarmi troppo, questo aspetto, della depressione, è quello più delicato al giorno d'oggi: soprattutto tra i giovani sembra un fenomeno di massa, un'epidemia. E qual'è la miglior soluzione a cui si è giunti? Lo psicofarmaco. Ho ascoltato ragazzi tra i 14 e i 18 anni che, "caduti" (che buffo questo termine, come se ci si svegliasse di colpo ammalati) in uno stato depressivo, si sono rivolti a questi bravi psichiatri che hanno avuto il buon senso di prescrivere al SECONDO introntro, un buon psicofarmaco. Questa è una cosa che trovo assurda: cazzo basta prendere in mano Baudelaire, qualche filosofo esistenzialista, Pavese, Nietzsche o chicchessia per capire subito che quella che oggi chiamano la malattia della "depressione" è un "male" da sempre esistito, ma descritto e analizzata nel corso del tempo in termini assolutamente diversi, decisamente diversi. Per cui in quest'ottica, questa "malattia" non esiste, perché c'è sempre stata, è nell'uomo stesso. Se vogliamo, l'unica vera "depressione" che esiste è quella in termini sociali: il male dell'alienazione secondo la visione marxista, l'isolamento dovuto alla frammentazione individualistica, il nichilismo, ossia la perdita di ogni valore con l'avvento della tecnica, il cancro della mercificazione del capitalismo che fa dell'uomo una cosa, un qualcos'altro da scambiare e sfruttare. Insomma, tutte cose specifiche, cose di cui il grandissimo Erich Fromm ha spiegato a lungo. (vedi articolo:http://www.diariodelsottosuolo.it/Home/tabid/483/EntryID/15/Default.aspx)

Pertanto dal mio personale punto di vista, la chiave e la salvezza per diventare "bravi" psicologi o terapeuti, risiede in un approccio che sia profondamente eclettico ed olistico: la psicologia nell'analisi dell'uomo diverrebbe profondamente parziale senza la complementarietà della filosofia che aggiunge all'uomo qualcosa d'indispensabile, il concetto di SENSO, e di ogni concezione teologica che arricchisce enormemente l'indagine attraverso un termine assolutamente tabù per il mondo della scienza, quello di SPIRITUALITA'. Ecco allora che lo psicologo non è quello che guarisce (sono più che altro i clinici, come il terapeuta e lo psichiatra che si occupano di patologie più gravi), ma colui che, in senso socratico, accompagna l'altro (non ha molto senso utilizzare il termine paziente), nel suo percorso di crescita e ricerca.

Stefano Andreoli

….....

Risposta di Paolo D'Arpini

Caro Stefano.. non vorrei che tu fossi ri-assorbito nel gorgo della speculazione...

Considera -ad esempio- che la psicologia del  Libro dei Mutamenti (I Ching), di cui in passato ti ho parlato, è essenzialmente un testo evocativo, che utilizza le sue immagini e sentenze per consentire all'uomo di riconoscere gli archetipi equivalenti che sono dentro di lui.. Se vuoi approfondire questo tipo di ricerca ti consiglio di cominciare a leggere il libro come leggeresti un romanzo.. senza minimamente sforzarti di "capire".. Ci vuole tanta pazienza poiché siamo abituati ad analizzare i concetti razionalmente, e trasformarli in "sensazioni" per noi non è semplice. Dobbiamo sentire e non comprendere, dobbiamo riconoscere e non apprendere...

Ester, la Dea gilanica, e la civiltà di Obeid


- La scelta del nome: Ester -

Il nome Ester deriva dal nome di Ishtar, la Dea più importante che fu venerata nell’area dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, soprattutto nella città di Babilonia e di Niniveh.

Secondo i risultati degli studi degli antropologi e archeologi francesi Annie Caubet e Patrick Pouyssegur, in Mesopotamia, nella regione del Tigri e dell’Eufrate, si sviluppò una cultura conosciuta come civiltà di Obeid. In essa non esistevano gerarchie e l’organizzazione sociale ed economica erano basate sui principi egualitari e sulla comunione dei beni. Questa civiltà si espresse con un elevato livello artistico e religioso in perfetta armonia con l’ambiente. Per circa quattromila anni, dal 7000 al 3000 prima dell'era comune, questa regione accolse una delle ultime civiltà gilaniche. (fondate sull’eguaglianza dei sessi e sulla sostanziale assenza di gerarchia e autorità - ndr)

Isthar è connessa ed assimilabile a Dee come Inanna, Afrodite ed Astarte il suo nome compare anche nella Bibbia come l’eroina Ester. I due nomi infatti hanno lo stesso significato: Stella

Il nome Ester deriva dal nome di Ishtar, la Dea più importante che fu venerata nell’area dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, soprattutto nella città di Babilonia e di Niniveh. 

Secondo i risultati degli studi degli antropologi e archeologi francesi Annie Caubet e Patrick Pouyssegur, in Mesopotamia, nella regione del Tigri e dell’Eufrate, si sviluppò una cultura conosciuta come civiltà di Obeid. In essa non esistevano gerarchie e l’organizzazione sociale ed economica erano basate sui principi egualitari e sulla comunione dei beni. 

Questa civiltà si espresse con un elevato livello artistico e religioso in perfetta armonia con l’ambiente. Per circa quattromila anni, dal 7000 al 3000 prima dell'era comune, questa regione accolse una delle ultime civiltà gilaniche. (fondate sull’eguaglianza dei sessi e sulla sostanziale assenza di gerarchia e autorità - ndr).

Isthar è connessa ed assimilabile a Dee come Inanna, Afrodite ed Astarte il suo nome compare anche nella Bibbia come l’eroina Ester. I due nomi infatti hanno lo stesso significato: Stella

Joe Fallisi

Masada - La bufala dell'auto-immolazione mai avvenuta



......ogni mito presto o tardi deve fare i conti con un revisionismo scientifico. Studi come quelli di Ben-Yehuda restituiscono una dimensione realistica al mito di Masada.

E spesso non è nemmeno necessaria una scoperta eclatante per revisionare la storia passata: leggendo attentamente “La Guerra Giudaica” dello storico ebreo Giuseppe Flavio si vede come Eleazar ben-Yair fosse un personaggio che oggi non esiteremo a definire un terrorista integralista. Zelota massimalista, sicario (i sicari erano una setta ebraica dedita agli assassinii tramite un pugnale chiamato “sica”, da cui il nome), fomentò il popolo contro i romani, pretendendo dai sacerdoti che non accettassero più i sacrifici da parte loro. Un gesto considerato dallo stesso Giuseppe Flavio empio, poiché sempre al Tempio di Salomone ogni uomo aveva potuto offrire sacrifici a Dio quale che fosse la sua religione o razza. 

E i romani avevano trovato un modus vivendi con questo “strano popolo che adorava un solo dio”, sacrificando nel Tempio non all’Imperatore o alla Dea Roma, ma per l’Imperatore e per Roma, salvando così il monoteismo giudaico e la necessità politica dei romani di assicurare sempre che i riti sacri fossero ben compiuti: una preghiera “pro rege et pro patria”, insomma. Eleazar sapeva bene che i romani avrebbero percepito il rifiuto delle loro offerte come una insopportabile ed empia offesa, e sarebbe stata la guerra. 

Ed era ciò che egli voleva.

Ma la guerra non prese la piega voluta dagli integralisti: in tutto il Medio Oriente le comunità ebraiche furono trucidate dalle popolazioni ellenizzate o romanizzate, e gli stessi romani, dopo aver accusato iniziali rovesci, si riorganizzarono e schiacciarono la rivolta con una ferocia raccapricciante. 

Come se non bastasse, le fazioni giudaiche iniziarono a massacrarsi a vicenda: gli zeloti e in particolare i sicari praticavano un sistematico terrorismo contro ogni comunità ebraica “colpevole” di non sufficiente odio verso gli “invasori” romani. Eleazar stesso, rinchiuso a Masada con un migliaio di sicari, compì la sua miglior prodezza assaltando il vicino villaggio giudeo di Ein-Gedi sterminandone la popolazione, donne e bambini compresi. 

I paralleli con la situazione contemporanea sono fin troppo evidenti.

La durata dell’assedio invece è stata riscritta dalle prospezioni archeologiche: la rampa costruita dai romani non sarebbe stata alta 375 piedi (125 metri) come preteso da Giuseppe Flavio, ma molto meno forse appena una dozzina di metri, poiché la Legione Decima comandata da Lucio Silva sfruttò uno sperone di roccia calcarea naturale. Un’opera che assieme al controvallo e al fossato scavato attorno alla fortezza, secondo l’abituale strategia romana d’assedio, non dovette occupare i legionari e i loro schiavi per più di un mese. Dunque non anni, ma settimane, durò la resistenza di Masada ai romani.

Giuseppe Flavio non trova riscontro neppure nella questione del successivo rogo: secondo lo storico ebreo i difensori di Masada appiccarono fuoco alla fortezza prima di suicidarsi, ma non ai magazzini, per dimostrare che non cedevano per fame. Tuttavia i ritrovamenti archeologici mostrano spessi strati di cenere anche nei depositi.

E infine: sono stati ritrovati finora solo 28 corpi, dei quali la maggior parte in caverne alla base della montagna. Gli altri 932 cadaveri dove sono?


Emanuele Mastrangelo

Testo integrale su:  http://www.storiainrete.com/

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Antonio Pantano a commento dell'articolo: "Masada, come tante altre "glorie" del minuscolo e modesto popolo ebraico, è frutto di bassa propaganda vertente sul "gonfiare le ipotetiche proprie sofferenze" (che, senza dubbio, erano conseguenze di danni recati ad altri). Pensa alla "figlia del Faraone", mai riscontrata nella vastissima storiografia egizia, che avrebbe raccolto dal fiume l'infante Mosè di turno! Caro Saul, una raccolta secolare di mitologìa di una tribù errante dalla Mesopotamia è divenuta, solo per gli animi semplici, il "libro", sul quale molti gonzi sono costretti a "giurare"! Ma basta scorrere una frazione di esso, il "deuteronomio", per leggervi una miniera di perverse cattiverie, ferocemente discriminatorie e razziste, verso tutta l'umanità.

Cerchiamo di "esser seri", e di dedicare tempo alla vera cultura, che non si lascia sporcare dalle cattiverie mitologiche di una tribù errante, frustrata da 2300 anni, mentre altre VERE civiltà splendevano con trattati del pensiero, leggi indistruttibili e imperiture, e monumenti ancor oggi sfavillanti..." 

Destino e libero arbitrio, un'esperienza personale....




Oggi sento il bisogno di fare ulteriore chiarezza, per quanto possibile, sul discorso della scelta del destino, della vita e morte del corpo, del significato dell’anima individuale e della libertà assoluta dello Spirito. 
Alla base di tutto pongo la mia esperienza, impiantata nella memoria, del momento in cui la coscienza stava illuminando la formazione di un corpo nel grembo di mia madre, essendo questa coscienza individuale denominata “anima”, in cui percepii chiaramente il decorso karmico che quella forma psicofisica (quel me stesso) era destinata a compiere. Vidi le sue propensioni, le sue radici geniche, le tendenze innate, le vicende destinate, le difficoltà, la gloria, il sacrificio, insomma tutto quel che doveva essere compiuto attraverso quello specifico individuo umano. Ebbene nel percepire tutto ciò chiaramente sentivo una certa riluttanza ad affrontare le prove, meglio dire a testimoniarle, o renderle possibili attraverso la presenza cosciente che io sono. Eppure, il delinearsi del destino incipiente nello specchio della mente, che lo registrava e quindi lo immagazzinava come una pellicola che poi sarebbe stata proiettata nel corso della vita, comportava una parvenza di libero arbitrio nell’accettare il fato o nel rifiutarlo. 
Certo questa sensazione di accettazione o rifiuto era totalmente soggettiva e non poteva in alcun modo modificare il corso degli eventi preordinati, ma avrebbe potuto lasciare una traccia sotto forma di insoddisfazione e rifiuto, con le conseguenze che potete immaginare nel dispiegamento della vita che stava per manifestarsi.
Il senso di ribellione che avrebbe comportato tale rifiuto avrebbe perniciosamente ritardato il compimento dello scopo prefisso dell’anima stessa…. Ma, un momento, occorre chiarire un concetto. Cos’è l’anima?
In sanscrito essa viene chiamata “Jivatman” che significa anima individuale, mentre l’Assoluto viene chiamato “Paramatman”. Avrete notato che il suffisso “Atman” permane in entrambi i termini, mentre cambia solo il prefisso. Da ciò si intuisce l’identità fra le due espressioni. L’anima individuale quindi è la “coscienza personale” che illumina la particolare forma non essendo però diversa nella sua natura dalla Coscienza Universale, che viene definita anche Ishwara o Dio. Allo stesso tempo questa suddivisione in Dio, Anima e Mondo è solo funzionale alla manifestazione, che si svolge nell’ambito dello spazio-tempo, in realtà esiste solo una pura ed assoluta consapevolezza non duale e priva di ogni empiricità, essendo Unica e quindi non osservabile né conoscibile. Questa consapevolezza è lo Spirito.
Allorché questa pura Consapevolezza si riflette in se stessa, come moto spontaneo della sua natura, sorge l’ “Io”. Da questa prima illuminazione nasce poi la sembianza “Io sono” (Dio è definito nella Bibbia “I Am That I am”) e dall’”io sono” deriva l’identificazione “Io sono questo” (ovvero lo specifico nome e forma). Da questo processo ne consegue un’osservazione e riflessione a tutto campo delle variegate espressioni vitali (viene posta in atto la creazione e la molteplicità degli esseri). 
Avrete però intuito che l’identità indivisa dell’Essere unico, lo Spirito, non perde le sue caratteristiche pur rivestendosi di un’ipotetica illusione separativa, utile ai fini della manifestazione. Insomma il puro ed assoluto “Io” non duale è sempre presente, in forma immanente e trascendente, in ogni cosa ed in ogni aspetto della coscienza manifesta. Nella materia bruta è latente (”in fieri”) e nella coscienza universale ed individuale è l’aspetto illuminante della consapevolezza.
Il compimento del destino globale, inscindibile nell’insieme, è presente nella summa di tutti i fotogrammi possibili (ed impossibili) delle infinite forme e nomi (che nascono e muoiono in continuazione) e che sono le varianti del decuplo aspetto dell’illusione (la Creazione stessa). Essendo questi dieci aspetti: coscienza ed energia; le tre qualità: armonia, moto, inerzia; i cinque elementi sottili e materiali (Etere, Aria, Fuoco, Acqua, Terra). Ma di questo ne abbiamo già parlato abbondantemente in altri articoli.
Occorre però capire che tutto questa descrizione in corso appartiene comunque al modo manifestativo, per cui rientra in una conoscenza relativa e dualistica. Non può essere perciò considerata “Conoscenza” spirituale, che è aldilà di ogni descrizione possibile essendo pura esperienza diretta del Sé, ma serve ad accontentare l’anima, o mente speculativa, che sente il bisogno di ragionamenti sottili per poter alfine decidere di sottomettersi al Potere Superiore del Sé. Non che la sua sottomissione sia necesaria alla realtà già in atto, nel senso che diviene operativa attraverso una specifica “scelta”…. meglio infatti sarebbe dire che tale sottomissione corrisponde al riconoscimento della propria identità originaria ed alla rinunzia dell’illusione separativa.
Nel percorso apparente che l’anima compie verso il ritorno a casa (dalla quale non si è mai allontanata se non nella considerazione speculare dualistica) essa attraversa il mondo infernale dell’identità con le forze egoiche e materiali più dense, il mondo umano delle emozioni e dei sentimenti ed il mondo paradisiaco del compimento del bene e dell’amore. Queste chiaramente sono tappe intermedie, trappole della coscienza duale per mantenere l’anima avvinghiata all’illusione separativa, parte del gioco che “imprigiona” ciò che mai può essere imprigionato. Per cui l’anima sembra dover scegliere attraverso le esperienze di vita e di coscienza che l’attendono come portare a compimento questo percorso.
Ed a questo punto debbo riferire anche dell’esperienza diretta del Sé, che ognuno di noi può avere nel momento opportuno, in cui si ha la piena consapevolezza della propria natura originaria, dell’identità nello Spirito eternamente libero, e tale esperienza è uno degli aspetti che aiutano infine l’anima a rinunciare alla sua illusoria identità separata. Corrisponde al momento in cui la maturazione dell’anima è vicina al superamento dei vincoli infernali, mondani e religiosi e si manifesta sotto forma di “Grazia” del maestro interiore, dello Spirito che è la sola ed unica verità.
Ed a questo punto ogni discorso tace.

Paolo D’Arpini

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     Collage di Vincenzo Toccaceli

Commento di Marco Bracci: "Concordo con Paolo sul discorso della scelta che l’anima fa su come vivrà la prossima vita terrena, ma non sul momento in cui fa tale scelta. Premetto che io non ho un’esperienza personale, ma porto quello che il Cristo ha detto anche nei mesi scorsi in alcune sue rivelazioni (sintetizzate nel libro e nei video dal titolo “La mia vita. La vita che io stesso ho scelto”) e riassunte nella poesia attribuita a Hermann Hesse “La vita che ho scelto”. In conclusione, l’anima sceglie si, ma solo se incarnarsi o meno, dopo che le è stata spiegata quale sarà la sua vita terrena e a quale scopo la vivrà. Ovviamente, strada facendo, il libero arbitrio potrà far dirottare l’anima verso mete diverse da quelle predisposte. In tal caso non rispetterà i piani preparati per la sua evoluzione, con conseguenze negative per lei. Insomma, il programma di studi di ogni anno scolastico è predisposto dal Ministero e ogni studente sceglie la scuola che vuol frequentare in base a tale piano di studi. Se, dopo scelta la scuola, non segue tale piano, deve ripetere l’anno ed eventualmente cambiare scuola. Così è per l’anima con la vita terrena (le vite terrene)."

Persecuzioni contro i cristiani e bugie "religiose" di convenienza, in verità i "cristiani" non furono mai perseguitati da Roma




Ante Scriptum di Paolo D'Arpini

Sul tema della "persecuzione" dei primi cristiani da parte delle autorità romane mi ero già espresso in altri articoli. Ma una premessa  prima di sottoporvi il testo che segue mi sembra necessaria. I primi cosiddetti cristiani non erano altri che  appartenenti ad una setta ebraica che rifiutava il potere romano, anzi lo considerava "nemico", anche in seguito alla distruzione di Gerusalemme completata da Vespasiano e Tito  ed alla conseguente "diaspora". In verità  la "diaspora" era una realtà assodata da tempi molto anteriori alla distruzione di Gerusalemme. Ebrei di varie sette già da secoli popolavano diversi paesi del mondo antico. La persecuzione dei romani contro alcuni membri di queste sette  furono semplicemente una risposta alla mancanza di riconoscimento dell'autorità imperiale da parte dei suoi appartenenti. Presso i romani non esisteva alcuna persecuzione religiosa nei confronti di alcun credo. Infatti i romani furono maestri di sincretismo, ogni popolo aveva il diritto di conservare i propri dei ed usanze, purché riconoscesse l'autorità politica rappresentata dall'Impero. 

E qui sta il nodo.  Gli appartenenti ad alcune  specifiche sette ebraiche, che poi si definirono cristiane, non riconoscevano l'autorità imperiale e quindi erano condannati come "sovversivi" politici e non come " praticanti d una religione".

Le cose cambiarono allorché queste sette ebraiche, che inizialmente, mantenevano la tradizione di appartenenza etnica alle "tribù d'Israele" e quindi a tutti gli effetti facevano parte dei giudei circoncisi, decisero di "convertire" anche i Gentili al loro credo e quindi accettarono nelle loro file anche i non giudei. Ovviamente questo segnò una linea di demarcazione fra i "giudei puri" (discendenti da madri ebree) e quelli "spuri" che si mescolavano ed accettavano i Gentili come correligionari. Ad un certo punto la frattura diventò insanabile ed i cristiani,  pur avendo accettato  in toto l'antica tradizione biblica, per la loro promiscuità genetica  si distinsero dai giudei e pian piano conquistarono terreno nelle classi povere e derelitte dell'impero fino a diventare una maggioranza numerica. 

A quel punto le cose avevano assunto una forma completamente diversa e gli ultimi imperatori romani trovarono più conveniente usare il "cristianesimo" come legante per l'Impero. Ovviamente i capi cristiani stessi facilitarono questo gioco,  interrompendo qualsiasi antagonismo con il potere politico, anzi pian piano con la decadenza si sostituirono ad esso. Infatti i papi di Roma erano in un certo senso considerati  gli eredi degli imperatori. 

Ma tornando al discorso iniziale delle cosiddette persecuzioni contro i "cristiani"    mi permetto di fare una citazione del prof. David Donnini:

IL MARTIRIO ZELOTICO E QUELLO CRISTIANO
Nel capitolo “Premesse per l’analisi storica del racconto evangelico”
abbiamo parlato delle persecuzioni e abbiamo affermato che il modo in
cui esse vengono comunemente rappresentate è scorretto. Le
persecuzioni anticristiane, specialmente le più antiche, erano intese
dai romani come una misura preventiva o repressiva nei confronti, non
di una nuova religiosità, ma dell’ostilità antiromana tipica dei
messianisti ebrei, ovverosia dell’ideologia di riscatto etnico e
religioso che voleva restaurare la dinastia davidica sul trono di
Israele e liberare la nazione dal dominio romano. È la forma assunta
nel primo secolo d.C. dal fondamentalismo religioso di stampo Maccabeo
che, duecento anni prima, aveva funestato la Palestina con sanguinose
ribellioni contro il dominio seleucida.


È qualcosa che i romani consideravano estremamente pericoloso;
innanzitutto perché i messianisti ebrei erano caparbi e tenaci; in
secondo luogo perché un eventuale significativo successo
dell’opposizione ebraica all’autorità imperiale avrebbe costituito un
pericoloso esempio da imitare per gli altri popoli sottomessi al
potere romano.

Ora, se osserviamo quanto avveniva allorché i cristiani erano
arrestati nel corso di una azione repressiva da parte delle forze
imperiali romane, dobbiamo constatare che essi non venivano condannati
e giustiziati in quanto tali, o perché seguaci di una fede monoteista
e di una teologia della resurrezione, ecc… La condanna e l’esecuzione
non procedevano prima che fosse stata verificata ufficialmente la loro
disponibilità a riconoscere l’autorità imperiale, ovverosia a
dichiarare pubblicamente che l’imperatore era il loro sovrano e
padrone. In termini esatti l’accusato doveva pronunciare questa frase:
Kaisar Despotes (=Cesare è il mio padrone).


Attraverso questa impostazione inquisitoria era realizzata una precisa
distinzione fra le convinzioni puramente spirituali della persona
sottoposta a indagine e le sue convinzioni nei confronti dell’autorità
imperiale; ovverosia veniva scorporato dal suo atteggiamento religioso
quella che era la componente politica.

La logica romana era questa: “tu credi a tutti gli dei che vuoi, a
tutti i miracoli, le resurrezioni e i prodigi che ti pare… se ammetti
la sovranità dell’imperatore e ti assoggetti all’autorità romana sei
libero… se ti opponi sei un ribelle e, come tale, sarai condannato e
giustiziato”. Ed è logico che fosse così altrimenti, se i romani
fossero stati ostili alle convinzioni spirituali diverse dalla loro,
non avrebbero mai potuto regnare su un impero che comprendeva numerosi
popoli diversi o avrebbero dovuto giustiziare tutti quei sudditi che
non avessero rinnegato la loro religione per seguire quella di Roma.

Altre volte, nella storia di Roma, sono stati presi di mira i fedeli
di altre confessioni. Per esempio, verso il 186 a.C., il senato decise
l’eliminazione dei culti dionisiaci e a Roma morirono i martiri di
Dioniso; verso il 139 a.C. ci fu una espulsione degli astrologi dalla
città; nel 58 a.C. venne effettuato l’abbattimento dei templi di
Iside, a causa delle attività politiche dei fedeli; fu anche messo al
bando il culto gallico dei Druidi. In tutti questi casi l’elemento
scatenante non è stato il fatto che i perseguitati avessero una loro
propria religione diversa da quella romana, bensì che si stimasse
l’esistenza di un elemento turbativo per l’ordine pubblico o per
l’autorità politica.

Ora, se i cristiani, fin dal primo istante, fossero stati coerenti con
l’immagine trasmessa dal Nuovo Testamento, ovverosia pacifici, dediti
alla solidarietà e all’amore per il prossimo, favorevoli a rendere il
tributo a Cesare, disinteressati alla politica e alle ricchezze
materiali, per quale motivo i romani avrebbero dovuto: prima catturare
il loro leader con un agguato teso da una intera coorte (600 soldati);
poi giustiziarlo come un ribelle; poi dare una caccia spietata ai
seguaci; infine bandire questa religione dallo stato e sterminarne i
fedeli? Perché gli scrittori romani avrebbero definito questi presunti
pacifisti come propagatori di una ideologia “funesta”, “malefica”, di
un “male”, persino di “atrocità”, e avrebbero detto che essi “odiavano
il mondo intero”?

La risposta è semplice: perché i romani, specialmente prima e subito
dopo la grande guerra giudaica degli anni 66-70, non conoscevano il
neo-cristianesimo extragiudaico sviluppatosi in ambiente gentile come
reazione agli ideali messianici tradizionali. Invece i romani
conoscevano bene il messianismo ebraico e il suo incrollabile impegno
militante contro l’autorità imperiale, mosso da un fanatismo religioso
che può essere paragonato, oggi, a quello degli esaltati guerriglieri
dell’islam nei confronti di Israele o degli Stati Uniti.

È per questo che, nel 49, l’imperatore Claudio “… cacciò da Roma gli
ebrei che fomentavano disordini su istigazione di Cristo” (Svetonio,
Claudius XXV, 4). È per questo che, nel 64, i cristiani, già
riconosciuti responsabili di azioni sovversive contro l’autorità
imperiale, furono accusati come autori del terribile incendio che
devastò Roma. Ed è improbabile che sia stato Nerone a nascondere la
sua colpa (all’epoca Nerone si trovava ad Anzio) ritorcendola sui
cristiani, ma è forse vero il contrario, ovverosia che in seguito
siano stati i cristiani a ritorcere la colpa su Nerone e a trasmettere
i fatti storici in una forma volutamente falsa.

Naturalmente non voglio affermare che la responsabilità dell’incendio
fosse sicuramente dei cristiani, poiché è anche molto verosimile che
l’incendio sia partito da un fatto semplicemente accidentale, in una
città fatta di innumerevoli baracche di legno e di stracci, piena di
sudiciume e di materiale infiammabile, dove la gente accendeva fuochi
in condizioni tutt’altro che sicure. Ma trovo molto poco verosimile
l’accusa rivolta all’imperatore mentre, al contrario, assai
comprensibile che i messianisti ebrei e i loro amici si siano trovati
al centro di una accusa, seppur sbagliata. Ora, Nerone non ha
perseguitato i cristiani a causa delle loro convinzioni spirituali, e
le motivazioni di carattere religioso non ebbero alcun peso durante la
celebrazione del processo.

Purtroppo, nel corso di tre secoli, si sono verificati svariati
episodi di condanne eseguite nei confronti dei cristiani e in essi si
è evidenziata una situazione straordinaria quanto tragica: pur di non
riconoscere la sovranità di Cesare e di non dichiarare pubblicamente
la sottomissione all’autorità imperiale, molti inquisiti hanno
sopportato la morte ed anche le più orribili torture. Si sono
verificati casi di donne, ed anche di adolescenti, che hanno
affrontato il martirio senza cedere nella loro risoluta posizione. Ma
questo, se vogliamo essere storicamente onesti, non è affatto un
eroismo di invenzione cristiana, bensì l’atteggiamento fondamentalista
degli ebrei esseno-zeloti, più volte testimoniato in letteratura, che
andavano incontro alla morte pur di non accettare l’imperatore come
loro sovrano. Lo abbiamo visto durante la sconfitta di Gamala, quella
di Masada, e in tanti altri episodi.

Anche se in termini quantitativi il fenomeno delle persecuzioni contro
i cristiani è assai meno rilevante di quanto non appaia nella
consuetudine che ce lo rappresenta; la quale vorrebbe farlo sembrare
una specie di olocausto che avrebbe tormentato il mondo cristiano nei
tre secoli che precedono la riforma costantiniana, costringendo i
cristiani a vivere come cospiratori di un complotto segreto. Non è
stato affatto così, gli episodi persecutori significativi sono stati
isolati e di rilevanza numerica tale da non poter scomodare il
concetto di sterminio.

Si osservi a questo proposito cosa scrisse l’imperatore Adriano, in
risposta al governatore d’Asia Minicio Fundano:  “Esigo che degli
innocenti non siano incolpati, e bisogna impedire che i calunniatori
possano esercitare impunemente la loro odiosa azione brigantesca. Se i
sudditi della provincia vogliono accusare del tutto apertamente i
cristiani di una qualche azione criminosa davanti ad un tribunale
ordinario, io non voglio impedir loro di farlo; ma non posso ammettere
in nessun caso che vengano presentate petizioni e vengano organizzate
sollevazioni rumorose. Corrisponde piuttosto al diritto che colui che
avanza un’accusa, indichi esattamente le incolpazioni. Se si dimostra
che l’accusato ha agito contro la legge, dev’essere punito in
proporzione alla gravità della colpa…” (da Giustino Martire, Apol. 1,
6.

Da ciò possiamo dedurre che l’eventuale motivo giuridico per la messa
sotto accusa del cristiano non poteva essere il fatto stesso che
costui fosse considerato tale, ma il fatto che avesse commesso dei
precisi reati contro la legge romana.

La realtà è che le molte e diverse chiese neocristiane (cioè quelle
che avevano preso chiare distanze dal messianismo tradizionale e dallo
stesso ebraismo) hanno potuto espandersi nel bacino mediterraneo, con
comunità di fedeli, diaconi, presbiteri, episcopi; mentre uomini come
Ireneo, Clemente, Tertulliano, Eusebio, scrivevano i loro trattati di
teologia e di storia cristiana. Assai più simile ad un genocidio fu,
nei secoli successivi, la caccia alle eresie e alle streghe, nonché la
persecuzione antisemita effettuata nell’Europa cristiana; persecuzioni
le cui vittime si contano in decine di milioni. Ma questo non è
l’argomento del presente articolo.

In conclusione, soprattutto se facciamo riferimento alle azioni
persecutorie anticristiane avvenute nel primo secolo, dobbiamo
convenire che i romani non erano capaci di distinguere fra il
cristianesimo come religione extragiudaica e il messianismo ebraico,
perché il cristianesimo non aveva ancora maturato una sua identità
teologica indipendente dall’ebraismo. Questa sarà, successivamente, il
risultato conseguente alle gravi sconfitte dell’ideologia messianica,
ovverosia agli esiti disastrosi della prima guerra giudaica nel 70 e
della seconda rivolta nel 135. Allora, e solo allora, il cristianesimo
maturò la sua identità teologica come religione indipendente, a
partire dalle idee antimessianiste che furono propagate da Paolo di
Tarso verso la metà del primo secolo. In pratica le azioni
persecutorie di Claudio, nel 49, di Nerone, nel 64, e poi di Domiziano
(81-96) e di Traiano (98-117), erano ben lungi dall’essere azioni
dirette contro la fede cristiana, nel senso inteso comunemente oggi.

Ne abbiamo una prova evidente da questo scritto di Eusebio:
“… Della famiglia del Signore [Gesù Cristo] rimanevano ancora i nipoti
di Giuda, detto fratello suo secondo la carne, i quali furono
denunciati come appartenenti alla stirpe di Davide. L’evocatus li
condusse davanti a Domiziano Cesare, poiché anch’egli, come Erode,
temeva la venuta del messia…” (Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl. III,
20).

Qui è fin troppo evidente che questi presunti discendenti di Cristo
erano stati perseguitati in relazione ad una ambizione messianica
finalizzata a restaurare la dinastia davidica sul trono di Israele,
ovverosia ad un possibile atteggiamento sovversivo nei confronti
dell’autorità imperiale. A Domiziano delle resurrezioni, delle nascite
verginali, dei riti battesimali e di quelli eucaristici non glie ne
poteva interessare di meno.

Adesso noi vogliamo mettere in evidenza l’affinità che lega il
martirio cristiano con quello messianico, rivelando così una stretta
parentela ideologica.

Se attingiamo alle fonti storiche sugli esseni e sugli zeloti troviamo
brani come questo, di Giuseppe Flavio, in cui si parla degli esseni:
“…furono sottoposti a ogni genere di prove dalla guerra contro i
romani, nella quale furono stirati e contorti, bruciati e fratturati,
fatti passare sotto ogni strumento di tortura, affinché bestemmiassero
il legislatore oppure mangiassero alcunché d’illecito, ma rifiutarono
ambedue le cose: neppure adularono mai i loro tormentatori né mai
piansero. Sorridendo, anzi, tra gli spasimi e trattando ironicamente
coloro che eseguivano le torture, rendevano serenamente lo spirito
come persone che stiano per riceverlo nuovamente. Infatti è ben salda
fra loro l’opinione che i corpi sono corruttibili e instabile la loro
materia, mentre le anime permangono per sempre…” (G. Flavio, Guerra
Giudaica II, 152,155)

I tratti di somiglianza col martirio cristiano sono due: uno è
relativo alla determinazione eroica con cui viene affrontata la morte
piuttosto che sottoporsi all’autorità romana, e l’altro è la
motivazione teologica da cui scaturisce tale fermezza, ovverosia la
fede nella distinzione fra anima eterna e incorruttibile e corpo
temporaneo e deperibile.

Per quanto riguarda gli zeloti noi possiamo ricordare due clamorosi
episodi che rivelano un atteggiamento ideologico e comportamentale
della stessa natura. Uno riguarda il sacrificio degli assediati di
Gamala, e l’altro degli assediati di Masada.

Il primo caso, di cui abbiamo già parlato nell’articolo “Il problema
del titolo Nazareno” si riferisce alla fine tragica della città
Golanita, che dette i natali al famoso Giuda, detto il galileo. Nel 67
d.C. la città era stata assediata da Vespasiano, nel corso delle
operazioni della grande guerra fra ebrei e romani. Quando i legionari
riuscirono, dopo lunghi mesi, ad aprire una breccia e a penetrare
attraverso le mura della città, gli zeloti che la difendevano si
videro perduti e presero una risoluzione in piena corrispondenza con
la natura ideologica della loro fede: affrontare un sacrificio
volontario piuttosto che darsi, vinti, al nemico: “…Allora i più dei
giudei, stretti da ogni parte e disperando di salvarsi, si gettarono
con le mogli e i figli nel precipizio che era stato scavato fino a
grandissima profondità sotto la rocca. Accadde così che la furia dei
romani apparve più blanda della ferocia che i vinti usarono verso sé
stessi; quelli infatti ne uccisero quattromila, mentre più di
cinquemila furono coloro che si precipitarono dall’alto…” (G. Flavio,
Guerra Giudaica IV, 79-80)

Anche qui il tratto fondamentale e caratteristico è l’ideologia
messianica, originatasi dalla convinzione che l’unico sovrano
legittimo di Israele sia il suo stesso Dio: Yahweh. L’ebreo non può
pertanto sottoporsi ad altra autorità, senza con questo commettere un
atto sacrilego che concede ad uno straniero infedele una dignità che
spetta solo a Dio. È la stessa motivazione che, in altri momenti, ha
spinto i seguaci della setta di Giuda a rifiutare il pagamento del
tributo a Cesare e a considerare infedeli tutti gli ebrei che non
erano disposti a ribellarsi contro questa imposizione. Fu con questa
causa che ebbe inizio la celebre rivolta del censimento del 7 d.C., in
cui perse la vita lo stesso Giuda, e durante la quale l’evangelista
Luca pone la nascita di Gesù.

Il secondo caso si riferisce alla caduta della fortezza di Masada, nei
pressi della riva occidentale del Mar Morto, una cinquantina di km a
sud di Qumran, in cui gli esseno-zeloti si erano asserragliati dopo la
fine della guerra (70 d.C.), nel tentativo di continuare una
resistenza a oltranza. Qui essi furono comandati da un certo Lazzaro,
figlio di Giairo, legato alla famiglia di Giuda da vincoli di
parentela. I romani dovettero affrontare un assedio lunghissimo, in un
ambiente molto più inospitale di quello golanita. Dopo ben tre anni di
assedio, superando i 50 gradi di temperatura delle giornate estive in
questo torrido deserto, i romani edificarono un colossale terrapieno
che consentì loro di arrampicarsi fino alla sommità del monte e di
raggiungere la fortezza. Consapevoli dell’imminente inevitabile
sconfitta gli assediati furono presi dallo sgomento.

Allora fu proprio Lazzaro che riuscì a ricompattare lo spirito dei
suoi uomini, pronunciando un discorso che sembra un trattato di
teologia esoterica orientale sull’anima e sul suo stato di prigionia
nei vincoli della carne, nonché sulla liberazione che consegue alla
morte. In pratica, ancora una volta gli esseno-zeloti presero la
risoluzione di non concedersi al nemico e di non subordinarsi alla sua
autorità. In un certo qual modo essi hanno conseguito la loro
vittoria, rimanendo indomiti nella sudditanza all’unico vero sovrano
che essi erano disposti ad accettare. Furono circa novecentosessanta
che si dettero reciprocamente la morte, col filo della spada, e quando
finalmente i romani varcarono il ciglio ed entrarono nella fortezza,
non vi trovarono che una distesa di cadaveri. Tutte le vettovaglie e
tutto il resto era stato lasciato intonso, affinché i romani sapessero
che gli ebrei non erano morti per l’esaurimento delle loro scorte, ma
solo per una lucida decisione. Quella di non essere sconfitti e di
avere avuto un solo padrone per tutta la vita: Yahweh. Cesare non
sarebbe mai stato il loro signore.

Fu l’eco di questa irremovibilità zelotica che spinse i romani, nei
decenni successivi, ad adottare il test di subordinazione
all’imperatore: costringere l’inquisito a rilasciare la dichiarazione
pubblica “Cesare è il mio padrone”, da cui sarebbe derivata, poi,
l’assoluzione o la condanna.

E se noi vogliamo continuare a credere che i cristiani siano stati
perseguitati, nonostante la presunta totale apoliticità di loro stessi
e del loro leader, semplicemente perché amavano nascondersi nelle
catacombe a pregare e a celebrare il rito eucaristico, in quanto
questo avrebbe dato un enorme fastidio alla civiltà di Roma, possiamo
farlo ma il nostro senso storico sarà simile a quello di chi vede
nelle piramidi egiziane gli hangar degli extraterrestri.