Calcata - Quel tempo delle chiavi appese fuori casa...

Quel tempo delle chiavi appese fuori casa.. non è poi così lontano per me… e l’ho vissuto per davvero nei primi anni in cui andai ad abitare a Calcata... ed anche negli ultimi. Infatti all’inizio della mia permanenza nel borgo era normale che i paesani lasciassero le chiavi sulla toppa, per facilitare le entrate e le uscite. Così pure nell’ultimo periodo in cui abitavo in una casarsa sulla rupe che non aveva nemmeno la serratura interna trovavo normale di poter entrare ed uscire come se l’ingresso di casa fosse una porta interna. Ed interna lo era, per me, fra la natura e la casa c’era poca differenza (chiedete a Caterina e ve lo confermerà). P.D’A.



Carissima Caterina e Paolo, bellissima la storiella della Gallina D’Arpini (http://riciclaggiodellamemoria.blogspot.it/2014/06/storia-della-signorina-gallina-darpini.html) ma c’è chi vuol vivere così, col sole in fronte…………….
Voglio vivere così – col sole in fronte – e felice canto – beatamente… (https://www.youtube.com/watch?v=5YMTPXTfUNQ)
Una canzone forse dimenticata, scritta da un Autore sconosciuto, probabilmente Argentino o Napoletano, lanciata da Ferruccio Tagliavini 1913/1995, un Emiliano con la voce tenorile di successo mondiale, che ci accompagnò negli anni in cui potevamo lasciare le chiavi di casa appese alla porta o la vettura in moto, quando ci si fermava davanti al Bar per un caffè senza antifurti e senza il pericolo che ti fosse portata via da ladri, da Vigilantes o dai Gerarchi di allora buoni a nulla e mantenuti per legge, che il nostro grande e indimenticabile Totò De Curtis, definiva come un unica famiglia. Oltre ai Politici, anche Generali, Colonnelli e teste di legno in rappresentanza delle varie armi, arrestati per eccessiva onestà in difesa del Paese.
Una volta li impiccavano, oggi invece li promuovono con incarichi superiori, dando vita a rivendicazioni e al male che avanza e impera.
In seguito, per nostra grande fortuna arrivò la “Democrazia”, la salvezza, come la manna caduta dal Cielo, ma che dico, molto di più, una ciambella di salvataggio sorretta da migliaia di impoltroniti aggiuntivi, che il capo Oste dal pensiero profondo definisce come un attraente fiasco colmo di acqua colorata, dopo aver provato per diversi anni il vino rancido che per farlo apparire di qualità convincente, basta scrivere sull’etichetta dorata in caratteri markati: “Democrazia”, Democrazia di guerra, Democrazia Comunista, Democrazia Cristiana, Democrazia Repubblicana, Liberale, Socialista, Divina, ecc., diffondendo l’ideale di una giustizia uguale per tutti, governata dal Popolo Sovrano, con l’occhio di Dio sempre attento e vigile sui mascalzoni in difesa degli afflitti, mentre nella realtà più evidente, ingrassa le Cosche e le Toghe riunite in Partiti sempre più numerosi e spezzettati ai danni del Paese.
Democrazia, gialla verde azzurra rossa o bianca come la purezza dello spirito, con infinite ideologie stravolgenti da mercato degli affari personali o di Gruppo, che per alcuni rappresenta una medicina per ingrassare, e per altri l’occasione della vita, mettendo da parte la coscienza e presentarla come un nettare per l’incanto, in sostanza una essenza indemoniata per rimbecillire l’umanità, che si sviluppò a livello mondiale con la pretesa di dare più gusto ai piatti nel menù del Banditismo Politico, della grave corruzione, della speculazione di massa, dello schiavismo, delle Filosofie Spirituali per arricchirsi, e delle continue guerre per imporsi universalmente come gli Angeli del Creato.
Un uomo saggio il cui nome si è perso nel tempo, forse Talete di Mileto, che attribuiva la nascita della filosofia nel senso più ampio dell’immaginazione umana alle antiche civiltà Asiatiche, Mesopotamiche ed Egiziane, vissute parecchi millenni prima della nascita del Messia, che per ultimo sugli insegnamenti di civiltà sane precedenti, scaturisce nell’irrefrenabile divagazione del pensiero nel produrre divinità inesistenti sotto forma di Religioni, dove già agli albori della meditazione sostenevano che è meglio un Diavolo onesto piuttosto che una Divinità inventata per scopi di interesse.
Con il passare del tempo abbiamo avuto modo di accertare queste parole presentate su un piatto d’argento, sino a impersonare Dio, Santi e Miracoli attraverso varie Religioni di comodo e di interessi, con scopi ben diversi dalla realtà, dall’amore e dalla Fratellanza.
Un mondo manipolato da scaltri vermi dalle sembianze umane con mille piedi e mille braccia da allungare secondo le circostanze, che per ragioni di gloria e di arrivismi di interessi momentanei sfidano la pace nel Pianeta, costituendo la Società denominata: “I Mercenari delle parole e della Morte” dove da una parte il Potere criminale impunito uccide e dall’altra i becchini raccolgono creando considerevoli introiti per l’Organizzazione indemoniata.
Voglio vivere così non è soltanto una canzone, ma rappresenta anche un portale per la ricerca di un lavoro all’estero, per non morire di illusioni e di speranze per i giovani in un Paese senza possibilità di ripresa.
Anthony Ceresa

Simbolismo de "La bella e la bestia" - Recensione



"La bella e la bestia". La fiaba di Perrault è troppo nota per riassumerla qui. Basti dire però che il suo simbolismo è ricco di significati.
Pur non essendo il principale il primo è quello della "trasgressione vegetale" (quando il padre di Bella, ospite nel maniero misterioso, coglie una rosa dal giardino senza permesso, suscitando le ire della Bestia). Esso riprende il motivo mitologico alla base dello "strappo" dell'uomo dalla condizione paradisiaca originale: naturalmente il primo che viene alla mente è quello di Adamo ed Eva, che cogliendo il frutto "proibito" dell'Eden ne vennero cacciati. 

Ma il tema è presente anche nel mito greco di Persefone, la vergine (e questo è importante, perché connota l'innocenza originaria) che cogliendo un narciso aprì una voragine da cui Ades,il dio degli inferi, uscì per rapirla e farla sua sposa, dopodichè ella fu consegnata a vivere negli inferi. Ma anche in quello sumerico di Gilgamesh, che, avendo trovato la pianta dell'immortalità, se la vede mangiare da un serpente, dovendo rimanere così mortale. In tutti questi miti c'è una "soglia" che non è permesso all'uomo varcare, pena la morte (dello spirito,simbolicamente). Tutto ciò simbolico della "discesa" dello spirito umano nel mondo manifesto e del suo tentativo di riguadagnare una posizione perduta, ma non nel modo dovuto.

Ma il tema di gran lunga più importante è quello che vede la figura femminile nel ruolo di "iniziatrice", ricalcando,ancora una volta, l'importanza della donna in veste di "potenza" dell'anima, della vista "oltre la vista":poichè ella non si ferma alle apparenze,e pur non sapendolo,intuisce che dietro quell'aspetto mostruoso c'è un bellissimo principe, occultato dallo spesso strato dell'inconsapevolezza: dunque lei, che rappresenta la coscienza umana pienamente risvegliata e "potenziata" dall'amore (cioè dalla massima posizione di armonia con il cosmo) impegna tutta se stessa per far ritornare l'uomo bruto, stordito dall' '"incantesimo" malvagio o ipnosi della materialità, alla sua condizione originale di nobiltà e bellezza. 

C'è da dire che spesso nell'antichità, e presso alcuni popoli -come i celti- la donna era deputata a "sgrossare" le rozzezze maschili e a fare di un "nano" deforme un guerriero dello spirito.

E' un tema, quello dell'iniziazione da parte femminile, che vediamo presente anche nell'Odissea, grande epopea simbolica del vero "ritorno" a casa, all'autentica patria interiore, alla consapevolezza di sé, o meglio della riaquisizione della propria identità superiore, il "ricordo" di sé: l'anamnesi di cui parlava Pitagora. Nel poema omerico vediamo Odisseo che viene preparato gradualmente al ripossesso di sé da tre donne, che simboleggiano naturalmente la coscienza corporea (Circe) quella animica o psichica (Calipso) e quella spirituale (Nausicaa). Gli amori di Odisseo con ognuna di queste tre donne infatti vanno dal piano unicamente sessuale-corporeo (Circe) a quello sentimentale-emotivo (Calipso) a quello spirituale (Nausicaa) e infatti con quest'ultima non avviene un contatto carnale, ma c'è uno scambio altissimo a livello sottile. 


Al suo ritorno in patria, dopo essere stato così preparato dal lavoro su di sé, c'è ancora un'altra donna: Penelope, la moglie che lo aspettava da anni, ed era sempre stata là, presente in lui ma latente. La finale ricongiunzione con la polarità opposta, il ritorno all'androginia originale. Il serpente che si mode la coda.

Simon Smeraldo

Amma Anasuya Devi di Jillellamudi, la mia madre spirituale - Qui racconto il mio primo incontro con lei



Due notti  fa ho sognato Amma, la mia madre spirituale, che parlava in italiano con me e mi comunicava qualche messaggio importante. Lei veramente non l'ha mai parlato e nemmeno l'inglese, comunicava soltanto con il cuore. Malgrado queste cose non succedano per caso non collegai il sogno con la data del 12 giugno, che era il giorno in cui Amma Anasuya Devi ha lasciato il corpo. Accadde il 12 giugno del 1985 a Jillellamudi, il villaggio in cui era vissuta gran parte della sua vita. Quell'anno fino a pochi giorni prima della sua dipartita ero anch'io lì con lei. Ci fu una grande celebrazione, quasi in anticipo/premonizione del suo Maha Samadhi, che durò un intero mese, con continui canti ininterrotti, recite sacre, bandhara ed altri importanti eventi. Quelli furono momenti veramente pieni di Grazia. Ricordo che mi trovavo a galleggiare senza nemmeno avere più la cognizione del giorno o della notte.. Forse sognavo, non so... Tutte le sere con Upahar, James, Terry, Susan ed altri compagni cantavamo per ore, alcuni suonavano l'harmonium o la chitarra, io i tamburelli od i cembali. Certe notti stavamo a cantare senza accorgercene per ore.... Poi improvvisamente tutto finì. Mi resi conto che qualcosa stava per succedere ma non ebbi il coraggio di assistere all'atto finale. Mi congedai da Amma e tornai in Italia. Dopo pochi giorni ricevetti un telegramma di James, un inglese residente stabilmente a Jillellamudi, in cui mi diceva che.... (…). Beh, voglio ricordare Amma da “viva”, anzi voglio ricordarla come non l'ho mai "conosciuta"...

Il mio viaggio verso Jillellamudi


“Preoccuparsi è un insulto alla vita” afferma Carla Lonzi e potrebbe essere anche il motto a Jillelamudi, alla presenza della Madre Anasuya. 

Qui le necessità son viste per quello che sono, semplici pulsioni, segnali di un fluire in un tutto unito, in cui ogni cosa legata all’altra indissolubilmente è sempre soddisfatta. “Dal Tutto sorge il Tutto, se dal Tutto togli il Tutto, solo il Tutto rimane” questa la Dichiarazione dei Rishi. Si sta in un nido di protezione e benevolenza come essere accuditi dalla propria madre. E’ talmente semplice, non ci si angustia minimamente per alcunché, non appaiono desideri di sorta, non c’è nulla da voler cambiare, da ottenere (oltre ciò che è).

Tutto ha un senso inequivocabile ed allo stesso tempo non si percepisce alcuna finalità. Semplicemente il vivere, forse potrei dire ‘sopravvivere malgrado se stessi’. Succede spontaneamente. Ma come mai si sente così compiutamente qui a Jillellamudi? Perché non ovunque noi siamo? Con questo interrogativo in mente ho continuato a fare la spola fra il ‘qui ed ora’ e ‘il qui ed ora’.

Ed eccomi… Nel sud dell’India, dove la piattezza è assoluta, nella terra dei Telgu, dove la cosa più alta sono i bordi dei canali e l’orizzonte non ha contrasti, un villaggio rurale di fango secco, si chiama Jillellamudi. Prende il nome da un fiore asciutto ed alto, il cui fusto raggiunge i due metri, che assomiglia al tasso barbasso ma il colore dei fiori è viola o blu come la malva. In questo villaggetto di capanne e poche case di mattoni crudi c’è la “Casa di tutti” una struttura relativamente grande, dalla cui terrazza si può spaziare con lo sguardo a perdita d’occhio, senza vedere altro che campi e campi e qualche rado albero in mezzo alle risaie. Qui risiedeva il corpo mortale e qui è sepolta Anasuya Devi, amma, la madre di tutti. Ma per capire come accadde che finii in quella specie di ‘cul de sac’ o ‘sacred abode’, in quel rifugio totale dell’anima, debbo ripartire da Ikaria, dalla caduta della saccenza, e da lì seguire il percorso dei sufi sino al Deccan Plateau.

Scrive Omar Kayam, santo poeta persiano: “Non vietatemi di bere vino, di godere le donne, perché Dio è compassione. Non ditemi che sto peccando, lasciatemi peccare a volontà. Porre fine alle proprie azioni per paura della punizione è da miscredenti, significa dubitare della Sua compassione”.

Leslie, una giovane donna inglese che avevo conosciuta in India, per un caso del destino abitava a Roma vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo il mio ritorno in Italia ed abbandonata Verona (la città in cui avevo vissuto il mio fermento culturale durante gli anni appassionanti della giovinezza) me la ritrovai come vicina allorché ritornai a Roma, città in cui ero nato. Avvenne quando andai ad abitare in una vecchia casa nei pressi di Piazza Vittorio. Tra la mansarda di Leslie e lo “Sri Gurudev Mandir”, come allora chiamavo il luogo in cui vivevo, c’era meno di un chilometro, per chi conosce la grandezza di Roma comprenderà che eravamo praticamente a due passi. Entrambi eravamo stati benedetti da Muktananda, il Guru, praticavamo la stessa via, lei viveva semplicemente facendo traduzioni ed io sbarcavo il lunario prestando piccoli servizi e facendo le pulizie in casa di amici e conoscenti.

La mia giornata era molto stretta, un perfetto orologio di disciplina e pratica spirituale, sveglia al mattino prima dell’alba, meditazione, canti, letture edificanti, passeggiate a piedi nei giardini di Roma, accudimento ed istruzione di altri cercatori di passaggio, sopravvivenza personale con 500 lire al giorno (eravamo nel 1974). In quella casa di Via Emanuele Filiberto 29 passarono e vissero con me parecchi “santi”, ricercatori e discepoli di maestri famosi, ed anch’io mi sentivo praticamente un santo, con poco o nulla sulla pelle del vecchio Max D’Arpini, artista concettuale e poeta trasgressivo. Ora praticavo l’astinenza sessuale (il contrario di quello che facevo a Verona dove ero famoso per la promiscuità), ero diventato vegetariano stretto (quando prima le feste orgiastiche a base di carne e vino erano uno dei miei passatempi), vivevo praticamente in assoluta povertà monastica, senza elettricità, né acqua corrente in casa (lavavo i miei panni al lavatoio condominiale), scevro da ogni vizio, confort o frivolezza, ero “buono e compassionevole”. Soprattutto ero fiero della mia capacità di controllare i sensi, nessuna donna era più riuscita a coinvolgermi, qualsiasi fosse il suo fascino e bellezza, persino nel sogno avevo raggiunto la capacità di impedire ogni eiaculazione notturna, ero un perfetto Bramachari. In questa ottica Leslie era per me come una sorellina alla quale dimostrare qualche affetto, nulla di più, anche se ero consapevole, con il passare del tempo e frequentandola sempre più spesso, che lei dimostrava una spiccata simpatia e debolezza nei mie confronti, consideravo però la cosa con distacco e con un sorriso sulle labbra… (mica tutti potevano raggiungere il mio livello di autocontrollo...).

Leslie mi parlava spesso di una santa che aveva conosciuta nel sud dell’India, una certa Anasuya (che vuol dire aldilà della gelosia), viveva in un remoto villaggio dell’Andra Pradesh, a Jillelamudi, era sposata e madre e forse anche nonna, una manifestazione dell’amore universale, “Amma” (mamma). Leslie mi mostrava di tanto in tanto dei giornaletti stampati crudamente che riceveva da quella che era chiamata la “Casa di Tutti”. Io li guardavo con un po’ di sufficienza e li leggiucchiavo senza molto interesse, di tanto in tanto mi soffermavo su qualche immagine della santa Madre, un bel viso tondo, pulito ed onesto, un po’ sorridente ed ammiccante, come la Monna Lisa. Passò ancora del tempo e tutto sembrava indicare per me una strada di rinuncia, santità ed apprendimento, ero preso dai miei doveri verso i compagni poco illuminati, fornivo un esempio di disciplina spirituale ed ero circondato da gente che mi rispettava e mi vedeva -forse- come un possibile futuro maestro. 

Accettavo il bello ed il cattivo tempo sapendo che la Grazia del Guru era con me. Non mi ero più mosso da un paio d’anni, ma di tanto in tanto partecipavo a qualche convention importante (come ad esempio il primo festival dello Yoga che si tenne a Milano organizzato da Carlo Patrian e da Giorgio Furlan), ero il rappresentante più qualificato del Siddha Yoga in Italia, od almeno così ritenevo.

Leslie ad un certo punto mi parlò della sua intenzione di tornare in India per visitare Amma a Jillellamudi, intendeva viaggiare via terra seguendo l’antica rotta carovaniera, mi chiese quietamente se volessi accompagnarla. 

Meditai sulla cosa a lungo, in fondo per me che ero rimasto orfano di madre quando ero un bambino di 10 anni, l’idea di un incontro con la Madre Universale era attraente, ricordavo inoltre qualcosa che Amma aveva detto di se stessa, su uno di quei giornaletti: “Chi sei tu? – “io sono la madre” – “la madre di chi?” – “di tutti” – “ma come ti percepisci?” – “io sono me stessa, quell’io che è diventato ogni io, madre non significa solo questa che siede sul letto a Jillelamudi. Madre significa quella che non ha inizio né fine, che è l’inizio e la fine, quella che è divenuto ogni cosa e che è l’incomprensibile, l’illimitata ed irresistibile base”. Decisi infine di partire con Leslie, cominciai a raggranellare il denaro per il viaggio e per l’eventuale permanenza che non sapevo quanto sarebbe durata. Le cose stranamente andavano bene, non so come riuscii a mettere assieme mille o duemila dollari, accettando anche commesse per eventuali oggetti che avrei riportato dall’India (sitar, mrdanga, cembali, incensi ed altro materiale sacro). La prospettiva del viaggio mi rinvigoriva e mi rendeva più attivo, ovviamente non trascuravo la mia disciplina autoimposta ed i miei ‘doveri’ anch’essi autoimposti.

Il tragitto iniziale prevedeva l’imbarco da Ancona sino in Grecia, permanenza in un’isola vicino alla Turchia, per meditare e prepararsi al lungo viaggio… L’isola in questione si chiama Ikaria, fuori dalle rotte turistiche e richiedeva due traghetti per arrivarci, è l’isola mitologica sulla quale precipitò Icaro, dopo la sua malaugurata ascesa al cielo. Era la fine di settembre, il posto paradisiaco, l’accoglienza ricevuta invitante ed ospitale, mare limpido, terme calde e curative, aspri paesaggi, buon formaggio di capra e verdure fresche. Vivevo con Leslie in un appartamento che ci era stato offerto da amici incontrati sull’isola, letti separati ovviamente, ma stavamo sempre assieme andavamo in giro per monasteri e montagne, oziavamo al sole caldo e piacevole, la stagione era propizia. Una notte, dopo circa due settimane di questa vita beata, feci un sogno tremendo, mi sentivo avvampare dal desiderio sessuale, tutto era un inferno di desiderio irrefrenabile, mi svegliai di soprassalto, com’ero abituato a fare per controllare i miei sogni, ma la sensazione non mi abbandonava, andai a mettermi sotto la doccia sperando che l’acqua fredda calmasse i bollenti spiriti, mi sentii un po’ rinfrancato ma allo stesso tempo ancora più “pronto”. 

Pregavo Dio ed i santi di aiutarmi a controllare me stesso, tornai nella stanza, era ancora notte fonda, Leslie era nel suo letto, senza emettere suoni, tutto era silenzio ma non nella mia mente, impossibile resistere, ad un certo punto mi sentii letteralmente sollevato e mi vidi avvicinarmi al letto di Leslie, mi infilai dentro, lei mi chiese “cosa fai?” ed io “ho freddo”, mi fece spazio e mi abbracciò, facemmo l’amore senza sosta, con foga, con passione e violenza e tenerezza, anche dopo averlo fatto una, due, tre volte il desiderio non scemava. Insomma una debacle, totale….(dal mio punto di vista).

Andò così anche nei giorni successivi, quando camminavamo in montagna le saltavo addosso, cercavo una grotta e facevo l’amore con lei in piedi od in qualsiasi altro modo. Inutile dire che la mia autostima, come santo, era scesa a livelli inaccettabili, mi vedevo, novello Icaro, precipitato nell’abisso dei sensi. Solo molto più tardi scoprii che l’esperienza mi era necessaria per perdere la mia arroganza del raggiungimento che mi avrebbe impedito di accettare e sentirmi accettato dalla Madre. 

Allora, però, sentivo di dover espiare e ritrovare la mia purezza, parlai con Leslie di questo, lei piangeva e mi guardava implorante, le dissi che non potevo più viaggiare con lei, che ritornasse indietro se non voleva affrontare il viaggio da sola o che prendesse un aereo, io avrei proseguito sulla strada dell’espiazione da solo e sarei comunque andato da Anasuya, forse a farmi perdonare i miei peccati od a cercare di capire come tutto ciò fosse potuto accadere. Leslie, sperava che cambiassi idea e mi accompagnò sino alla costa turca, ad Efeso, su un piccolo aliscafo che faceva servizio in quel breve tratto di mare che separa l’Europa dall’Asia. Durante il tragitto non parlammo mai, appena sbarcati la salutai senza quasi guardarla in faccia e mi allontanai subito sul primo bus che mi capitò di incontrare. Ma questa non è l’occasione per continuare a parlare di questo periglioso viaggio, di tutte le esperienze vissute e le sensazioni percepite, sarebbe interessante farlo magari in un’altra storia.

Alla fine giunsi davanti alla Madre, che altro dire o fare? Ero stato accolto ed io stesso accoglievo.

Paolo D'Arpini