La crescita non materiale... bioregionale


Foto di Gustavo Piccinini

Eduardo Zarelli  è uno dei fautori nella costituzione della Rete Bioregionale Italiana. Nel 1996, più o meno verso la fine di aprile o primi di  di maggio (la memoria non mi aiuta), durante un incontro tenuto nel Parco Regionale di Monte Rufeno ad Acquapendente (Vt),  l’apporto d’idee alla compilazione della Carta degli Intenti della Rete, da parte di Zarelli, fu sostanziale. Egli era già un esponente di spicco del filone teorico filosofico dell’ecologia sociale  in  un percorso di riavvicinamento o ritorno alla natura. Sento, oggi più che mai,  che l'attuazione bioregionale sarebbe necessaria per garantire la continuità della civiltà umana... per non parlare della sua sopravvivenza “bruta” (anche in considerazione dell’alienazione sempre più forte con i cicli naturali e dell’avvelenamento dell’habitat). 

E di questo parleremo anche durante l'imminente Festa dei Precursori: -https://circolovegetarianotreia.wordpress.com/2015/02/14/treia-festa-dei-precursori-31a-edizione-25-e-26-aprile-2015-presentazione/

Ed anche al prossimo Incontro Collettivo ecologista: http://bioregionalismo-treia.blogspot.it/2014/11/montecorone-preparazione-degli-eventi.html



Qui di seguito la seconda parte di un saggio scritto da Edoardo Zarelli dal titolo: “Critica della ragione mercantile – 2” – La prima parte è pubblicata su:
http://bioregionalismo-treia.blogspot.com/2011/05/bioregionalismo-ante-litteram-da-alain.html

Paolo D’Arpini

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Testo:

L’idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento delle condizioni di tutti i popoli della Terra, è stata introdotta ufficialmente nel mondo dal discorso d’insediamento del presidente statunitense Truman, il 20 gennaio 1949. Fu lui, al comando della più imponente potenza economica mai apparsa sul nostro Pianeta, a parlare per la prima volta di sviluppo come gioco globale a “somma positiva” e in quel preciso istante tre miliardi di abitanti della Terra diventarono di colpo “sottosviluppati”.

Decenni dopo, la civiltà occidentale è ancora fondata su quell’assunzione, ma le condizioni oggettive in cui si trova il nostro Pianeta ne hanno già da tempo segnalato il fallimento. La fede nel progresso e nella tecnologia supporta il culto dello “sviluppo” e gli economisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova religione positiva e razionale che accompagna l’espansione senza precedenti dell’Occidente. Il potere di autorigenerazione della natura è stato rimosso, distrutto a beneficio di quello del capitale e della tecnica. La natura è stata ridotta a un serbatoio di materia inerte, ad una pattumiera.

La globalizzazione sta completando l’opera di distruzione dell’oikos planetario; infatti, la concorrenza spinge i Paesi industrializzati a manipolare la natura in modo incontrollato e i Paesi in “via di sviluppo”, stretti nella morsa debitoria, a esaurire le risorse non rinnovabili.

Con lo smantellamento delle regolamentazioni delle sovranità politiche, non c’è più un limite all’abbassamento dei costi in un gioco al massacro tra i popoli e a detrimento della natura che li sostiene. Nell’agricoltura, l’uso intensivo di concimi chimici e di pesticidi, l’irrigazione sistematica, il ricorso agli organismi geneticamente modificati hanno per conseguenza l’impoverimento dei suoli, il prosciugamento e l’avvelenamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti indesiderabili, il rischio di devastazioni microbiche. Tutti i Paesi sono coinvolti in questa spirale suicida, ma nel Terzo Mondo, essendo in gioco la sopravvivenza biologica immediata, la riproduzione degli ecosistemi è completamente sacrificata. In pratica, ciò che è comunemente inteso dalle economie occidentali come “sviluppo” è un’ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Due motivi di questo fallimento sono facili da intendere e riassuntivi della contraddizione del termine: l’insostenibilità sociale e quella ambientale.

L’emergenza sociale è rappresentata dal cumulo di violenza compressa che sta montando nel mondo, spesso riconducibile alla reazione degli indigenti prodotti dall’occidentalizzazione del mondo, che, con un processo ineludibile, prima li cattura e poi li esclude; quella ambientale è determinata dalla limitatezza delle risorse della Terra oggi egemonizzate da un 20% scarso dell’umanità. Se, per una sorta di miracolo, si riuscisse ad annullare la prima emergenza, cioè il libero mercato planetario riuscisse a distribuire a tutti gli abitanti della Terra l’accesso ai consumi, immediatamente la seconda emergenza si farebbe terminale e apocalittica. Lo sviluppo economico continuo è un fenomeno impossibile sulla Terra, perché incompatibile con il suo funzionamento.

L’unico “sviluppo” che consente la vita della biosfera è un processo completamente non-materiale, qualcosa che significhi l’evolversi di cultura, arte, spiritualità.

Qual è quindi il destino del concetto stesso di “sviluppo”?
- Lo sviluppo economico prosegue ad oltranza: in tal caso si arriva ad un mondo totalmente degradato, con gli ecosistemi naturali scomparsi, migliaia di specie estinte o degenerate, le foreste distrutte, l’atmosfera irrespirabile, fino a manifestazioni macroscopiche di impossibilità di vita nell’illusione che la tecnica possa rimediare a ciò che si è irrimediabilmente perso;
- Lo sviluppo economico prosegue fino a un punto “di collasso”, dopo il quale si ha la rinascita di culture umane con valori diversi da quelli attuali;
- Lo sviluppo economico si arresta gradualmente per la progressiva sostituzione della mentalità sensistica che ne costituisce il fondamento: il materialismo.

L’ipotesi più pessimista sembra la prima, quella più probabile la seconda; resta la volontà culturale per contribuire al verificarsi della terza.
L’impossibilità di analizzare le contraddizioni dei nostri tempi sulla base delle logore categorie di destra e sinistra, obbliga trasversalmente a rilanciare un’ipotesi altra, in controtendenza, alle ricette sviluppiste che contraddistinguono entrambe gli schieramenti.

In tal senso, la decrescita è un appello sull’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati. Un’inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l’attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con gli equilibri omeostatici della natura. Esso porta con sé, sulla scia dell’occidentalizzazione, perdita di autonomia, alienazione, nichilismo pragmatista, aumento delle disuguaglianze sociali e dell’insicurezza personale e collettiva. La decrescita non è una ricetta ma un segnale di controtendenza, un segnavia per intraprendere un sentiero diverso. Un percorso che ci conduca verso un nuovo immaginario, un paradigma alternativo, un’originale prospettiva metapolitica. È l’orizzonte di un’altra economia: giusta e sostenibile, cioè comunitaria. È il sostrato materiale di un principio universale di giustizia internazionale: l’autodeterminazione dei popoli.

Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre per le fonti energetiche, cui seguiranno quelle per l’acqua. La società della crescita non può essere sostenibile, perché si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell’impatto ambientale del nostro stile di vita l’”impronta” ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell’equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.

La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché dispensa un benessere materialistico illusorio; perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie e perché non offre un tipo di vita filosoficamente o religiosamente giusta, conviviale e comunitaria.

È un’”antisocietà” malata della propria ricchezza, egoismo, utilitarismo. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi “sviluppati” è un’illusione come ci ricorda Serge Latouche.

Indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare i costi che il consumismo fa ricadere sulla natura e la collettività. Il criterio stesso di “qualità della vita” è oramai ostaggio del nichilismo individualista che affoga nell’inautenticità della mercificazione universale, disponendo come essenziale per una fattiva controtendenza il reincantamento del mondo su principi certi inerenti alla sacralità del vivente e l’irriducibilità della condizione esistenziale dell’uomo come parte consapevole del cosmo.
Per concepire e realizzare una società di decrescita bisogna letteralmente uscire dall’economia ed il suo immaginario pragmatico e utilitarista. Ribaltare le gerarchie imposte dall’egemonia utilitaristica su tutti gli ambiti della vita, riponendo l’economia a sostenere la comunità più che distruggerla.

Un primo passo per una teoria della decrescita è segnato da una pratica “rilocalizzazione” dell’economia. Lo scambio deve riguardare la reciprocità dell’indispensabile, cioè dei prodotti specifici dei luoghi e delle culture, l’inverso della delocalizzazione anonima dei prodotti specializzati della tecnica.

In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici che si insinuano a livello cellulare fino al fondamento stesso del vivente.

In questo orizzonte l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (territoriali, cioè ambientali e quindi produttive e sostenibili) e su reti di scambio complementari e reciprocitarie piuttosto che gerarchiche fra entità locali.

Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo.

L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di lei, dunque, responsabile e consapevole. Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: la sacralità della vivente sulla mercificazione; l’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo; la reciprocità comunitaria sulla competizione; il piacere ludico e relazionale sull’ossessione del lavoro; l’importanza della vita sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero sull’efficientismo pragmatico. Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, poiché suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare.

Certo, la scelta di un’etica personale diversa, come quella della sobrietà volontaria, può incidere sull’attuale tendenza e minare alla base l’immaginario del sistema. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato al piano della coscienza individuale. Un nuovo paradigma ha la necessità di persuadere dell’indispensabilità del mutamento epocale sul piano generale, culturale e sociale.

Abbiamo un’unica certezza tragica in un’epoca di transizione; la scelta di rendersi spettatori passivi o attori coscienti dipende solo dalla forza di volontà degli uomini, indipendentemente dal destino delle cose ed i suoi esiti ultimi.

Eduardo Zarelli


Olismo, saggezza e conoscenza



“….la scienza, che per definizione non può essere dogmatica, rischia di diventarlo quando nega il carattere fuzzy sfumato e controverso di molte delle sue conclusioni. Nuove malattie create dalla diagnostica medica, prolungamento artificiale della vita e della morte, potenzialità delle staminali embrionali o adulte, cambiamento climatico, sostanze cancerogene, ogm: su questi e altri temi si fronteggiano modelli interpretativi e temi di pensiero rivali, e i dogmi  servono solo a mascherare l’incertezza (1)

“Tra le cosiddette scienze esatte la medicina è quella che meno merita questo nome…teoricamente è la più benefica e pure, nello stesso tempo, nessun’altra scuola di scienza esibisce tanti esempi di meschini pregiudizi, materialismo, ateismo e maliziosa caparbietà” (2)

Se i dogmi servono solo a mascherare l’incertezza ne consegue la difficoltà di redigere protocolli diversi nonostante l’esigenza sollecitata dall’art. 32 della Costituzione italiana da Voi richiamato che recita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

 Si continua a voler considerare “scientifiche” diagnostiche e cure dogmatiche che non tengono in nessuna considerazione l’aspetto psico-fisico umano ( che è unico ed irripetibile) ma, paradossalmente, si richiede sottoscrizione di piena responsabilità allorché si tratta di interventi chirurgici complessi e di cure varie. Per scegliere occorre conoscere. E’ facile affermare “conosci te stesso” ma, nonostante l’attuale enorme mole di informazioni circa le scienze umane, il percorso rimane difficile come ai tempi di Socrate.

Alcuni giornalisti-ricercatori ritengono che la causa di tutta questa confusione sia dovuta alla mancanza di responsabilità di ciascuno. Riscontrano che solo un lavoro informativo “orizzontale” potrà cambiare lo stato attuale.


Anche Aristotele riteneva che se non si trovavano risposte nella ragione e nella religione (forse perché allora come oggi separate) non rimaneva che ritenere giusta l’opinione della gente semplice..
Autorevoli esponenti della cultura attuale, invece, concordano con Cartesio allorchè affermava che se scienza.-teologia-filosofia scendono in piazza si sviliscono, dimenticandosi però che lo stesso Cartesio affermò anche che, a volte, alla scienza dei libri sia da preferirsi il buon senso. Il buon senso, come scrisse il Manzoni, è sovente soffocato dal senso comune, ovvero dall’inconscio collettivo.

Le espressioni popolari: “è morto di crepacuore” “si è ammalato per il dispiacere”, “è morto di paura”, i racconti di chi aveva avuto malattie dopo traumi psichici, le riflessioni sulle varie epidemie, compresa quella del 1917 che ha mietuto più vittime della prima guerra mondiale, perché non hanno goduto dell’interesse di molti ricercatori scientifici e/o spirituali?

Si afferma che la saggezza si differenzia dalla conoscenza per il fatto che la prima rappresenta una maturazione psicologica proveniente da una riflessione spirituale o “verticale”; la seconda si riferisce alle nozioni accumulate dalla mente concreta o “orizzontale”.

“La sapienza è il più perfetto grado di conoscenza delle cose umane e divine e la saggezza è la sapienza applicata all’attività pratica” (3)

Il Saggio è il Conoscitore.
Perché tanti personaggi che dichiarano di lavorare “in verticale”, i quali si credono in contatto con maestri ascesi o divinità varie, e pertanto saggi, non esprimono quelle conoscenze che sono oggetto di riflessioni di molta umanità?

Una  riflessione sul termine "new age". 
E’ opinione di molti che la cosiddetta new age sia stata influenzata dagli scritti di H.P: Blavtasky co-fondatrice, nel 1875, della Società Teosofica. In tutti questi scritti, come in quelli dell’antropologo-teosofo Bernardino del Boca, da me conosciuto nel 1980 e frequentato fino alla sua dipartita nel 2001, si rileva che auspicano, attraverso la comparazione di scienza-filosofia-religione, lo sviluppo dell’intuizione e della via del cuore per sopperire ad un visione della Vita basata sulla separazione tra spirito e materia. Unione quindi di spirito-anima-corpo e di microcosmo con macrocosmo. Tuttavia, ancor oggi, alcuni ricercatori, e tra di essi docenti universitari, ritengono che gli scritti di H.P.Blavatsky abbiano influenzato politiche malthusiane atte ad eliminare buona parte dell’umanità anche attraverso l’inoculazione di vaccini; a nulla sono valse le mie lettere, indirizzate agli autori di queste affermazioni e ai siti internet che le pubblicano ,nelle quali ho evidenziato, attraverso la prova inconfutabile che i teosofi fondarono nel 1908, tra le altre, la lega contro le vaccinazioni e la vivisezione, il palese enorme errore in cui sono incorsi.. Ricordo che il teosofo B. del Boca ha aiutato, anche pubblicando nella sua rivista alcuni loro scritti, le prime persone che decisero, sostenendo procedimenti penali lunghi, onerosi e solitari, di non vaccinare i propri figli dando avvio ad un movimento di opinioni in merito che ha consentito ad alcune regioni italiane di abolire l’obbligatorietà delle vaccinazioni.

Di fronte alla crisi finanziaria/economica attuale,che vede solo l’industria della sofferenza in espansione (industria degli armamenti in primis e a seguire la farmaceutica), le affermazioni dei Teosofi:  “In Natura il male non esiste…il vero male è creato dall’uomo razionale che si allontana dalla Natura, non è la Natura che crea le malattie ma l’uomo...” (4) sembrano assurde.

Con le scoperte di Hamer si può invece meglio comprendere, relativamente al rapporto psiche-cervello-organi, che in Natura esistono delle leggi biologiche che ci dimostrano che quell’affermazione è veritiera e ci consentono di discernere tra cause psichiche o fisiche e tra microbi naturali e artificiali.

Troppi “olistici” si occupano solo dell’aspetto fisico e troppi altri solo di quello psichico o spirituale.
Il recente premio Nobel Montagnier ha pubblicamente dichiarato, stupendo il mondo accademico,che la paura può alterare il Dna fino a causare la morte e che di questo occorre convincere medici e politici. Perché queste sue affermazioni, più “olistiche” rispetto alle sue ricerche di laboratorio, non sono state evidenziate come, a mio avviso, meriterebbero?

“Il messaggio divino d’amore e di fratellanza di Gesù Cristo, la filosofia del Budda, la saggezza di Socrate, l’umiltà di Leonardo da Vinci, l’esempio dei santi, dei saggi e dei pensatori di tutte le epoche, non rappresentano la cultura. Sono come le stelle in cielo, luminose e lontane, spesso dimenticate. L’uomo dimentica di contemplare il cielo come dimentica di ascoltare la voce della saggezza”. (5)

Bernardino del Boca, e con lui tanti altri, riteneva che la gioia fosse importante per l’evoluzione umana e auspicava tutte quelle ricerche che potevano diminuire l’ignoranza e, conseguentemente, la paura e l’egoismo.
E’ risaputo che la paura è il contrario dell’Amore. Pertanto: “Coraggio!!!”.

Paola Botta Beltramo



(1) dal giornale “Il sole 24 ore” 20-9-2009 pag. 39 – articolo “Martha e i suoi nemici”
(2) H.P. Blavatsky: “Iside svelata – La Scienza” Vol. I, parte I pag. 175- ediz. Studi Teosofici Trieste – II edis.
(3) Dal dizionario Garzanti della lingua italiana
(4) “Lettere dei Mahatma ad A.P. Sinnett” (lettera n. 10 del settembre 1882) Vol 1 pag. 106 – ediz. Sirio-Trieste
(5) Bernardino del Boca: “La dimensione della conoscenza” pagg. 255 – Ediz. “L’età dell’acquario” 1981

L'amore visto con gli occhi di un corvo...


“L’impulso all’amore cresce con l’elevarsi dell’uomo; ma allo scopo non è sufficiente la saggezza. Noi ci perfezioniamo grazie ai nostri atti di amore, così il mondo diventa più ricco grazie alle nostre azioni d’amore, poiché l’amore è l’aspetto creativo nel mondo” (Rudolf Steiner)

...l’amore se è cieco non è vero amore ed inoltre se l’amore serve solo ad aggiustare un rapporto od una situazione di solitudine non è vero amore. 

Quando si ama non c’è alcun problema nell’esprimere se stessi e quel che si pensa.. Certo a volte la critica può non piacere ma essa è l’unico modo per approfondire una conoscenza, per analizzare in profondità il nostro sentire.

Comunque il pensiero è sempre astratto mentre l’azione è sempre concreta. E di concreto  c’è che un vero un rapporto d’amore non può essere scalfito da emozioni passeggere, dettate da stati d’animo momentanei. Se dovessimo lasciare il nostro compagno, la nostra compagna, gli amici, i parenti, in definitiva tutti coloro che incontriamo nella nostra strada solo perché in un qualche momento ci hanno criticato o noi abbiamo criticato loro.. che senso avrebbe la comune appartenenza? Che senso avrebbe il  sapere che siamo componenti della stessa esistenza? Non siamo noi spiritualisti laici consapevoli dell’inscindibilità della vita?

Anche se critico aspramente qualcuno non significa che lo allontani dal mio cuore… Critico un operato, perché secondo la mia opinione personale non è confacente con il mio pensiero.. ma il pensiero .. il pensiero.. siamo padroni forse del nostro pensiero? Possiamo stabilire in anticipo cosa penseremo? O cosa è giusto pensare?

Quindi in un vero rapporto d'amore non serve  preoccuparsi poiché l'amore è aldilà di ogni “delusione”, poiché  chi ama non è mai stato “illuso”..  ma è  perfettamente consapevole ed amorevolmente accettevole della propria condizione amorosa. 

In questa libertà possiamo anche osservare con occhi distaccati le vicende e gli atti che costellano la nostra vita.. come i corvi che osservano con due occhi posti ognuno all’opposto dello stesso capo.

Paolo D'Arpini

Caterina e Paolo

Orologio biologico e coraggio di cambiare (quando necessario)




C’è in noi un orologio biologico,  che  corrisponde alla memoria delle esperienze spazio-temporali vissute,  che potremmo definire la parte pragmatica dell’inconscio individuale e collettivo. Questo significa che il nostro organismo spontaneamente si predispone (con pulsioni innate) ad affrontare e rispondere adeguatamene alle condizioni che si manifestano nell’ambiente. Questo continuo aggiustamento interno-esterno avviene giorno per giorno, mese per mese, seguendo i ritmi lunari e stagionali. Infatti le variazioni energetiche (e climatiche) che si manifestano all’esterno, corrispondono all’interno con  le predisposizioni connaturate del nostro orologio biologico. 


Ora sappiamo che  il repentino cambiamento climatico in corso, dovuto a vari fattori naturali ed artificiali,  potrebbe rendere confusa la risposta (accumulata nell’inconscio) del nostro apparato psicofisico, che segue  a fatica le accelerazioni del mutamento. Teniamo conto di ciò nell’affrontare questo momento drammatico per l’umanità, in cui siamo chiamati ad un salto evolutivo “fuori del comune”, per raggranellare il massimo del coraggio e della pazienza necessari alla nuova trasformazione…



Trasforma l’aggressività

dell’io affermativo

in coraggio stabile

nel vivere le contingenze.

Trasforma l’ottenebramento

che porta all’oblio di sé

in distaccata percezione

dei fenomeni.

Trasforma la distinzione

fra alto e basso

in quel punto senza centro

né circonferenza.

Trasforma la relazione

di soggetto ed oggetto

in miracolosa proiezione

della mente.




Paolo D’Arpini

Sistema debito e perdita della sovranità politica e monetaria


«Permettetemi di emettere e gestire la moneta di una nazione, e me ne infischio di chi fa le leggi» (Mayer Anselm Rothschild fondatore Rothschild Bank)
Che il mondo sia dominato dal “sistema debito” è fuori discussione, ma allo stesso tempo che questo sistema sfugge ad ogni inquadramento e controllo e soprattutto identificazione, è allo stesso tempo vero. I governi forse per mancata competenza hanno facilmente ceduto la sovranità politica e monetaria ai veri governi monetari che di fatto fanno la vera politica reale. Si è sempre insegnato che in Italia esistono tre poteri che sono: il potere esecutivo, il potere legislativo, ed il potere giudiziario. Tutto questo potrebbe andare bene se non fosse che esiste un potere superiore che è quello dell’emissione monetaria.
Una saggezza popolare o proverbio che dir si voglia lo conferma, “ senza soldi non si canta messa” o uno un po’ più laico “senza lilleri non si lallera”. Nei primi anni in cui uscì la legge della sicurezza succedeva che nonostante ci fossero delle norme con delle precise prescrizioni, le imprese non realizzavano la sicurezza e non si capiva come mai il processo della sicurezza spesso si fermava. Come si sa le leggi spesso hanno bisogno di un periodo di test per essere rodate e soprattutto per vedere se hanno una “sufficiente applicabilità” (qui ci sarebbe da scrivere una intera biblioteca), la scoperta fu quella che spesso il datore di lavoro, delegava qualcuno, che però poi operativamente non aveva nessun mezzo e nessuna autorità nell’seguire e nel realizzare la sicurezza.
Le varie leggi che poi si sono succedute, hanno corretto una delle cause, spiegarono bene che chi si doveva occupare di sicurezza doveva avere sempre un “potere di spesa” senza del quale il suo mandato di fatto era nullo. Il legislatore quindi ha profondamente capito che il motore di certi processi quindi, non è solo l’imposizione legislativa, ma anche e soprattutto la disponibilità economica. Tornado a molti disposti legislativi, si sa che sono fatti a costo zero, questo nella pratica significa, che molto probabilmente non si faranno. Infatti un’altra legge definì che quando si propongo disegni di legge con interventi è sempre necessario chiarire da dove si reperiscono i fondi per fare qualcosa.
È necessario fare ancora un premessa per poi poter arrivare alla conclusione del nostro ragionamento. Per portare avanti una famiglia spesso tutti si danno una mano, tutti fanno un po’ tutto, non si guardano orari, si utilizza del tempo oltre ogni fatica, si investe il proprio amore, la propria forza, il proprio intelletto senza conteggi di tipo ragionieristico; ogni uno della famiglia mette a disposizione il proprio “Valore” agli altri. Ogni membro cede il valore del proprio lavoro verso gli altri per il ben sociale della famiglia. Tutto questo valore viene messo a “credito” a favore degli altri componenti della famiglia, non passerebbe mai per la moneta speculativa. Molte famiglie si sfasciano perché sono troppo monetizzate.
Uno Stato (art. 14 cost. Italiana) dovrebbe avere certe attività che dovrebbero passare per il concetto della gestione del “buon padre di famiglia”, come bene sociale. Uno Stato non dovrebbe speculare (o far speculare, vedi cessione della sovranità monetaria) sulle attività del suo popolo, anzi dovrebbe investire a credito per il futuro dei propri giovani. La continua monetizzazione (l’obbligo dell’uso della moneta in affitto) della vita ha fatto si che tutta la fase di “sponsorizzazione a credito” verso la famiglia (i cittadini), le imprese, gli enti, fosse del tutto cancellata, ansi si passasse proprio dalla parte opposta.
Lo Stato non crede più nei sui cittadini e quindi non investe più a credito, ma solo a debito e indebitando. Uno Stato che non ha la possibilità di emettere il suo denaro (credito e fiducia per il popolo) anche inflazionando è uno Stato che intanto non è più uno Stato perché non ha un suo “potere di spesa” e poi si è trasformato in un ragioniere che tiene i “conti a posto”. Qualunque cosa voglia fare lo Stato deve sempre guardare in cassa; è come se in una famiglia non si lava il pavimento, perché bisogna farsi prestare i soldi per pagare l’impresa delle pulizie. La monetizzazione di ogni cosa (cessi, parcheggi, istruzione, sanità, autostrade, asili nido, ecc tutto a pagamento) ha portato alla paralisi della famiglia-stato. 
L’obbiettivo, lo conosciamo bene, è quello di renderci “drogati di denaro” (denaro dipendenti) al fine di non poterne più fare a meno; quando siamo diventati propri dipendenti, ci fanno mancare la “sostanza” (drenaggio monetario) per poterci indebitare ancora di più con le banche, chiedendo finanziamenti, mutui e prestiti.
La “disintelletualizzazione” delle masse ha poi cancellato ogni senso critico e capacità logica di razionalità, portando le persone verso i bisogni primari; le nuove strategie di “programmazione mentale”, non sono di carattere ideologico (comunismo idealismo ecc) ma sono ancora più basse, sono di carattere viscerale ed emozionale dove il cervello non reagisce più perché è stato programmato a non reagire, ma solo ad inzupparsi delle idee “preconfezionate” che producono la manipolazione mentale.
Concludendo il vero potere di uno Stato, quindi non: è ne giudiziario, ne legislativo, ne esecutivo, ma solo quello monetario (vedi Grecia, Spagna, Islanda, Portogallo ecc) non serve dimostrare il notorio. I banchieri lo hanno capito bene ed è per questo che foraggiano da anni (direttamente, indirettamente, coscienti, incoscienti ecc) i politici al fine di realizzare leggi (in tutti gli stati) che rendessero sempre di più il potere di emissione monetaria sempre più indipendente e separato dallo stato. La stessa unione sovietica ha avuto situazioni di questo tipo. Nella storia molti stati ci hanno provato ha riportare la sovranità sotto il potere dei cittadini ma sono sempre finiti male.
Giuseppe Turrisi
«Quando uno Stato dipende per il denaro dai banchieri, sono questi stessi e non i capi dello Stato che dirigono le cose. La mano che dà sta sopra a quella che prende. I finanzieri sono senza patriottismo e senza decoro» (Napoleone Bonaparte)

Storia patria - L'Italia dopo il trattato di pace di Parigi del 1947



Il 29 luglio del 1946 alle ore 16,30, si inaugura a Parigi, nel Palazzo del Lussemburgo, nelle sale dell'ex Senato Francese, la CONFERENZA DEI 21, con un discorso inaugurale del Presidente del Consiglio francese, George Bidault, iniziato con un saluto a nome del popolo francese e del governo ai delegati delle Nazioni Unite ed amiche, convenuti a Parigi per la prima grande conferenza che
DEVE DISCUTERE LA SISTEMAZIONE DEL MONDO DOPO LA GUERRA.

Tralasciamo la sistemazione di altri Stati, che sarebbe qui lunga e noiosa, e occupiamoci invece quella inerente l'Italia. Dell'Italia sconfitta !
Una sistemazione quella "DEI 21" che però è stata già decisa, senza neppure interpellare l'Italia.
La partenza per Parigi di una delegazione italiana avverrà solo il 7 agosto, con un De Gasperi piuttosto pessimista.
Alla partenza del 7 AGOSTO 1946 con la delegazione (assieme a Saragat, Corbino e Bonomi) imbarcandosi sull'SM.75, a un redattore dell'Ansa che gli chiedeva qualcosa circa le prospettive ottimistiche del viaggio, De Gasperi non era molto fiducioso: "Non so nemmeno se parto come imputato. Direi che la mia posizione è per quattro quinti quella di imputato come responsabile di una guerra che non ho fatto e che il popolo non ha voluto, per un quinto quella di cobelligerante. La figura di cobelligerante è riconosciuta nel preambolo del Trattato come principio, ma nel testo si tiene invece conto dei quattro quinti, rappresentati dalla guerra perduta e non del quinto costituito dalla nuova guerra che abbiamo combattuto a fianco degli ALLEATI. Tutto lo sforzo che bisogna fare, mira a ricordare agli ALLEATI che li abbiamo chiamati così perchè li abbiamo creduti tali"  (comun. Ansa, 7 agosto 1946, ore 10.25)
Un sunto dello schema del futuro TRATTATO di PACE di cui parla De Gasperi, prima di partire .
(Dal comunicato diramato dall'Ansa il 29 luglio 1946, ore 23.30)
"" Londra - 29 Luglio 1946
La frontiera italiana seguirà quella che risultava al 1° gennaio 1938 con le seguenti modifiche.
* La frontiera con la Francia sarà modificata al passo del Piccolo San Bernardo (2 chilometri), sul plateau del Moncenisio, sul monte Thabor-Chamberton (5 chilometri), nelle valli del Tinea, di Vesusia e Roja.
* Frontiera italo-jugoslava. Tutto il territorio ad est della "linea francese" sarà ceduto dall'Italia alla Jugoslavia. Sarà costruito i territorio Libero di Trieste entro la linea francese, limitato da una linea che congiunge Duino alla linea francese. L'integrità e l'indipendenza del Territorio Libero di Trieste saranno assicurate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il governatore sarà nominato da Consiglio di sicurezza dopo le consultazioni con l'Italia e la Jugoslavia.

* L'Italia cede alla Jugoslavia il comune di Zara e tutte le isole della Dalmazia.
* L'Italia cede alla Grecia le isole del Dodecanneso.
* L'Italia si accorderà con l'Austria per garantire il libero movimento di passeggeri e merci tra il Tirolo settentrionale e orientale.
* L'Italia rinuncia a tutti i diritti e i titoli, sui possedimenti territoriali in Africa, Libia, Eritrea e Somalia.
* L'Italia riconosce la sovranità e l'indipendenza dell'Europa.
* L'Italia riconosce la sovranità e l'indipendenza dell'Albania
* Riparazioni. L'Italia pagherà all'Unione Sovietica riparazioni per cento milioni di dollari. Le richieste di riparazione da parte di altre potenze, in particolare della Francia, della Jugoslavia, della Grecia e dell'Albania saranno prese in considerazione in sede di conferenza della pace.""
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De Gasperi giunto a Parigi (dopo tre giorni di anticamera) prese la parola alle ore 16 del 10 AGOSTO dinnanzi ai rappresentanti dei 21 stati vincitori: e fu la parola di un vinto che si sentiva e si poteva sentire vincitore, un italiano che parlava per il popolo suo, con una tale altezza morale, da farsi da accusato ad accusatore, da umiliato a maestro di coloro che umiliato volevano in lui un intero popolo di alta civiltà.

Questo lo storico discorso: (integrale)

"Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l'essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.

Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?

Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire. 

Ebbene, permettete che vi dica con la franchezza che un alto senso di responsabilità impone in quest'ora storica a ciascuno di noi, questo trattato è, nei confronti dell'Italia, estremamente duro; ma se esso tuttavia fosse almeno uno strumento ricostruttivo di cooperazione internazionale, il sacrificio nostro avrebbe un compenso: l'Italia che entrasse, sia pure vestita del saio del penitente, nell'ONU, sotto il patrocinio dei Quattro, tutti d'accordo nel proposito di bandire nelle relazioni internazionali l'uso della forza (come proclama l'articolo 2 dello Statuto di San Francisco) in base al "principio della sovrana uguaglianza di tutti i Membri", come è detto allo stesso articolo, tutti impegnati a garantirsi vicendevolmente "l'integrità territoriale e l'indipendenza politica", tutto ciò potrebbe essere uno spettacolo non senza speranza e conforto. L'Italia avrebbe subìto delle sanzioni per il suo passato fascista, ma, messa una pietra tombale sul passato, tutti si ritroverebbero eguali nello spirito della nuova collaborazione internazionale.

Si può credere che sia così?

Evidentemente ciò è nelle vostre intenzioni, ma il testo del trattato parla un altro linguaggio. 

In un congresso di pace è estremamente antipatico parlar d'armi e di strumenti di guerra. Vi devo accennare, tuttavia, perché nelle precauzioni prese dal trattato contro un presumibile riaffacciarsi di un pericolo italiano si è andati tanto oltre da rendere precaria la nostra capacità difensiva connessa con la nostra indipendenza.

Mai, mai nella nostra storia moderna le porte di casa furono così spalancate, mai le nostre possibilità di difesa così limitate. Ciò vale per la frontiera orientale come per certe rettifiche dell'occidentale ispirate non certo ai criteri della sicurezza collettiva.
Nè questa volta ci si fa balenare la speranza di Versailles, cioè il proposito di un disarmo generale, del quale il disarmo dei vinti sarebbe solo un anticipo.

Ma in verità più che il testo del trattato, ci preoccupa lo spirito: esso si rivela subito nel preambolo.

Il primo considerando riguarda la guerra di aggressione e voi lo ritroverete tale quale in tutti i trattati coi così detti ex satelliti; ma nel secondo considerando che riguarda la cobelligeranza voi troverete nel nostro un apprezzamento sfavorevole che cercherete invano nei progetti per gli Stati ex nemici. Esso suona: "considerando che sotto la pressione degli avvenimenti militari, il regime fascista fu rovesciato ... ".

Ora non v'ha dubbio che il rovesciamento del regime fascista non fu possibile che in seguito agli avvenimenti militari, ma il rivolgimento non sarebbe stato così profondo, se non fosse stato preceduto dalla lunga cospirazione dei patrioti che in Patria e fuori agirono a prezzo di mmensi sacrifici, senza l'intervento degli scioperi politici nelle industrie del nord, senza l'abile azione clandestina degli uomini dell'opposizione parlamentare antifascista (ed è qui presente uno dei suoi più fattivi rappresentanti) che spinsero al colpo di stato. Rammentate che il comunicato di Potsdam del 2 agosto 1945 proclama: "L'Italia fu la prima delle Potenze dell'Asse a rompere con la Germania, alla cui sconfitta essa diede un sostanziale contributo ed ora si è aggiunta agli Alleati nella guerra contro il Giappone". 

"L'Italia ha liberato se stessa dal regime fascista e sta facendo buoni progressi verso il ristabilimento di un Governo e istituzioni democratiche". 

Tale era il riconoscimento di Potsdam. Che cosa è avvenuto perché nel preambolo del trattato si faccia ora sparire dalla scena storica il popolo italiano che fu protagonista? Forse che un governo designato liberamente dal popolo, attraverso l'Assemblea Costituente della Repubblica, merita meno considerazione sul terreno democratico?
La stessa domanda può venir fatta circa la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza: "delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania". Delle Forze? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del "Corpo Italiano di Liberazione", trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e "last but non least" dei partigiani, autori soprattutto dell'insurrezione del nord.

Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana. 

Diciotto mesi durò questa seconda guerra, durante i quali i tedeschi indietreggiarono lentamente verso nord spogliando, devastando, distruggendo quello che gli aerei non avevano abbattuto. 

Il rapido crollo del fascismo dimostrò esser vero quello che disse Churchill: "un uomo, un uomo solo ha voluto questa guerra" e quanto fosse profetica la parola di Stimson, allora Ministro della guerra americano: "La resa significa un atto di sfida ai tedeschi che avrebbe cagionato al popolo italiano inevitabili sofferenze". 

Me è evidente che, come la prefazione di un libro, anche il preambolo è stato scritto dopo il testo del Trattato, e così bisognava ridurre, attenuare il significato della partecipazione del popolo italiano ed in genere della cobelligeranza perché il preambolo potesse in qualche maniera corrispondere agli articoli che seguono. 

Infatti dei 78 articoli del trattato la più parte corrisponde ai due primi considerando, cioè alla guerra fascista e alla resa: nessuno al considerando della cobelligeranza, la quale si ritiene già compensata coll'appoggio promesso all'Italia per l'entrata nell'ONU; compenso garantito anche a Stati che seguirono o poterono seguire molto più tardi l'esempio dell'Italia antifascista. 

Il carattere punitivo del trattato risulta anche dalle clausole territoriali. E qui non posso negare che la soluzione del problema di Trieste implicava difficoltà oggettive che non era facile superare. Tuttavia anche questo problema è stato inficiato fin dall'inizio da una psicologia di guerra, da un richiamo tenace ad un presunto diritto del primo occupante e dalla mancata tregua fra le due parti più direttamente interessate.

Mi avete chiamato a Londra il 18 settembre 1945. Abbandonando la frontiera naturale delle Alpi e per soddisfare alle aspirazioni etniche jugoslave, proposi allora la linea che Wilson aveva fatta propria quando, il 23 aprile 1919, nella Conferenza della Pace a Parigi invocava "una decisione giusta ed equa, non già una decisione che eternasse la distinzione tra vincitori e vinti". 

Proponevamo inoltre che il problema economico della Venezia Giulia venisse risolto internazionalizzando il porto di Trieste e creando una collaborazione col porto di Fiume e col sistema ferroviario Danubio-Sava-Adriatico.

Era naturalmente inteso che si dovesse introdurre parità e reciprocità nel trattamento delle minoranze, che Fiume riavesse lo status riconosciuto a Rapallo, che il carattere di Zara fosse salvaguardato. 

Il giorno dopo, Signori Ministri, avete deciso di cercare la linea etnica in modo che essa lasciasse il minimo di abitanti sotto dominio straniero; a tale scopo disponeste la costituzione di una Commissione d'inchiesta. La commissione lavorò nella Venezia Giulia per 28 giorni. Il risultato dell'inchiesta fu tale che io stesso, chiamato a Parigi a dire il mio avviso il 3 maggio 1946, ne approvai, sia pure con alcune riserve, le conclusioni di massima. Ma i rappresentanti jugoslavi, con argomenti di sapore punitivo, sul possesso totale della Venezia Giulia e specie di Trieste. Cominciò allora l'affannosa ricerca del compromesso e, quando lasciai Parigi, correva voce che gli Anglo-Americani, abbandonando le linee etniche, si ritirassero su quella francese. 

Questa linea francese era già una linea politica di comodo, non più una linea etnica nel senso delle decisioni di Londra, perché rimanevano nel territorio slavo 180.000 italiani e in quello italiano 59.000 slavi; soprattutto essa escludeva dall'Italia Pola, e le città minori della costa istriana occidentale ed implicava quindi per noi una perdita insopportabile. Ma per quanto inaccettabile, essa era almeno una frontiera italo-jugoslava che aggiudicava Trieste all'Italia.

Ebbene, che cosa è accaduto sul tavolo del compromesso durante il giugno, perché il 3 luglio il Consiglio dei Quattro rovesciasse le decisioni di Londra e facesse della linea francese non più la frontiera tra Italia e Jugoslavia, ma quella di un cosiddetto "Territorio libero di Trieste" con particolare statuto internazionale? Questo rovesciamento fu per noi una amarissima sorpresa e provocò in Italia la più profonda reazione. Nessun sintomo, nessun cenno poteva autorizzare gli autori del compromesso a ritenere che avremmo assunto la benché minima corresponsabilità di una simile soluzione che incide nelle nostre carni e mutila la nostra integrità nazionale. Appena avuto sentore di tale minaccia il 30 giugno telegrafavo ai Quattro Ministri degli Esteri la pressante preghiera di ascoltarmi dichiarando di volere assecondare i loro sforzi per la pace, ma mettendoli in guardia contro espedienti che sarebbero causa di nuovi conflitti. La soluzione internazionale, dicevo, com'è progettata, non è accettabile e specialmente l'esclusione dell'Istria occidentale fino a Pola causerà una ferita insopportabile alla coscienza nazionale italiana. 

La mia preghiera non ebbe risposta e venne messa agli atti. Oggi non posso che rinnovarla, aggiungendo degli argomenti che non interessano solo la nostra nazione, ma voi tutti che siete ansiosi della pace del mondo. 

Il Territorio libero, come descritto dal progetto, avrebbe una estensione di 783 kmq. con 334.000 abitanti concentrati per 3/4 nella città capitale. La popolazione si comporrebbe, secondo il censimento del 1921, di 266.000 italiani, 49.501 slavi, 18.000 altri. Lo Stato sarebbe tributario della Jugoslavia e dell'Italia in misura eguale per la forza elettrica, comunicherebbe con il suo hinterland con tre ferrovie slave ed una italiana. Le spese necessarie per il bilancio ordinario sarebbero da 5 a 7 miliardi; il gettito massimo dei tributi potrebbe toccare il miliardo.

Trieste ed il suo porto dall'Italia hanno avuto dal 1919 al 1938 larghissimi contributi per opere pubbliche e le industrie triestine come i cantieri, le raffinerie, le fabbriche di conserve, non solo sorte in seguito a facilitazioni, esenzioni fiscali, sussidii (anche le linee di navigazione), ma sono vincolate tutte ai mercati italiani. Già ora il trattato proietta la sua ombra sull'attività produttiva di Trieste perché non si crede alla vitalità della sistemazione e alla sua efficienza economica. Come sarà possibile, obiettano i triestini, mantenere l'ordine in uno Stato non accetto né agli uni né agli altri, se oggi ancora gli Alleati, che pur vi mantengono forze notevoli, non riescono a garantire la sicurezza personale? 

Il problema interno è forse il più grave. Ogni gruppo etnico chiederebbe soccorso ai suoi e le lotte si complicherebbero col sovrapporsi del problema sociale, particolarmente acuto e violento in situazioni come quelle di un emporio commerciale e industriale. Come farà l'ONU ad arbitrare e ad evitare che le lotte politiche interne assumano carattere internazionale? 

Voi rinserrate nella fragile gabbia d'uno statuto i due contendenti con razioni scarse e copiosi diritti politici e voi pretendete che non vengano alle mani e non chiamino in aiuto gli slavi, schierati tutti all'intorno a 8 chilometri di distanza, e gli italiani che tendono il braccio attraverso un varco di due chilometri? 

Ovvero pensate davvero di fare del porto di Trieste un emporio per l'Europa Centrale? Ma allora il problema è economico e non politico. Ci vuole una compagnia, un'amministrazione internazionale, non uno Stato; un'impresa con stabili basi finanziarie, non una combinazione giuridica collocata sulle sabbie mobili della politica!

Per correre il rischio di tale non durevole spediente, voi avete dovuto aggiudicare l'81% del territorio della Venezia Giulia agli jugoslavi (ed ancora essi se ne lagnano come di un tradimento degli Alleati, e cercano di accaparrare il resto a mezzo di formule giuridiche costituzionali del nuovo Stato); avete dovuto far torto all'Italia rinnegando la linea etnica, avete abbandonata alla Jugoslavia la zona di Parenzo-Pola, senza ricordare la Carta Atlantica che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali, anzi ne aggravate le condizioni stabilendo che gli italiani della Venezia Giulia passati sotto la sovranità slava che opteranno per conservare la loro cittadinanza, potranno entro un anno essere espulsi e dovranno trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, le loro case, i loro averi, che più? i loro beni potranno venire confiscati e liquidati, come appartenenti a cittadini italiani all'estero, mentre l'italiano che accetterà la cittadinanza slava sarà esente da tale confisca. 

L'effetto di codesta vostra soluzione è che, fatta astrazione dal Territorio libero, 180.000 italiani rimangono in Jugoslavia e 10 mila slavi in Italia (secondo il censimento del 1921) eche il totale degli italiani esclusi dall'Italia, calcolando quelli di Trieste, è di 446.000; né per queste minoranze avete minimamente provveduto, mentre noi in Alto Adige stiamo preparando una generosa revisione delle opzioni ed è già stato raggiunto un accordo su una ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente.

A qual pro dunque ostinarsi in una soluzione che rischia di creare nuovi guai, a qual pro voi vi chiuderete gli orecchi alle grida di dolore degli italiani dell'Istria - ho presente una sottoscrizione di Pola - che sono pronti a partire, ad abbandonare terre e focolari pur di non sottoporsi al nuovo regime? 

Lo so, bisogna fare la pace, bisogna superare la stasi, ma se avete rinviato di un anno la questione coloniale, non avendo trovato una soluzione adeguata, come non potreste fare altrettanto per la questione giuliana? C'è sempre tempo per commettere un errore irreparabile. Il Trattato sta in piedi anche se rimangono aperte alcune clausole territoriali. E' una pace provvisoria: ma anche da Versailles a Cannes si dovette procedere per gradi. Altre questioni rimangono aperte o sono risolte nel Trattato negativamente. Non posso ritenere, per esempio, che i nostri rapporti con la Germania si possano considerare definiti con l'art. 67 di codesto Trattato, il quale impone all'Italia la rinuncia a qualsiasi reclamo, compresi i crediti contro la Germania e i cittadini germanici fino alla data dell'8 maggio 1945, dopo cioè che l'Italia era in guerra con la Germania da diciannove mesi. 

I nostri tecnici calcolano a circa 700 miliardi di lire, cioè a circa 3 miliardi di dollari, la somma che possiamo reclamare dalla Germani per il periodo della cobelligeranza; e noi ci dovremmo semplicemente rinunciare? Non può essere questo un provvedimento definitivo; bisognerà pur riparlarne quando si farà la pace con la Germania: e allora non è questo un altro argomento per provare che il completo assestamento d'Europa non può avvenire che dopo la pace con la Germania? Stabiliamo le basi fondamentali del Trattato; l'Italia accetterà di fare i sacrifici che può. 

Mettiamoci poi a tavolino, noi e gli jugoslavi in prima linea, e cerchiamo un modo di vita, una collaborazione, perché senza questo spirito le formule del Trattato rimarranno vuote. 

Non è a dire con ciò che per tutto il resto il Trattato sia senz'altro accettabile.

Alcune clausole economiche sono durissime. Così per esempio l'art. 69 che concede ad ogni Potenza Alleata o Associata il diritto di sequestrare, ritenere o liquidare tutti i beni italiani all'estero, salvo restituire la eventuale quota eccedente i reclami delle Nazioni Unite. L'applicazione generale di tale articolo avrebbe conseguenze insopportabili per la nostra economia. Ci attendiamo che tali disposizioni vengano modificate soprattutto se - come non dubito - si darà modo ai miei collaboratori di esprimersi a fondo su questo come su ogni altro argomento, in seno alle competenti Commissioni. Così ancora all'art. 62 ci si impone una rinuncia contraria al buon diritto e alle norme internazionali, la rinuncia cioè a qualsiasi credito derivante dalle Convenzioni sul trattamento dei prigionieri. 

logica conseguenza della cobelligeranza è anche che a datare dal 13 ottobre 1943 lo spirito con cui devono essere regolati i rapporti economici tra noi e gli Alleati sia diverso. Non si tratta più di spese di occupazione, previste all'epoca dell'armistizio per un breve periodo, ma di spese di guerra sul fronte italiano. Ad esse il Governo italiano vuole contribuire nei limiti delle sue possibilità economiche, me nei modi che di tale capacità tengano conto. 

In quanto alle riparazioni, pur essendo disposti a sopportare sacrifici, dobbiamo escludere che si facciano gravare sull'economia italiana oneri imprecisati e per un tempo indeterminato e nei riguardi dei territori ceduti o liberati si dovrà tener conto degli enormi investimenti da noi fatti per opere pubbliche per lo sviluppo culturale e materiale di tali Paesi. Se le clausole del trattato ci venissero imposte nella loro totalità e crudezza, noi, firmando, commetteremmo un falso perché l'Italia, nel momento attuale, con una diminuzione dei salari reali di oltre il 50% e del reddito nazionale di oltre il 45, ha già visto ridurre la sua capacità di produzione fino al punto da non poter acquistare all'estero le derrate alimentari e le materie prime. Ulteriori peggioramenti provocherebbero il caos monetario, l'insolvenza e la perdita della nostra indipendenza economica. A che ci gioverebbe allora essere ammessi ai benefici del Consiglio economico e sociale dell'ONU? 

Prendiamo atto con soddisfazione che nella Conferenza dei Quattro - seduta del 10 maggio - la proposta di affidare all'Italia sotto forma di amministrazione fiduciaria le sue colonie ha incontrato consensi. Confidiamo che tale assenso trovi pratica applicazione nel momento di deliberare. In tale attesa, purché non si chiedano rinuncie preventive, non facciamo obbiezioni al rinvio né al prolungamento dell'attuale regime di controllo militare in quei territori. Ma noi ci attendiamo che l'amministrazione di quei territori durante l'anno di proroga sia, in conformità della legge internazionale, affidata almeno per un'equa parte ai funzionari italiani, sia pure sotto il controllo delle autorità occupanti. E facciamo viva istanza perché decine e decine di migliaia di profughi dalla Libia, Eritrea e Somalia che vivono in condizioni angosciose in Italia o in campi di concentramento della Rhodesia o nel Kenya possano ritornare alle loro sedi.

Circa le questioni militari, le nostre obbiezioni potranno più propriamente essere esposte nella Commissione rispettiva. Basti qui riaffermare che la flotta italiana, dopo essersi data tutta alla cobelligeranza e aver operato in favore della causa comune per tre anni e fino a tutt'oggi sotto propria bandiera agli ordini del Comando Supremo del Mediterraneo, non può oggi, per ovvie ragioni morali e giuridiche, venir trattata come bottino di guerra. Ciò non esclude che nello spirito degli accordi Cunningham - De Courten, essa contribuisca entro giustificati limiti a restituzioni o compensi. 

Signori Ministri, Signori Delegati,

per mesi e mesi ho atteso invano di potervi esprimere in una sintesi generale il pensiero dell'Italia sulle condizioni della sua pace, ed oggi ancora comparendo qui nella veste di ex-nemico, veste che non fu mai quella del popolo italiano, innanzi a Voi, affaticati dal lungo travaglio o anelanti alla conclusione, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal voler intralciare ma intendiamo costruttivamente favorire la vostra opera, in quanto contribuisca ad un assetto più giusto del mondo.

Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri apparentemente contrastanti.

Da una parte egli deve esprimere l'ansia, il dolore, l'angosciosa preoccupazione per le conseguenze del Trattato, dall'altra riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.

Tale fede nutro io pure e tale fede sono venuti qui a proclamare con me i miei due autorevoli colleghi, l'uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l'evoluzione democratica dell'altro dopoguerra, il secondo Presidente dell'Assemblea Costituente Repubblicana, vittima ieri dell'esilio e delle prigioni e animatore oggi di democrazia e di giustizia sociale: entrambi interpreti di quell'Assemblea a cui spetterà di decidere se il Trattato che uscirà dai vostri lavori sarà tale da autorizzarla ad assumerne la corresponsabilità, senza correre il rischio di compromettere la libertà e lo sviluppo democratico del popolo italiano.

Signori Delegati,

grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all'indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni Paese che nella guerra hanno combattuto e sofferto per una mèta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella mèta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per raggiungerla.

E' in questo quadro di una pace generale e stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d'Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano".

Dopo l'intervento il rappresentante jugoslavo Kardelj chiese all'assemblea quarantott'ore di riflessione. O forse per ridurre la portata storica del discorso.
Le sedute proseguiranno fino al 7 settembre con delle rivendicazioni jugoslave e italiane.  Solo il 3 ottobre  nella seduta del comitato politico territoriale si approverà una proposta di compromesso avanzata  dalla delegazione francese per conciliare i punti di vista divergenti circa lo Statuto e la posizione internazionale del Territorio Libero di Trieste.
La votazione avverrà il 9 ottobre approvando gli articoli relativi alle frontiere italo-jugoslave ed italo-francese e quello relativo all'accordo italo-austriaco per il Tirolo.
Approvato (senza nemmeno votazione) anche l'articolo sulle ex colonie; l'Italia deve rinunciare ad ogni titolo e diritto sulle stesse.

Il 15 ottobre 1946 la Conferenza della pace si chiude. Insoddisfatte sia l'Italia che la Jugoslavia.
I punti controversi sono 8 e verranno discussi, riprendendo la Conferenza a New York l'8 Novembre.

I punti cotroversi:
1 Frontiere dell'Italia con la Jugoslavia
2 Proposta di inclusione nel trattato di una clausola che riporti l'accordo italo-austriaco per l'Alto Adige.
3 Garanzia dei diritti umani per le popolazioni dei territori ceduti dall'Italia in base al trattato
4 Regime provvisorio per Trieste e proposta per il territorio libero e il porto franco
5 Riparazioni pagabili dell'Italia all'Albania, all'Etiopia, alla Grecia ed alla Jugoslavia
6 Compenso per i danni alle proprietà alleate in Italia
7 Mezzi idonei a superare le difficoltà derivanti dall'applicazione del trattato
8 Clausola intesa a stabilire che nessun paese alleato possa godere dei vantaggi della pace qualora rifiuti di firmare il trattato
L'America che mira a dare a Trieste la possibilità di provvedere a se stessa economicamente propone un regime provvisorio in attesa della formazione di un governo.
Il 6 DICEMBRE a New York,  inaspettatamente il Consiglio dei ministri ha raggiunto un accordo su tutte le questioni di primaria importanza quali lo statuto di Trieste. E stata approvata anche la formula presentata dal rappresentante francese per le riparazioni che dovranno essere pagate dall'Italia e dalla Bulgaria.
L'Italia dovrà pagare: 100 milioni di dollari all'unione Sovietica, 125 milioni di dollari alla Jugoslavia, 105 milioni alla Grecia, 5 milioni all'Albania, 25 milioni all'Etiopia.

Il 13 DICEMBRE si è raggiunto anche l'accordo completo su tutti i punti ancora in sospeso dei cinque trattati di pace (con l'Italia, la Finlandia, la Romania, l'Ungheria e la Bulgaria) e si è chiusa la sessione newyorkese dopo sei settimane di lavori.

IL 10 FEBBRAIO 1947 A PARIGI
L'ITALIA FIRMA
IL DEFINITIVO TRATTATO DI PACE
 182 pagine con  90 articoli  e 16 note annesse
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Il 18 maggio 1949 l'Assemblea delle Nazioni Unite bocciava nel suo complesso il compromesso Bevin-Sforza per accettarne in verità una sola parte: quella che pianificava il futuro di Cirenaica e Fezzan. Per entrambe le regioni libiche si prevedeva una trusteeship (amministrazione fiduciaria) internazionale con responsabilità alla Gran Bretagna nel caso della Cirenaica, e alla Francia per il Fezzan.


L'accordo che il ministro degli esteri italiano era riuscito a strappare al suo corrispettivo inglese in un'atmosfera internazionale fluida, sostanzialmente disinteressata alle questioni italiane, prevedeva che Roma recuperasse Tripolitania e Somalia, seppure solo per un'amministrazione fiduciaria, rinunciando però, come visto, alle altre parti della Libia, e all'Eritrea che veniva ceduta e Etiopia e Sudan. Per quanto in gran parte consolatorio, l'accordo venne suonato da Sforza come una vittoria della diplomazia italiana. La popolazione, atterrita nell'orgoglio nazionale da un Trattato di pace severo e umiliante non avrebbe sopportato una declassificazione come quella che le grandi potenze avrebbero voluto infliggerle attraverso la distruzione dell'impero coloniale - così pomposamente chiamato dal duce- faticosamente costruito perchè desse all'Italia quel lustro di grande potenza di cui fin dalla fine dell'800 si era avvertita la necessità.

Il compromesso raggiunto con la Gran Bretagna sembrava rispondere a quest'esigenza colta dai leaders politici, attenti ad ascoltare, in un momento molto delicato per il paese, l'umore della popolazione ferita dalla guerra. Quella che veniva giudicata la vittoria londinese di Sforza non poté però concretizzarsi. Di fronte ai membri dell'Assemblea delle Nazioni Unite, infatti, l'accordo anglo-italiano trovò una consistente opposizione che ebbe però la meglio solo grazie al voto negativo espresso all'ultimo momento dal delegato di Haiti.

Nelle memorie dei testimoni, la votazione assume un sapore faceto. Il ministro Sforza ricorda: "Tragicomico apparve quello che si seppe negli Stati Uniti e qualche ora dopo in Europa: cioè che il solo voto contrario che fece fallire il progetto presentato dall'Inghilterra e calorosamente appoggiato dalla Francia [è da notare che le due potenze erano interessate all'approvazione del progetto in quanto da esso ne avrebbero ricavato l'amministrazione fiduciaria della Cirenaica la Gran Bretagna, e quella del Fezzan la Francia] e dagli USA, fu dato dal rappresentante di Haiti, un tipo di cui le personalità più serie di Haiti ammisero, quasi scusandosi, che quella sera "era ubriaco e comunque non sapeva nulla della Somalia."

Altra versione degli stessi fatti è quella data dall'Ambasciatore Tarchiani: "Quel rappresentante, ottenuto un relativamente lauto compenso per cambiare parere all'ultima ora, bevve un doppio whisky ed entrò nell'aula per votare contro.". 
Verrebbe da dire che non poteva esserci conclusione più intonata. Il colonialismo italiano, con la sua storia fatta di tentativi falliti e di episodi che tutto esprimevano fuorché la virilità di un paese banalmente interessato a mostrare i propri, peraltro avvizziti, muscoli, tramontava in modo così ridicolo. L'italia che aveva perso, firmando il Trattato di pace, i territori conquistati durante il fascismo: Albania, Etiopia oltre alle isole del Dodecaneso e Rodi, ritornava così ad essere un paese senza colonie come all'inizio della sua storia unitaria, e improvvisava in quel momento una sorta di spirito a favore della liberazione dei popoli, assolutamente senza radici storiche se non quella nuovissima della bocciatura del piano Bevin-Sforza.

Fino a pochi giorni prima della sconfitta patita per colpa del cosiddetto ubriaco di Haiti, il personale di Palazzo Chigi si era impegnato totalmente nella difesa della presenza italiana in Africa, nobilitata attraverso una costruzione teorica che tentava di presentarla come nodo centrale della storia statale e non come residuo del recente passato fascista. Nel biennio '47-49 questi temi trovarono diffusione in numerosi settori del mondo politico e dell'opinione pubblica, concordi nel sostenere la necessità per l'Italia di mantenere le proprie colonie giudicate come l'unico mezzo per continuare a essere presenti nel Mediterraneo.

La convinzione della necessità di avere dei territori oltremare andava però riqualificata e dotata di argomenti validi, in grado cioè di ridare credibilità ad un colonialismo tutt'altro che privo di ombre. Era un'operazione piuttosto difficile e che in ogni caso avrebbe potuto fornire solo una nuova facciata, visto che la storia non poteva essere riscritta. Si cercò così di puntare sullo sforzo fatto dall'Italia per imprimere una direzione di progresso alle economie arretrate di Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, e ancora si parlò di valorizzazione delle risorse locali, di necessità di salvaguardare gli interessi dei connazionali residenti in Africa e dell'idea di missione civilizzatrice. Erano argomenti che riprendevano nella sostanza i concetti utilizzati dal fascismo per giustificare l'impresa etiopica e si scontravano con la verità storica che raccontava di violenze e soprusi legati sia alla conquista dell'Etiopia sia a quella precedente della Libia. Nonostante la loro manifesta pretestuosità queste argomentazioni trovarono il sostegno sia del governo sia delle opposizioni e diventarono la base di quella politica di cooperazione con i paesi arabi che costituì in quegli anni, e fino al maggio '49, la strategia mediterranea.

L'accanimento con il quale Palazzo Chigi sostenne la linea coloniale, anche quando "era divenuto ormai chiaro che gli alleati non avevano nessuna intenzione di dare soddisfazione all'Italia", dipendeva dalla convinzione, ormai instaurata anche nell'opinione pubblica, che l'affermazione della tesi coloniale equivaleva alla sopravvivenza dell'Italia come potenza. Un'equazione quest'ultima, pericolosa quanto sbagliata, che avrebbe creato al momento della perdita definitiva dei possedimenti africani una forte delusione e un'impressione di sconfitta totale. Comunque, fino a quel momento del maggio '49, le autorità italiane fecero di tutto per indurre le potenze vincitrici a non umiliare l'Italia anche sul fronte coloniale.

A più riprese si tentò di mercanteggiare l'adesione al sistema atlantico con la richiesta di amministrazione della Libia, dell'Eritrea e della Somalia, "senza rendersi conto che da parte degli alleati questa possibilità era ormai esclusa, e forse non era mai stata presa in considerazione". Purtroppo però solamente alcuni esponenti della classe diplomatica come l'Ambasciatore a Parigi, Pietro Quaroni, e quello a Washington, Alberto Tarchiani, dimostrarono lungimiranza denunciando l'ostinazione coloniale del governo come anacronistica.

Nell'ottobre 1947 Quaroni scriveva al Ministro degli Esteri Sforza: "Bisogna che noi cominciamo col dire che noi vogliamo che le nostre ex colonie siano indipendenti, indipendentissime: che cominciamo col dire come sarà e come dovrebbe essere organizzato questo Stato nuovo che dovrà prendere vita sul territorio delle nostre ex colonie; e come noi intendiamo aiutare nel più breve tempo possibile questo Stato nuovo ad essere del tutto indipendente". 
Secondo l'Ambasciatore la lotta per la difesa delle colonie era persa in partenza perché combattuta con armi logore. Essa doveva dunque essere abbandonata, sia per non continuare a investire energie importanti in una battaglia assurda, sia per la convenienza di lasciare il campo coloniale nel modo più indolore e proficuo. Le riflessioni profetiche di Quaroni non ottennero però ascolto, così, forse più che altro per pararsi dalle accuse di debolezza che piovevano dall'opposizione, che non per convinzione personale, i titolari di Palazzo Chigi proseguirono fino all'aprile '49 sulla linea della rigidità e della rivendicazione globale di tutti i possedimenti. Solo allora la diplomazia italiana decise di tentare la strada del compromesso.

Fu abbandonata l'intransigenza dei mesi precedenti e si arrivò (il 6 maggio) all'accordo stipulato tra i due ministri degli esteri, di cui si è parlato sopra. La delusione e l'amarezza per la bocciatura all'ONU dell'accordo Bevin-Sforza furono tanto più profonde in quanto alla questione dei possedimenti africani il governo aveva legato il concetto di sopravvivenza del Paese come potenza. Il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri ritenevano personalmente preferibile abbandonare la partita (in questo si allineavano con il parere dell'Ambasciatore a Parigi Quaroni), ma agivano in senso contrario per evitare ulteriori umiliazioni ad un'opinione pubblica che già ferita da un durissimo trattato di pace non voleva accettare l'idea di rinunciare ai possedimenti africani. 
Nei giorni successivi alla bocciatura del piano anglo-italiano da parte delle Nazioni Unite, il governo fu travolto dalle critiche mosse sia dall'opinione pubblica, profondamente colpita da quella che come si è già visto era considerata una sconfitta, sia dall'opposizione di destra che lo accusava di scarsa incisività. Oltretutto, il governo doveva trovare il modo di difendersi dalle accuse dei comunisti che mettevano in rilievo come l'adesione al Patto Atlantico non avesse rafforzato la posizione italiana nel mondo, anzi avesse messo, così sembrava, il futuro del Paese nelle mani di Washington e Londra. Questo attacco congiunto delle forze politiche e dell'opinione pubblica provocò alla fine di maggio una vera e propria svolta che portò ad un completo ripensamento della politica mediorientale italiana.

L'obiettivo ultimo rimaneva inalterato: confermare la presenza del paese nel Mediterraneo, mentre gli elementi predisposti per raggiungerlo subivano una completa revisione. La nuova strategia doveva adeguarsi ad una situazione completamente mutata e doveva farlo in fretta. Perciò quella che maturò nel giro di pochi giorni fu una svolta imposta dalla serie di continui fallimenti e non da un processo autonomo di ripensamento. "La nuova politica era figlia di una situazione di debolezza e dell'esigenza di capovolgere in segno positivo una circostanza negativa: l'anticolonialismo era la risposta italiana alla crisi del suo colonialismo."

La presentazione ufficiale della nuova linea ebbe luogo il 31 maggio. Il presidente del Consiglio ne illustrò i contenuti ai delegati libici ed eritrei di passaggio a Roma nel viaggio di ritorno da Lake Success. De Gasperi dichiarò che il governo italiano intendeva favorire la piena indipendenza delle sue antiche colonie, indipendenza che a suo avviso poteva realizzarsi immediatamente per l'Eritrea e la Libia e a breve scadenza per la Somalia. Sui motivi di questo ripiegamento non ci sono dubbi. Esso fu causato dalla necessità di far fronte ad una sconfitta che altrimenti avrebbe portato l'Italia all'esclusione totale dal Mediterraneo. Ponendosi su questo piano il paese anticipava involontariamente i risultati di un anticolonialismo crescente, sebbene agli esordi, che nei successivi dieci anni avrebbe portato alla fase più proficua della decolonizzazione.

Grazie a questa svolta l'Italia si ripresentava in Medio Oriente come la paladina dei paesi arabi, il ponte fra Europa e Africa. Così l'opzione anticoloniale diventava uno strumento positivo per una politica di avvicinamento al mondo arabo, che mostrava buone possibilità di riuscita proprio perché adesso il paese avrebbe potuto meglio comprendere le aspirazioni di autonomia e indipendenza di quei popoli, ancora sottoposti a limitazioni di sovranità. Nell'impostare questa nuova politica, le autorità italiane non dovevano però sottovalutare gli inconvenienti che essa portava con sé. Innanzitutto dovevano stare molto attente a che l'anticolonialismo non venisse interpretato come nuovo colonialismo mascherato dalle buone intenzioni; in secondo luogo, dovevano dimostrare agli alleati come una politica filoaraba fosse compatibile con gli impegni atlantici.

Si chiedeva cioè all'Italia di sciogliere l'eterno dilemma della sua politica estera che ormai per tradizione era divisa tra slancio europeistico e velleità mediterranee. La soluzione fu trovata nell'assunzione da parte dell'Italia di una nuova funzione di cooperazione e mediazione tra oriente e occidente. I grossi vantaggi economici e politici che potevano essere offerti da una penetrazione nel mondo arabo acquistavano adesso maggior valore poiché sembravano in grado di porre il paese come anello di collegamento tra la civiltà europea e quella araba.
"Tradotta su un piano concreto, l'aspirazione italiana era di assumere la leadership di un processo di rinnovamento morale e culturale del mondo mediterraneo, agendo da punto di raccordo fra civiltà occidentale e civiltà araba. Su questo terreno avveniva la saldatura tra interessi nazionali e interessi della comunità atlantica e europea."

Oltretutto, non era da trascurare il fatto che con questa politica l'Italia avrebbe contribuito a creare una barriera capace di respingere eventuali pressioni sovietiche sul Medio Oriente. Era su questa natura anticomunista della sua manovra che il governo insisteva per raccogliere i consensi degli alleati occidentali. Altre circostanze sembravano poi confermare la bontà della scelta proaraba. Esasperato dalla questione palestinese, il nazionalismo arabo aveva reso difficili i rapporti con quelle potenze che come la Gran Bretagna e la Francia avevano dominato per lungo tempo la zona, e aveva fatto sorgere dei sospetti anche sulla presenza americana, pregiudicata, agli occhi degli arabi, dalla tendenza ad appoggiare Israele.

Sicché tutto sembrava aprire nuovi spazi ad un paese come l'Italia che potendo contare su un'ottima posizione geografica e su una multiforme tradizione di contatti ed associazioni con il mondo arabo sembrava essere, almeno giudicando da queste premesse, l'ideale sostituto delle vecchie potenze coloniali. La realizzazione di queste premesse ipotetiche era però resa difficile se non impossibile dalla debolezza strutturale del paese e dal ristretto margine che il gioco politico internazionale lasciava all'Italia.
La scarsa influenza diplomatica che Roma avrebbe potuto esercitare sulle discussioni inerenti i delicati equilibri del settore mediorientale era la conferma del perdurare di quella povertà di risorse economiche e politiche che ostacolava la realizzazione degli obiettivi di palazzo Chigi. Tenendo conto, più o meno consapevolmente di tutti questi elementi, il governo italiano si apprestava a realizzare una politica filoaraba che puntava sugli scambi culturali ed economici.

La seconda guerra mondiale e il nuovo ordine internazionale che era seguito alla conclusione del conflitto avevano imposto un nuovo equilibrio e nuove dinamiche tra gli stati. La decolonizzazione, peraltro fenomeno non nuovo, faceva il suo ingresso come uno dei protagonisti della nuova epoca e costringeva l'Europa a guardare in faccia una realtà nella quale il centro politico dell'universo non era più il vecchio mondo. Nella definizione dei due blocchi contrapposti si ridisegnava un equilibrio di potere all'interno del quale la "piccola" Italia sarebbe stata costretta a muoversi con molta attenzione.
La politica estera veniva ripensata da De Gasperi e Sforza e il Mediterraneo vedeva riconfermata la sua centralità. Con i nuovi strumenti indicati dall'assetto postbellico, Roma si apprestava a proseguire, senza soluzione di continuità, una politica mediterranea che fin dall'inizio della storia unitaria del paese si era presentata come un elemento di grande importanza e interesse.

I PRECEDENTI

Negli anni che vanno dal 1861 alla seconda guerra, questa tendenza a espandersi verso i paesi arabi del Medio Oriente venne perseguita con una politica di conquiste che assomigliava del tutto al colonialismo in quanto ne usava gli strumenti e le giustificazioni, pur allontanandosi da esso per le sue dimensioni, diciamo, ridotte. In un'epoca (gli ultimi venticinque anni dell'800) in cui Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda e, in misura minore Stati Uniti, conquistavano il mondo in nome della diffusione di un superiore progresso europeo, dell'espansione economica, del raggiungimento di una dimensione di grande potenza che poi avrebbe avuto riflesso nell'equilibrio tra gli stati del vecchio centinente, la giovane Italia costruiva a fatica se stessa senza dimenticarsi, seppure in seconda battuta, dell'importanza di riqualificare la sua posizione tra i colossi europei.

Così, più per acquisire un prestigio inesistente che per convinzione radicata nelle menti dei capi della diplomazia, negli anni '80 del XIX secolo anche Roma tentò un approccio, tuttavia rivelatosi maldestro, al colonialismo di conquista. Proprio perchè improvvisato e condotto senza la ricchezza economica di cui le altre potenze potevano disporre, il colonialismo italiano soffrì oltretutto della posizione debole che il Paese occupava tra gli altri stati del continente. In buona sostanza questa condizione di debolezza e povertà costrinse Roma ad una politica coloniale episodica riproposta di quando in quando senza criterio. Il fatto di non essere una grande potenza legò sicuramente, almeno in parte, le mani all'Italia.

Più di una volta, e basti ricordare la rinuncia forzata alla Tunisia, dichiarata terra di espansione francese durante il congresso di Berlino del 1878, nell'ambito di una politica tra stati condotta in nome della diplomazia segreta che stabiliva assetti e sistemazioni a tavolino, il paese dovette accettare, seppure a malincuore, di rimanere estraneo e intoccato dalle manovre con le quali il mondo intero veniva spartito.

Il primo atto della storia coloniale italiana fu l'acquisto della baia di Assab nel mar Rosso, nel 1869. Il governo anticipò i fondi mentre l'armatore genovese Rubattino, spinto dalla prospettiva di un incremento del traffico commerciale nel Mediterraneo, che sembrava realizzabile dopo l'apertura avvenuta in quello stesso anno del canale di Suez, diede la sua copertura all'impresa. Realizzando un'idea lanciata da Giuseppe Sapeto, un ex-missionario che aveva a lungo viaggiato e vissuto in Africa orientale, l'Italia poneva le basi dell'espansione nel continente nero. L'acquisto della baia di Assab, una striscia di terra di 6 chilometri costata allo stato 30.000 lire, avvenne il 15 novembre 1869 ma rimase per lungo tempo priva di seguito. L'arida ed assolata costa del mar Rosso apparteneva all'Egitto che protestò energicamente e cancellò in breve ciò che l'Italia aveva fatto per rendere visibile la sua presenza.

Peraltro si capì ben presto che gli interessi economici erano ben limitati e il commercio verso l'oriente alquanto faticoso e privo di reale sostegno da parte delle autorità. Furono motivazioni, queste ultime, che bastarono a frenare ogni successiva iniziativa. Solo nel 1882, lo stato italiano rilevò a Rubattino la concessione sulla baia egiziana e riorganizzò, ampliandoli attraverso nuovi acquisti, i possedimenti africani dell'Italia. Ne seguì, tre anni dopo, la facile occupazione di Massaua andata a buon fine più per la rinuncia a difendersi decisa dai capi abissini impegnati nel contrasto con i sudanesi che minacciavano di occupare la parte settentrionale dell'Etiopia, che per il puro merito dell'azione orchestrata da Roma.

Fin da questi primi passi, il colonialismo italiano mostrava di non essere ben congegnato e finalizzato, di non avere motivazioni economiche serie e di non godere, oltretutto, dell'appoggio della popolazione, per la maggior parte ostile a imprese tanto costose quanto pretestuose. La conferma di quanto appena affermato non tardò a venire. Incoraggiato dalla conquista di Massaua il governo di Roma organizzò una successiva espansione che si scontrò con il contingente indigeno guidato dal ras Alula. Questi uomini, di cui la preparazione a combattere fu costantemente sottovalutata attaccarono il fortino italiano a Dogali infliggendo, il 26 gennaio 1887, al colonnello De Cristoforis una sonora sconfitta che costò la vita a molti giovani. L'episodio allarmò l'opinione pubblica italiana e suscitò un'ondata generale di proteste che ben indicavano quanto poco radicata fosse l'adesione ad un colonialismo complessivamente non condiviso da un paese ancora troppo giovane per porsi velleità di potenza. La sufficienza con la quale il governo aveva gestito questa prima prova di conquista non bastò però per modificare un atteggiamento basato totalmente su vane speranze affidate alla presunta ignoranza di una popolo, quello abissino, reputato primitivo.

Il trattato di Uccialli, stipulato tra l'Italia e il negus Menelik dal governo di Crispi nel 1889, fu infatti interpretato da Roma come una sorta di via libera all'espansione italiana nella regione.
Il Primo ministro, uomo determinato a fare del suo paese una potenza di rilevanza mondiale, riaprì la partita coloniale nel 1893. Appena tornato al governo pensò che oltretutto un nuovo tentativo di conquista fosse un buon sistema per distrarre l'opinione pubblica dalla crisi economica e dalla fortissima tensione sociale causata dalla rivolta dei Fasci siciliani.
Nei tre anni successivi, i segni incoraggianti furono veramente pochi, ma questo non servì a fermare o a far indietreggiare Crispi. Convinto che nulla avrebbe potuto fermare la corsa dell'Italia verso la conquista del suo "posto al sole", il capo del governo indicò come obiettivo la conquista dell'Etiopia.
Il negus Menelik, che con il trattato di Uccialli tutto pensava di aver concesso fuorché il protettorato italiano sull'intera zona, raccolse tutte le sue forze e si preparò allo scontro. La battaglia di Adua fu combattuta il 1° marzo 1896 da un contingente italiano tre volte inferiore alle forze messe insieme dal negus. Queste ultime costrinsero i loro avversari ad una resistenza disperata e infine ad una pietosa ritirata: 5000 italiani e 1000 eritrei persero la vita. La sconfitta ebbe anche immediate ripercussioni sul governo. Crispi si dimise salutando per sempre gli scranni governativi sui quali non si sarebbe più seduto e stendendo al contempo un velo su ogni impresa espansionistica. Lo sostituì Di Rudinì: un uomo di destra deciso anticolonialista con inclinazioni pacifiste.

Le imprese africane furono abbandonate e il governo si limitò a firmare con Menelik una pace sommaria. Qualche anno più tardi le terre eritree vennero riorganizzate di pari passo ai primi tentativi di allargamento verso la Somalia. Era un tentativo per non abbandonare definitivamente i sogni imperiali che sarebbero risorti solo dopo avere curato e dimenticato le ferite patite a Dogali e Adua. Nel 1911 il governo guidato da Giolitti giudicò che era giunto il momento per riprendere in mano il discorso interrotto con la sconfitta del 1896.
Erano ormai passati 15 anni e quella stessa borghesia, quella parte del Parlamento che aveva ostinatamente rifiutato le improvvisate conquiste africane, ora appoggiava compatta e supportata da una valida e incessante campagna di stampa la nuova fase del vecchio colonialismo. Si arriva con la logica a immaginare che la Libia dei primi anni del '900, ovvero il paese più povero del Mediterraneo di allora non fosse un bocconcino appetibile. Prima della scoperta dei giacimenti di petrolio il territorio di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan era solo, come venne chiamato, un immenso scatolone di sabbia. Le falde acquifere, quasi inesistenti, il clima torrido che provocava continue carestie, non permettevano di certo la pianificazione di un'agricoltura produttiva che facesse concorrenza a quella dell'Italia meridionale diventando così la nuova casa dei molti cittadini che migravano, a quei tempi, verso Germania e Stati Uniti. In conclusione la Libia non poteva essere un buon investimento per l'economia del paese.

Ma il fascino che emanava era dato dal fatto di essere l'unico paese africano ancora libero da legami coloniali. Francia e Gran Bretagna, Belgio e Olanda avevano occupato buona parte dei territori del grande continente nero realizzando un sistema coloniale che nel caso della prima tendeva a sostituirsi ai locali indicando loro una nuova forma di governo, una nuova economia, una nuova classe dirigente e governativa formata per lo più da francesi disposti a trasferirsi, mentre nel caso del Regno Unito puntava ad una gestione meno invasiva basata sulla fiducia accordata agli indigeni legati alla potenza imperiale da trattati in vario modo vincolanti.
La debole e povera Italia doveva così, qualora avesse voluto, accontentarsi delle briciole. L'unico territorio ancora disponibile nel 1911 era la Libia e questo sembra l'unico vero motivo alla base della scelta di trasformare quell'arido deserto prima della scelta del territorio da conquistare. Perché un paese che aveva già avuto risultati disastrosi in materia di conquiste e che oltretutto aveva raggiunto un buon livello di sviluppo economico avrebbe dovuto tentare nuovamente la strada del colonialismo? La risposta è facile se si pensa che questo tipo di imprese anche in passato avevano avuto il solo scopo di distrarre l'opinione pubblica da situazioni complicate attinenti alla politica interna. Lo sviluppo industriale conseguito dal paese provocò in quegli anni di inizio secolo un forte aumento della conflittualità sociale.

I movimenti operai acquistavano una certa importanza e le destre nazionaliste chiedevano che l'Italia ponesse fine in qualche modo alla condizione per la quale gli alleati europei, Austria-Ungheria e Germania, nonostante la triplice Alleanza stipulata nel 1882 imponesse consultazioni preventive in caso di espansione oltre i confini statali, si erano potuti permettere di decretare l'annessione della Bosnia-Erzegovina all'Austria senza interpellare Roma. Praticamente ciò che le destre chiedevano era la fine della debolezza che costringeva il paese a stare ai margini delle relazioni e delle decisioni internazionali, che costringeva a rinunciare al completamento della propria unità territoriale e che costringeva, oltretutto, molti italiani a lasciare il paese per cercare lavoro altrove. In questa situazione molto fluida e mutevole ebbero fortuna le teorie dello scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all'interno di un paese bensì quello tra paesi ricchi e poveri, tra "nazioni capitalistiche" e "nazioni proletarie", cioè con un'eccedenza di popolazione rispetto alle risorse economiche.

Applicata all'Italia, questa teoria portava a una contrapposizione nei confronti delle democrazie occidentali, a una ripresa dell'iniziativa coloniale che avrebbe dovuto assorbire le spinte sociali indirizzandole verso gli obiettivi imperiali. In questo clima politico si costituì un movimento nazionalista che basandosi sulle idee di Corradini si diede nel 1910 una struttura organizzata con la fondazione dell'Associazione nazionalista italiana. Confluivano, in quest'ultima, elementi eterogenei ma d'accordo nella convinzione che l'Italia dovesse elevarsi dalla condizione di potenza di secondo rango attraverso un'impresa coloniale che ne avrebbe mostrato il valore.
Questo gruppo che si ispirava in tutto e per tutto alle idee di Corradini aprì, dalle colonne del nuovo periodico romano "L'idea nazionale" una martellante campagna di stampa in favore della conquista della Libia. Rafforzati dall'appoggio dato loro dai gruppi legati alla Banca di Roma, che da tempo era impegnata in una penetrazione economica nella regione africana, i membri dell'Associazione nazionale contribuirono non poco a spingere l'Italia verso l'intervento che ebbe luogo nel 1911 in seguito alla imminente estensione al Marocco del protettorato francese.

Nel settembre di quello stesso anno, Giolitti mandò in Libia un contingente di 35.000 uomini che si scontrò in un primo momento con la reazione dell'Impero turco, tutore nominale della regione africana. La guerra fu più lunga del previsto e vide l'allargamento delle ostilità alle isole di Rodi e del Dodecaneso. Solo nell'ottobre 1912 la pace di Losanna consegnava nelle mani italiane la Libia. La guerra in realtà, nonostante in patria si dicesse che il paese africano fosse ormai sotto la sovranità del governo di Roma, non cessò dopo la pace, ma continuò per lungo tempo.
Le popolazioni nomadi della zona non si arresero al passaggio di sovranità decretato dalla pace di Losanna e continuarono una resistenza che costò vite umane e denaro ad un'Italia che nel frattempo pubblicizzava il bel risultato. Negli anni successivi, tutto ciò che si era atteso dalla conquista di un proprio impero coloniale mostrò la propria vacuità. Non ci fu nessun beneficio economico e pochissimi italiani furono disposti a colonizzare un deserto che certo non reggeva il confronto con le promesse e le speranze che sapevano regalare l'idea di una migrazione negli Stati Uniti o in Francia.
Oltretutto neanche le motivazioni politiche trovarono soddisfazione. Giolitti che aveva creduto di pacificare i contrasti sociali interni al paese e di mettere a tacere le spinte estreme dei gruppi di destra, per poi riprendere il suo riformismo basato sul controllo e la cristallizzazione delle dinamiche interne ed esterne al Parlamento, lasciò la guida del governo nel maggio 1914 di fronte alla constatazione che a nulla era valso il suo tentativo di soluzione di contrasti sociali che era giusto l'Italia vivesse in quel momento di fermento diffuso a tutta l'Europa.

Chiusa la campagna di Libia e concretamente sepolta la possibilità di integrare il territorio africano nelle dinamiche di crescita dello stato italiano, il colonialismo visse di nuovo un momento di totale oblio. Fu un momento, a dire il vero, parecchio lungo, che durò fino al 1935. Questa episodicità del colonialismo italiano, come si è già detto, denuncia l'incapacità del paese a perseguire con una certa continuità una presunta vocazione coloniale vagamente e genericamente civilizzatrice per niente presente negli interessi e nelle facoltà di uno stato troppo debole e di marginale importanza. E conferma allo stesso tempo la volontà di usare le imprese coloniali come mezzo attraverso il quale dare prestigio al paese.

In questa accezione rientra anche la prova "trionfale" che portò Mussolini alla conquista dell'Etiopia. Analizzando i moventi dell'impresa troviamo una stupefacente coincidenza tra quelli addotti dal regime fascista e quelli che 15 anni prima avevano spinto l'Italia giolittiana ad un'analoga impresa. Ancora ritornano le mire di grandezza, adesso più accentuate trattandosi di un regime totalitario o che almeno aspirava ad esserlo, e ancora parliamo della conquista dell'Etiopia come di un pretesto per distrarre la popolazione dalle difficoltà economiche giunte in Italia con la crisi che alcuni anni prima, nel 1929, aveva catastroficamente colpito gli Stati Uniti. Fu diversa l'adesione dell'opinione pubblica, in verità uguale a quella tenuta nei confronti dei tentativi coloniali ottocenteschi.

Nel '35 l'Italia non sentiva la necessità di un'impresa che sarebbe costata molto ad un paese già in crisi. Le vicende della conquista dell'Etiopia furono così seguite con un certo disinteresse fino al giorno in cui, la decisione della Società delle Nazioni di applicare sanzioni economiche al paese, accusato di avere attaccato senza motivo uno stato libero, provocarono un'ondata di patriottismo che riuscì a coinvolgere, nel nome della difesa di una nazione alla quale per invidie insane la comunità internazionale tentava di impedire la conquista di un proprio impero, intellettuali antifascisti come Benedetto Croce.
I giornali fecero anche di più, dalle loro pagine inneggiavano "l'italia guerriera".


Nonostante le difficoltà causate dalle sanzioni, l'Italia riuscì comunque a conquistare l'Etiopia il 6 maggio 1936, quando le truppe capeggiate dal maresciallo Badoglio entrarono trionfalmente ad Addis Abeba. La vittoria, che diede a Mussolini la corona di imperatore, fu un indubbio successo politico sul piano interno. Molti italiani ebbero la sensazione che finalmente il paese avesse acquisito uno status di grande potenza anche a dispetto e contro i colossi occidentali. In realtà il contingente fascista ebbe la meglio contro un esercito formato da uomini non abituati a combattere, mal equipaggiati e decisamente molto meno numerosi. Questa prova perciò non poteva essere letta come una verifica della forza italiana. Le successive vicende avrebbero mostrato che la penisola non era in grado di affrontare uno scontro con una grande potenza, ma la vittoria conseguita in Etiopia dette a Mussolini la sensazione di poter condurre una politica aggressiva e lo spinse a consolidare il legame in precedenza abbozzato con la Germani nazista. L'ultima impresa coloniale della storia italiana prerepubblicana ha infatti come unico movente la necessità di tenere il passo dell'alleato con il quale dal maggio 1939 il regime mussoliniano aveva stipulato il cosiddetto "Patto d'acciao".

La successiva occupazione dell'Albania fu infatti un tentativo unilaterale messo in piedi dal duce per cercare di porsi come polo di potere a fianco del dittatore tedesco che a quell'epoca aveva già annesso al suo impero l'Austria e si apprestava a concludere l'occupazione dei Sudeti.

La catastrofe della guerra azzerò ogni conto. L'Italia trattata alla stregua di nazione sconfitta perse automaticamente il diritto alle colonie conquistate durante il ventennio fascista e vide messa in discussione la presenza nelle colonie prefasciste. Ciò che successe negli anni dopo la guerra lo abbiamo già visto all'inizio di questa trattazione che si potrebbe concludere con una riflessione sul dilemma di una nazione costretta a comportarsi come una potenza per acquisirne il rango, ma assolutamente incapace, per debito strutturale e debolezza cronica, di giocare in quel ruolo.

(Ndr. - Ed anche all'ONU, questa debolezza cronica si farà sentire. Probabilmente le due potenze che erano alleate all'Italia, Germania e Giappone, e che uscirono dal Grande Conflitto perdenti (ma non proprio del tutto umiliate come l'Italia) riusciranno a sedersi fra i 5 membri permanenti all'Onu, accanto all'Inghilterra e alla Francia. 

ILARIA TREMOLADA

BIBLIOGRAFIA
Le guerre coloniali del fascismo, a cura di Angelo del Boca, Laterza, Roma-Bari, 1991.
Mussolini e la conquista dell'Etiopia, di Renato Mori, Le Monnier, Firenze, 1978.
Libia ed Etiopia nella politica coloniale italiana (1918-1919), di Vanni Clodimiro, Quaderni dell'Istituto di Studi Storici, 1986.
Guerre italiane in Libia e in Etiopia, di Giorgio Rochat, PAGVS, Padova, 1991.
La conquista dell'Etiopia, di Paolo Gentizon, Hoepli, Milano, 1937.
La politica estera dell'Impero, di Fulvio D'Amoja, Cedam, Padova, 1967.
Venti anni di politica estera, di Paolo Cacace, Bonacci, Roma, 1986.
Il colonialismo italiano, di Giorgio Rochat, Loescher, Torino, 1988.
L'età degli imperi, 1875-1914, di Eric Hobsbawm, Laterza, Roma-Bari, 2000.