NASCITA DELLA PSICOFISICA, PSICOLOGIA E PSICANALISI



Il grande sviluppo delle scienze “esatte” (come la fisica o la chimica) nell’800 convinse molti studiosi ad impostare anche le nascenti scienze “umane” su basi scientifiche. Grande sviluppo ebbero nell’800 gli studi di psicofisica e psicologia (già iniziati nel ‘700) che però talvolta ebbero caratteristiche disomogenee: molte ricerche seguirono metodi sperimentali, ma altre si ispirarono a considerazioni filosofiche non sempre legate alla realtà(1).

Principale centro di questi studi fu la Germania, anche sulla spinta della filosofia materialista di Herbart (N. 71). Negli anni intorno al 1860 Ernst H. Weber e Gustav T. Fechner   studiarono con metodi sperimentali i rapporti tra stimolo esterno ed intensità delle sensazioni, argomento centrale della “psicofisica”, stabilendo delle leggi sperimentali ed anche una scala logaritmica per gli stimoli, come viene ancora usata in acustica con la scala dei Decibel.  Wilhelm Wundt (1832-1920), allievo di Helmholtz, svolse anch’egli esperimenti su sensazioni, tempi di reazione agli stimoli, ed intensità dell’attenzione, rinunciando a sperimentare su attività mentali superiori tipiche della “psicologia” (come ragionamento, linguaggio, giudizio, memoria, emozioni), oggetto secondo lui solo di filosofia.

Anche l’olandese Franciscus Donders (1818-1889), autore dell’opera “Cronometria Mentale” del 1860, svolse ricerche sperimentali sui tempi di reazione basate sul metodo detto della “sottrazione”, in cui erano confrontati tempi relativi a stimoli semplici con tempi relativi a stimoli composti, o necessitanti di una scelta. Questo metodo, abbandonato per molti decenni, è stato poi ripreso nell’ambito della moderna “Psicologia cognitiva”, affermatasi nella seconda metà del ‘900.

 Hermannn Ebbinghaus (1830-1909) e Georg E. Müller (1850-1934) svolsero invece studi sperimentali sulla memoria. Il primo effettuò anche misure dell’intelligenza dei bambini, mentre il secondo si avvicinò poi alle idee di Mach (N. 95), che valorizzava le sensazioni come dati primari della conoscenza, ed a quelle della “Gestalt”, movim̈ento di cui ci interesseremo più avanti, che privilegiava i processi mentali coscienti (non automatici).

Su posizioni neo-kantiane si pose Ewald Hering (1834-1918), che si interessò essenzialmente di percezione visiva: ritenne – infatti - che la percezione dello spazio fosse innata ed immediata (“Innatismo”), a differenza della posizione degli empiristi (cui si ispiravano anche Helmholtz Wundt) secondo cui era di origine empirica, ed era frutto di un processo di apprendimento attraverso esperienze ripetute. Anche Karl Stumpf (1848-1916), che si interessò di percezione visiva e psicologia della musica, fu sostenitore dell’Innatismo neo-kantiano e si avvicinò anche alla Fenomenologia di Husserl (N. 99) ed al pensiero – anch’esso vicino alla Fenomenologia - di Franz Brentano (1838-1917) che sosteneva il concetto di “intenzionalità della coscienza” che si rivolgerebbe a contenuti anche non derivati dalla realtà, ed a rappresentazione di giudizi ed affetti.

Il filosofo “empirio-criticista” Richard Avenarius (che già vedemmo al numero precedente su posizioni simili a quelle di Mach), pur riconoscendo che coscienza ed esperienza dipendono dal sistema nervoso centrale, fu avversario di ogni “meccanicismo” e sostenne l’esistenza di dati fisico-percettivi indipendenti dal sistema nervoso, a metà strada tra fisico e psichico, che rappresenterebbero una specie di “esperienza pura” (concetto in cui è evidente l’influenza della Fenomenologia).

Le teorie di Mach ed Avenarius furono riprese da Oswald Külpe (1862-1915) – fondatore della Scuola di Würzburg - che fu influenzato anche dalla Fenomenologia di Husserl ed esaminò stati di coscienza non direttamente legati all’esperienza. Egli riteneva che spazio e tempo fossero aspetti solo fenomenologici e fu sostenitore del metodo introspettivo (cioè guardare entro sé stessi) per determinare i meccanismi psicologici. Külpe fu influenzato – come anche il già citato Stumpf – dal pensiero di Brentano. Anche Christian Von Ehrenfels (1795-1876), continuatore dell’opera di Brentano, fu influenzato dal pensiero di Mach: sostenne (come faranno anche i membri della Gestalt) che la “forma” dello spazio e del tempo è diversa dai singoli elementi che lo compongono.

All’inizio del ‘900 l’inglese Edward Titchener (1867-1927), allievo di Wundt, poi trasferitosi negli Stati Uniti, si interessò alla struttura della mente (Strutturalismo), vista come intreccio di elementi distinti: sensazioni, affetti, e concetti.  Contrario allo strutturalismo fu il filosofo statunitense William James (1842-1910) di cui scrivemmo già in precedenza (N. 98). Egli, soprattutto nell’opera del 1890 “Principi di Psicologia”, vide nell’attività della coscienza, nelle sue motivazioni e nei processi di apprendimento, un processo continuo, non divisibile in elementi separati, di adattamento all’ambiente (Funzionalismo).

All’inizio del ‘900 nasceva anche la psicologia della “Gestalt”, cioè della “forma” (in tedesco), in quanto i membri del gruppo che prese questo nome ritenevano che nel processo percettivo la mente riuscirebbe a scegliere la forma migliore completando con un processo cosciente e continuo, configurazioni percettive parziali incomplete. L’iniziatore di questa corrente, il ceco Max Wertheimer (1880-1943), sosteneva nel 1912 che il movimento ci appare come un tutto unico, e non come una serie di sensazioni staccate. Il pensiero si rivolge sempre ad una totalità organizzata. Un altro membro del gruppo, Wolfgang Kohler (1887-1967) sosteneva che la percezione della forma è un tutt’uno, ed è immediata, e che le dinamiche fisiche, neurologiche e psicologiche seguono percorsi analoghi. Sarebbe così superato il conflitto mente-corpo. I membri della Gestalt, tra cui si distinse anche Kurt Koffka (1886-1941), sotto l’influenza della Fenomenologia, valorizzavano l’esperienza immediata, negando l’importanza fondamentale delle esperienze precedenti e dei processi analogici che ne derivavano, ed affermando che l’atto dell’intelligenza è immediato (una specie di illuminazione). Kohler (che si trasferì poi negli USA come Koffka e Wertheimer) effettuò anche esperimenti con gli scimpanzè privi di singole prove specifiche (come il superamento di labirinti, ecc.) per dimostrare che l’intelligenza degli animali è capace di una valutazione intuitiva diretta e complessiva dei problemi. La corrente della Gestalt rifiutava l’automatismo dei processi inconsci privilegiando i processi coscienti.

Contemporaneamente in Inghilterra Francis Galton (1822-1911), influenzato da Darwin, dette grande importanza all’ereditarietà; fece studi statistici sui comportamenti umani e ricerche sulle associazioni mentali inconsce; effettuò test mentali che ebbero poi grandi sviluppi negli Stati Uniti. Anche Alfred Binet (1857-1911), in Francia, fece misurazioni dell’intelligenza dei bambini, anch’esse molto apprezzate negli USA. In quest’ultimo Paese la psicologia si orientò sempre più verso la psicometria e la psicologia del lavoro, e poi, sotto l’influsso del filosofo Dewey, verso la psicologia “funzionale” già adottata da James, cioè intesa come adattamento all’ambiente. Sotto l’influenza dell’evoluzionismo si moltiplicarono gli esperimenti sulla capacità degli animali di apprendere e risolvere problemi dopo esperienze ripetute (come trovare l’uscita da gabbie e labirinti, ecc.) come quelli condotti dallo psicologo americano E. L. Thorndike (1874-1949) ed il tedesco trasferitosi negli USA Jacques Loeb (1859-1924).

Un altro americano H. Spencer Jennings (1868-1947) dimostrò che, contrariamente a quanto molti ritenevano, anche gli organismi più semplici erano dotati di un certo grado di coscienza e capacità di apprendimento. Anche John B. Watson (1878-1958), autore nel 1913 del manifesto della nuova filosofia “behaviorista”, cioè basata su studi di comportamento (“behavior” in inglese) che ebbe grande sviluppo negli anni ‘20, fece esperimenti sulla capacità di animali di superare un labirinto utilizzando la memoria di precedenti esperienze. Questi studi – come abbiamo visto, contestati dalla Gestalt – erano basati sul concetto che il comportamento è una risposta della mente (vista come una “scatola nera”) agli stimoli ambientali, e derivavano dalla psicologia “funzionale” di Dewey e James e dall’evoluzionismo. Una forma di “comportamentismo sociale”, che teneva conto degli stimoli dell’ambiente sociale. fu quella sviluppata da George Herbert Mead(1863-1931) negli anni ‘30.

Una base molto materialista e sperimentale ebbe anche la psicologia russa, i cui principali esponenti furono Ivan Sechenov (1829-1905), che sostenne che ogni azione psichica è causata da uno stimolo materiale, e Ivan P. Pavlov (1849-1936), nemico giurato di ogni “psicologia fumosa”. Celeberrimi sono gli esperimenti effettuati da quest’ultimo sui cani, i cui succhi gastrici si attivavano automaticamente, anche in assenza di cibo, se veniva ripetuto un segnale acustico che in precedenza era stato utilizzato in connessione con la distribuzione di cibo (teoria dei Riflessi Condizionati, sperimentata anche da Watson). Pavlov sosteneva che questo comportamento valeva anche nel caso dell’uomo per il quale esisteva anche un livello superiore, in cui i “segnali” significativi che causavano i riflessi erano simbolizzati attraverso il linguaggio.

In definitiva si può affermare che la psicologia è avanzata tra ‘800 e inizio ‘900 sia su un terreno sperimentale (Fechner, Weber, Wundt, Helmholtz, Donders, Pavlov, Thorndike, Watson, ecc.), sia seguendo suggestioni di filosofie neo-kantiane, fenomenologiche, ed empirio-criticiste (Hering, Külpe, Stumpf, Brentano, Ehrenfels, la Gelstat, ecc.) contenenti anche elementi irrazionalistici ed idealisti. Come vedremo, il complesso di questi studi influenzerà anche la psicologia e la filosofia del ‘900 inoltrato, in cui si affermeranno il “Costruttivismo”, la nuova psicologia sovietica (scuola storico-culturale), e soprattutto la “Psicologia cognitiva”, di cui ci occuperemo in un prossimo numero.

Un discorso a parte merita la nascita della Psicanalisi ad opera di Sigmund Freud (1856-1939), argomento troppo complesso per potèr essere trattato adeguatamente in questa sede. Freud, neurologo viennese ebreo poi emigrato a Londra per sfuggire ai Nazisti, era ateo e di cultura laica, e riteneva di doversi affidare ad un’indagine sperimentale attraverso lo studio dei sintomi mostrati da persone affette da isteria o nevrastenia (atti involontari, associazioni verbali, contenuti dei sogni, ecc.), come emerge ad esempio negli “Studi sull’Isteria” scritti insieme a Joseph Breuer.

 Riteneva che la naturale propensione della specie umana al desiderio sessuale già dall’età infantile, se rimossa per evitare conflitti tra desideri e realtà, avrebbe creato tensioni dolorose che potèvano essere scaricate indirettamente da attività mentali inconsce (“Es”). Freud presupponeva anche la presenza di un “Io” parzialmente cosciente, di una coscienza etica superiore (“Super-Io”) e la possibilità di una presa di coscienza attraverso un processo (curativo) di analisi. È discutibile se Freud sia pienamente riuscito nel suo intento, ma è da rimarcare l’atteggiamento antimetafisico e sperimentale che fanno della sua originale ricerca un tentativo apprezzabile, che ha dato luogo ad interessanti sviluppi e conferme, anche se non sempre adeguatamente trattato dai continuatori della sua opera.

Vincenzo Brandi 


Articolo tratto da "Conoscenza, scienza e filosofia"

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(1) L. Geymonat, “storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 e seg.

Perché il Dalai Lama tutto sommato piace alla chiesa...?



Come mai Papa Bergoglio non sparla del Dalai Lama (anche se lo snobba)?

Il motivo è semplice. Il Dalai Lama è sullo stesso piano degli altri religiosi cattolici, ortodossi ed affini. Il Dalai Lama non è un mistico ma un religioso ed un politico come il papa romano.
Ha una visione nobile della vita, ma poiché non sostiene a spada tratta solo il misticismo, non è considerato un avversario come tutti gli altri che fanno del misticismo la loro ragione di vita (Osho, Ramakrishna, Ramana Maharshi, Sai Baba, ecc.).

Il mistico è poco  interessato alle conoscenze scientifiche, se non per dire :"Ecco! Quello che la scienza ha scoperto
oggi lo dicevano i mistici di ventimila anni fa". Il Dalai Lama, invece,  è  attratto dalla scienza come qualsiasi uomo che vive nel Mentale. Il mistico che vive la maggior parte della sua giornata nella dimensione superiore, invece non se ne interessa molto.

Come capo religioso, il Dalai Lama è una persona squisita che tutti vorrebbero avere come amico, come fratello, ma è un religioso, come il papa romano. Ognuno di loro difende la propria religione. Il Dalai Lama non rinuncerebbe a credere nella reincarnazione e il papa non rinuncerebbe a credere nella resurrezione di Gesù.

Il primo è un uomo straordinario, il secondo molto sagace, ma sono entrambi interessati alla propria religione e, in questo senso, l'uno non è più  sottile dell'altro. La loro vita e le scelte sono governate da condizionamenti che essi accettano e ai quali difficilmente rinuncerebbero.

Per quanto il Dalai Lama sia più aperto, positivo e consapevole del papa romano, la sua strada è quella religiosa e non spirituale. Vi sembrerà un assurdo, ma domandiamoci se il Dalai Lama, per quanto intelligente e squisito, segua effettivamente l'insegnamento del Buddha. E non mi riferisco all'aspetto morale. Mi riferisco a quello metafisico, perché è di quello  che stiamo parlando.

I Maestri illuminati sono spirituali, mentre i loro rappresentanti sono religiosi. È una regola fissa, purtroppo. Tra il pensiero del papa e quelli di Gesù c'è un abisso. Tra quello del Dalai Lama e del Gautama Buddha c'è il ritualismo.

Anna Dossena



Nel "fare non fare" non v'è realizzazione...

"Un vero sufi siede assieme ai compagni, si alza e mangia, dorme, compra e vende al mercato, si sposa e partecipa alla società, e tuttavia mai per un momento dimentica Dio..." (Abu Sa'id ibn Abi al-khayr)



Mi scrive un'amica esprimendo i suoi dubbi "sul comportamento ideale da assumere al fine del compimento spirituale, seguendo l'esempio dei santi..." 

Le ho risposto dicendole che non si può dare una regola sulla base del  comportamento  di un santo. Il realizzato non si identifica più con un io, riferito al corpo ed alla mente, ma ha anch'egli un prarabdha karma (un destino della vita corrente) come qualsiasi altro essere umano. Persino ritenere che ci siano realizzati e non realizzati nella visione del santo è illusorio, poiché nella sua esperienza tutto è Uno ed indivisibile. 

A questo punto come si può ritenere che qualsiasi azione umana possa rappresentare una linea di demarcazione tra il presunto realizzato ed il presunto ignorante? Quello che i santi raccontano della loro vita è solo l'aspetto esteriore del loro specifico prarabdha karma, niente a che vedere con l'ipotetico "fare o non fare" ai fini della  "realizzazione".

Nella mia vita ho avuto la fortuna di incontrare diversi santi e dal loro comportamento ho ricevuto un insegnamento universale, mai in antitesi con le esigenze della mia vita. Loro hanno vissuto la loro vita nel modo che era loro dovuto, come io sto vivendo la mia vita nel modo che mi è dovuto. Ciò vale per chiunque. Inutile arrabattarsi sul fare non fare.

Quando si parla di ricerca spirituale non si intende il perseguire un sentiero codificato, una normativa fideistica, un’appartenenza ad un credo; il cercatore spirituale è semplicemente colui che guarda se stesso, colui che riconosce il Tutto in se stesso e se stesso come il Tutto.

Da questo punto di vista la ricerca spirituale può essere considerata un fatto strettamente personale. Conciliare la propria via personale con quella di chiunque altro significa saper fluire senza ostruire, apprendere e trasmettere senza pretendere, insomma si tratta di fare la pace con noi stessi e con gli altri.

 Paolo D'Arpini



“In accordo con il Prarabdha karma di ogni persona, l’Ordinatore controlla il destino delle anime in accordo con le loro azioni passate. Qualunque cosa sia destinata a non accadere non accadrà, per quanto ci provi. Qualunque cosa sia destinata ad accadere accadrà, per quanto si possa provare a fermarla.” (Ramana Maharshi)

Osho: "Iniziazione alla Meditazione" - Abstract



La meditazione è un cammino verso l'eternità. Ed è un viaggio senza fine, eterno, nel senso che la porta si apre e continua ad aprirsi... fino a divenire l'universo. La meditazione sboccia e fiorisce, e continua a farlo fino ad abbracciare il cosmo intero nella sua fioritura. Il viaggio è eterno: inizia, ma non ha mai fine. Non ci sono gradi di illuminazione. Una volta conseguitala essa è presente. È come tuffarsi in un oceano di sensibilità. Saltate, divenite tutt’uno con esso, come una goccia che cade nell'oceano e vi si confonde, ma ciò non significa che abbiate conosciuto tutto l'oceano. Il momento è assoluto: è il momento in cui l’ego viene abbandonato, L'istante dell’eliminazione dell'Io, l’attimo della morte dell’ego. È assoluto e totale. Per quanto vi riguarda è perfetto. Ma per quanto riguarda l’oceano (per quel che concerne il divino) si tratta soltanto di un momento iniziale, l’inizio di un processo che non avrà mai fine. Vi è una cosa da ricordare: l'ignoranza non ha principio,ma ha un termine.

Non riuscirete mai a scoprire dove ha avuto inizio la vostra ignoranza. Ve la trovate accanto da sempre; da sempre essa vi circonda. Non ne scoprirete mai l'inizio: non c’è principio. L'ignoranza non possiede un punto iniziale, ma ha un termine. L’illuminazione comincia, ma non finisce mai. I due punti vengono a coincidere; sono in realtà lo stesso. L’inizio dell'lluminazione e la fine dell’ignoranza coincidono. È un unico punto, un punto pericoloso a due facce: l'una è rivolta a un'ignoranza che dura da sempre e l’altra all’inizio di un’illuminazione che non avrà mai fine.

Conseguite cosi l'illuminazione, eppure non la raggiungete mai. Pervenite ad essa, vi ci immergere, divenite tutt'uno con essa, eppure l’ignoto è sempre là, nella sua immensità. È questa la sua bellezza e il suo mistero.

Se con l’illuminazione tutto divenisse noto, non ci sarebbe più alcun mistero. Se cosi fosse, l’intera faccenda diverrebbe sgradevole. Dissolto completamente ogni arcano, tutto sarebbe morto. L’illuminazione non è « conoscere » in questo senso. Non è conoscere come suicidio. È conoscere come apertura a sempre maggiori misteri. « Conoscere » significa quindi avere nozione del mistero, esserne consapevoli. Non significa averlo risolto una volta per tutte: l’illuminazione non è il possesso di una formula matematica per cui tutto ora vi è noto. Il conoscere dell’illuminato significa piuttosto essere giunti al punto dove il mistero è divenuto definitivo.

Avete riconosciuto che questo è il fondamento di ogni mistero; l’avete conosciuto come mistero esso stesso. Ora l'arcano è divenuto tale che non avete più alcuna speranza di risolverlo. Ora lasciate ogni speranza. La vostra, però, non è sfiducia, non è disperazione. Avete soltanto compreso la natura del mistero.

L’arcano è tale da essere insolubile; il mistero è tanto fitto che è assurdo finanche sforzarsi di svelarlo. Cercare di far luce in esso con i mezzi dell’intelletto non ha senso. Siete arrivati al limite delle vostre possibilità razionali. L’intelletto ora cede le armi e si comincia a conoscere. È qualcosa di completamente diverso dal conoscere scientifico. La parola « scienza » significa - è vero - acquisizione di conoscenza, ma qui il senso è quello di penetrare a svelare gli arcani, mentre il conoscere religioso significa assolutamente l’opposto. Non si tratta, in esso, di indagare e rendere manifesta la realtà; tutt’altro. Anche quanto già si conosceva ridiventa in questa dimensione misterioso, comprese le cose di tutti i giorni sulle quali eravate certi, assolutamente certi, di sapere tutto. Ora perfino la porta è scomparsa. Tutto, in un certo senso, diviene inaccessibile... infinito e irresolubile.

Il conoscere va concepito in questo senso: è partecipare dell’esclusivo mistero dell'esistenza, dire si all’arcano della vita. L’intelletto non ha ora alcuno spazio per le sue teorizzazioni. Siete faccia a faccia con il mistero, e l'incontro è esistenziale... non per il tramite della mente, ma tramite voi stessi, tramite la totalità di voi stessi. Lo sentite con ogni parte del vostro essere: il vostro corpo, gli occhi, le mani, il cuore, l’intera vostra personalità giunge in contatto con il mistero assoluto. Questo è soltanto un inizio. La fine non verrà mai, poiché la fine sarebbe demistificante.

Questo è l’inizio dell’illuminazione. Non vi sarà mai fine, ma questo è l’inizio. Capite che l'ignoranza è finita, ma non ci sarà un termine a questo stato illuminato della mente. Siete saltati ormai in un abisso senza fondo.

Potete concepire il processo in tanti modi quanti sono i punti di vista. Se si perviene a questo stato mentale attraverso kundalini, sarà un’interminabile fioritura. I mille petali del sahasrara non sono realmente mille: « mille » sta a indicare semplicemente un numero superiore a ogni immaginazione. È un simbolo. Significa che i petali di kundalini che si stanno schiudendo sono infiniti. Continueranno a schiudersi, a schiudersi e a schiudersi. Assisterete al loro primo sbocciare, ma non ne vedrete mai la fine. Non c'è limite al processo. Si può giungere a questo punto attraverso kùndalini o per altre vie. Kundalini non è indispensabile.

Coloro che conseguono l'illuminazione per altre vie giungono allo stesso punto; differirà soltanto il nome, il simbolo sarà diverso. Le vostre rappresentazioni mentali varieranno poiché questo non è evento che si possa descrivere, e poiché quanto è possibile descrivere non corrisponde esattamente a quanto sta accadendo. La descrizione non è che un’allegoria, è per forza di cose metaforica. Potete dire: "È come un fiore che si schiude"... ma non c'è affatto alcun fiore. La vostra sensazione è però esattamente quella di essere un fiore che sta cominciando a sbocciare. La sensazione è né più né meno quella dell’aprirsi. Ma qualcun altro potrebbe esprimersi altrimenti. Potrebbe ad esempio dire: «È come lo spalancarsi di una porta... di una porta che dà sull'infinito e che non cessa mai di aprirsi». E chi più ne ha più ne metta.

I tantrici adottano una simbologia sessuale. Loro possono usarla! Dicono: « È un incontro, un'unione senza fine ». Quando il Tantra afferma che « è proprio come nel maithuna (rapporto sessuale)», quanto intende è «un incontro dell'individuo con l’infinito... ma interminabile, eterno».

Il fenomeno si può rappresentare anche in questa forma, ma ogni rappresentazione è destinata a essere metaforica. Ogni rappresentazione è simbolica; non può che essere cosi. Ma quando dico «simbolico», non intendo certo che un simbolo non abbia significato.

Un simbolo ha significato fintantoché è soltanto la vostra individualità, che l’ha concepito e l’adotta, a essere in causa. Vi sarebbe impossibile rappresentarvi la cosa altrimenti. Una persona che non ha mai amato i fiori, che non ha mai imparato a conoscerli, che passando fra i fiori non li ha mai degnati di uno sguardo, che per l'intera sua vita non ha mai avuto nulla a che spartire col «regno floreale », non potrà certo sentire l’illuminazione come lo sbocciare di un fiore. Se però voi l’avvertite in questo modo, ciò ha una quantità di significati. Vuol dire che il simbolo vi è congeniale, che corrisponde in un modo o nell’altro alla vostra personalità.

Osho 



Il bisogno di "spazio" cambia con le situazioni vissute...



I confini dello spazio personale cambiano molto da persona a persona, a seconda delle culture e degli ambienti. Nel 2020 la pandemia ha introdotto un elemento del tutto nuovo che ha inciso sul nostro livello di comfort quando siamo in presenza di altre persone. Mantenere una distanza fisica è stata per mesi una delle poche cose che potevamo fare per limitare il rischio di infezione. I consueti spazi personali improvvisamente erano diventati “sbagliati”.

Questo cambiamento è illustrato molto bene dall’anticipazione di uno studio di Daphne Halt e colleghi di Boston, Massachusetts. I ricercatori pensano che le nostre preferenze sugli spazi personali non solo ci raccontino molto degli effetti della pandemia, ma possano essere usati come indicatori per monitorare il ritorno alla normalità.

Gli autori sostengono che l’aumento dei limiti personali perfino nella realtà virtuale, dove non esiste alcun rischio di infezione, possa essere indicativo di cambiamenti nella rappresentazione neuronale della “zona di sicurezza” che circonda il nostro corpo e nei circuiti sensorio-motori del cervello che assolvono al compito di mantenerci al sicuro.

Esiste la possibilità che questo aumento persista anche oltre la pandemia; ma è altrettanto possibile che il nostro bisogno di spazio ritorni a livelli prepandemici una volta risolto il problema. La scala in base alla quale sono state misurate le distanze sociali non ha precedenti, e quindi è difficile fare previsioni su come queste si assesteranno in futuro.

Spiritual Informa - Edizione N. 388/12